mercoledì 10 Aprile 2024
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Ingegner Angelo Napoli, con Tostabar: “Una tecnologia che è funzionale e semplificata”

L'imprenditore: "Abbiamo pensato, progettato e costruito, una macchina specifica per tostare all’interno dei bar: Tostabar è stata la prima tostatrice di caffè studiata dal punto di vista di ergonomia, compattezza e sistemi di controllo dedicata a questo mondo!"

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MILANO – L’Ingegner Angelo Napoli è un uomo dalle molteplici qualità e altrettanti ruoli: in primis, Presidente e co-fondatore del gruppo Ing. Napoli & C. di Lavello, nonché proprietario dei marchi Tostabar Genius, Don Fernandos Caffè e Regina e, infine, instancabile formatore, maestro artigiano torrefattore, appassionato dell’espresso italiano.

Il Gruppo Ing. Napoli & C. opera in 4 settori: caffè torrefatto, macchine torrefattrici, macchine per espresso e caffè crudo

Le manca soltanto la parte delle origini e ha ripercorso l’intera filiera…come ci è riuscito?

“Di tutto il mio percorso professionale, la parte più interessante non è stata la laurea in ingegneria, né la certificazione Q Arabica Grader di cui peraltro vado molto fiero: 20 anni fa, di assaggiatori professionisti ce n’erano pochi e mi sembrava un mondo molto lontano da raggiungere.

L’aspetto della mia carriera di cui sono maggiormente orgoglioso sta proprio nell’innovazione che abbiamo portato in Italia con la prima tostatrice per il bar.

Abbiamo pensato, progettato e costruito, una macchina specifica per tostare all’interno dei bar: Tostabar è stata la prima tostatrice di caffè studiata dal punto di vista di ergonomia, compattezza e sistemi di controllo dedicata a questo mondo. È stata una rivoluzione.

Tutto è nato con questo unico obiettivo, per il desiderio di entrare nel mondo del caffè attraverso l’horeca: siamo nel 2002, quando io e mio padre ci siamo trovati di fronte a un mercato maturo, influenzato da grossi capitali che avevano e hanno tuttora un impatto sulla vendita.

Avevamo dunque bisogno di un’offerta di alto valore e che avesse una fortissima differenziazione, per questo abbiamo pensato di consentire a ciascun barista di crearsi il proprio caffè, una micro roastery all’interno del proprio locale.

Siamo partiti con questa missione.

In seguito abbiamo deciso di includere anche le altre parti dell’azienda, come conseguenza della nostra crescita. Ad un certo punto ci siamo detti: la nicchia che seguiamo con Tostabar va servita in un certo modo, ma c’è un mondo ancora più ampio dietro da sviluppare.

C’erano operatori che non rientravano nel target di Tostabar per ragioni di spazio, economici, finanziari e di tempo. Ma perché rinunciare a servirli? Nel frattempo avevamo maturato una certa esperienza a contatto con la materia prima al punto da poter
avviare anche una torrefazione che oggi rappresenta il 50% del nostro fatturato e consiste in un lavoro altrettanto importante e stimolante.

Nel 2004 è uscito un bell’articolo sulla Gazzetta del mezzogiorno, che parlava della nostra azienda e secondo cui sarebbero nate 500 nuove torrefazioni in Italia grazie a Tostabar (che all’epoca si chiamava ancora Tostacaffè).

La nostra è stata un’innovazione che non è stata capita subito da tutti: alcuni temevano che potessimo rovinare il mondo del caffè, perché avremmo reso esplicito per i baristi quanto costa il caffè verde e quanto può guadagnare un torrefattore. Ma la risposta da dare era molto semplice: ormai il mondo sta cambiando e le informazioni sono alla portata di tutti, ognuno può fare la propria offerta in maniera competitiva e noi facciamo la nostra, che ha il suo specifico valore.

Tostabar continua da allora a progredire, così come lo fanno le torrefazioni italiane. Si tratta soltanto di una proposta mirata a una nicchia ben precisa.”

Ma le Tostabar sono funzionali anche per una microroastery?

“Il modello K3 funziona bene anche per le torrefazioni artigianali e cuoce 4 chili per ciclo, circa 16 chili/ora. Partiamo dal modello più piccolo, la K1 che produce sino a 1,4 chilo per ciclo, circa 4 chili per ora, perfetto per un bar che tosta sino a anche 150/200 chili al mese.”

Le sue macchine torrefattrici hanno il potere di uscire dalle roastery ed entrare nelle caffetterie: come avete strutturato questa rete del bean to bar?

“Bisogna innanzitutto comprendere che Tostabar nasce con delle funzionalità specifiche appunto per facilitare il raggiungimento di risultati di qualità, in automatico e con costanza.

La parola chiave è tecnologia, funzionale e semplificata. Questo è stato il passo più difficile da compiere, il resto poi è venuto da solo: quando una persona vede il risultato eccellente, diventa una referenza. Questo ci ha portato a entrare nelle caffetterie.

Il lavoro che abbiamo svolto in questi anni è stato notevole: i primi 10 anni di attività sono stati molto duri, a volte abbiamo anche pensato di mollare.

Guidavo il mio furgoncino Doblò con cui ho girato l’Italia più e più volte da nord a sud, trasportando la Tostabar che ogni volta dovevo scaricare per poterla mostrare ai clienti e collegarla per tostare dal vivo.

Parlare soltanto di torrefazione, era ancora troppo presto per i baristi. Bisognava far loro toccare con mano il funzionamento della macchina.

Oggi, all’anno, riusciamo a produrre un centinaio di Tostabar: siamo partiti da 5 macchine.

Direi che di strada ne abbiamo fatta. Siamo soddisfatti del nostro lavoro sin qui, ma al di là del fatturato, siamo orgogliosi di quello che offriamo ai nostri clienti che finalmente possono realizzare quello che molte volte era un loro sogno.

Tante sono state le persone che mi hanno detto: erano 30 anni che avevo questa idea e voi siete riusciti a farmela concretizzare.

Il team (foto concessa)

C’è un lavoro di squadra notevole dietro e sono stato fortunato a mettere in piedi un team di veri talenti che mi affiancano: siamo una quindicina in totale. E poi, ho avuto una grandissima persona alle spalle a cui devo tutto: mio padre Fernando Napoli.

Padre e figlio (foto concessa)

Ovviamente è impegnativo, perché si fa fatica anche solo di parlare di purge al barista, figuriamoci poi parlare di sviluppare un profilo di tostatura. Ma a tal proposito abbiamo messo a punto diversi sistemi di comunicazione, tra libri, articoli e manuali, che ci facilitano il compito di parlare con i nostri clienti. Siamo molto focalizzati su questo obiettivo.

Ci tengo a sottolineare un fatto: non è vero che in Italia va tutto male e che la qualità del caffè è dappertutto bassa.

Parliamo di un prodotto di cui tutti dobbiamo andare orgogliosi, perché è una bevanda unica, che va consumata in un contesto spazio-temporale ben preciso e unico al Mondo: una manciata di minuti al banco del bar.

Il mondo anglosassone o nord europeo ha molto influenzato alcuni operatori, con tostature chiarissime e monorigini.

Ma io sono sicuro di una cosa: agli italiani piace un caffè cremosissimo e dolce e vince sul mercato chi è in grado di interpretare e centrare questa preferenza fortemente radicata nella nostra identità, mantenendo alta la qualità. E di aneddoti a dimostrazione di questo fatto, ne ho raccolti tantissimi nei miei anni di viaggi.

Persino in una caffetteria specialty, un giorno in cui sono andato a fare assistenza, ho servito due signore che erano clienti abituali del posto: casualmente hanno assaggiato la miscela che avevo preparato con una tostatura più scura, giusto per fare un esperimento, ed erano rimaste stupite, apprezzandola tantissimo. E consideriamo che erano consumatori già con il palato allenato agli specialty.

Quindi cosa ho imparato: bisogna tutti perseguire la qualità, certo, ma è necessario non distaccarsi dalla nostra tradizione, che va rispettata e sfruttata al massimo.”

Lo specialty poi pone due problemi grossi: il primo è legato chiaramente al prezzo, che però può essere superato con un’adeguata comunicazione, il secondo è più difficilmente risolvibile, ovvero, la costanza del prodotto. La maggior parte degli italiani desidera ritrovare ogni volta, la stessa tazzina nel proprio bar, oltre che lo stesso barista a servirla.

La “consistency”, che si ottiene grazie alle miscele e ai caffè convenzionali, è un elemento fortemente caratterizzante dell’espresso italiano che è richiesto dal consumatore in primis e, di conseguenza serve al torrefattore.

Va bene quindi esercitarsi nell’assaggio e raccontare la storia di ciascun caffè, ma chi fa impresa oltre che innovare e alzare il proprio livello di qualità, deve intercettare le esigenze del mercato. Il torrefattore deve assicurare questa costanza.”

Le macchine Tostabar quindi sono così funzionali per un barista che non sa niente di tostatura?

“Il barista torrefattore deve conoscere alcuni passaggi chiave: la giusta temperatura di carico – che è la fase più importante per una cotta di successo, almeno vale l’80% del seguito – e saper poi maneggiare il caffè con cura.

Tutto il resto, l’ottenimento di una curva con un giusto sviluppo e un Ror decrescente è compito di Tostabar, che se ne occupa grazie al sistema brevettato orgogliosamente da me e mio padre.

L’ingegner Napoli con la sua Tostabar (foto concessa)

Basta sistemarla in due/tre metri quadri: quasi mai lo spazio diventa un limite per l’installazione.”

Qual è la maggiore difficoltà riscontrata in questi anni?

“Il problema principale resta l’investimento iniziale.

Una Tostabar k1, versione 4.0, è venduta ad un prezzo che non spaventa, ma servono dei numeri per renderlo sostenibile: un bar dovrebbe vendere almeno tra i 50-60 chili al mese di caffè per far tornare i conti. Si rientra della spesa in un anno.

Inoltre circa il 90% dei baristi italiani ha una macchina del caffè in comodato d’uso, circostanza che fa aumentare un po’ l’investimento, che tuttavia resta ancora accessibile.

C’è infine uno scoglio culturale da superare: non tutti sono pronti a pensare di essere in grado di creare la propria miscela. Ma tutte le rivoluzioni devono fare i conti soprattutto con una barriera di questo genere.”

Nel 2021, lei ha ricevuto il riconoscimento istituzionale da parte della Regione Basilicata “Dipartimento politiche di Sviluppo, lavoro, formazione e ricerca” della prestigiosa qualifica di “Maestro Artigiano – Torrefattore”, primo e unico in Basilicata e tra i pochissimi riconosciuti ufficialmente in Italia. Come è riuscito a raggiungere questo traguardo e cosa significa per lei da professionista?

“Il bando della Regione Basilicata viene pubblicato e c’è una Commissione artigianato che si riunisce per confrontarsi e individuare le eccellenze a cui conferire il riconoscimento. Per me è stato molto bello riceverlo, ma certo non mi faccio chiamare Maestro!”.

Come sono riuscito a distinguermi tra tutti? La qualifica di “maestro artigiano” è legata soprattutto alla capacità di formare allievi artigiani: c’è una carenza di artigiani in tutta Italia e quindi soprattutto si guarda a chi ha svolto un ruolo formativo con la propria azienda o con iniziative di divulgazione.

In effetti su questo campo mi sono sempre adoperato: ho istruito centinaia di torrefattori in Italia e ho messo a disposizione la mia esperienza, la mia conoscenza, anche con sacrifici, per creare altri artigiani.

Con questo spirito abbiamo raccolto tanto materiale nel tempo e che divulghiamo anche attraverso il nostro blog e i video Youtube, ad esempio nella collana i 7 segreti del caffè. Ho scritto persino un libro, concentrato sulla corretta torrefazione, escludendo i concetti di chimica e fisica, e che fosse una guida estremamente pratica a disposizione dell’artigiano.

I famosi 3 fondamenti della torrefazione – attribuire la giusta energia, un Ror decrescente, uno sviluppo contenuto tra il 20 e il 25% – nel mio libro sono diventati 4: sapendo che il picco del Ror avviene poco prima del primo crack, il mio quarto comandamento consiste nell’anticipare questo momento. Consiglio: preparati in anticipo, in modo da evitare di generare difetti in quella fase critica.”

Ha svolto anche una ricerca sul caffè in collaborazione con la Facoltà di Scienze e Tecnologie Alimentari presso l’Università degli Studi di Basilicata: in che cosa consiste questo studio, su cosa si è focalizzato e che cosa ha rivelato?

“Tutto è nato da una tesi di laurea: ho collaborato con la cattedra all’Università della Basilicata e mi sono imbattuto in questo lavoro che poi si è sviluppato in una più ampia ricerca insieme alla cattedra di normativa e diritto alimentare.

Abbiamo quindi tostato in 5 modi diversi, 4 caffè (Arabica naturale, Arabica lavata, Robusta naturale e Robusta lavata, cotti con 5 gradi di tostatura differente). Abbiamo analizzato i risultati, mettendo insieme un nutrito panel di assaggiatori non professionisti, registrando i vari gradi edonistici che hanno completato l’analisi. L’obiettivo: dare un’indicazione all’industria sulle preferenze dei consumatori.

In più abbiamo studiato la salubrità del prodotto: mi ha sorpreso fortemente i risultati di laboratorio, che hanno dato per più salubri i caffè con tostature più spinte. L’acrilamide più bassa, si è registrata nella cottura alla napoletana.

Devo dire che la collaborazione con l’Università è un aspetto che fa parte della visione della nostra azienda: i dati sono stati interessanti anche per noi. Confrontarsi con il rigore del laboratorio, spinge ad usare alcuni standard anche nei processi di lavoro aziendale. Alcuni li abbiamo portati nella nostra produzione abituale e così lavoriamo meglio. Parliamo di un rapporto che ha un ritorno che si traduce in una crescita professionale.”

A quali progetti state lavorando per lo sviluppo futuro dell’azienda?

“Attualmente abbiamo in corso un progetto che riguarda le macchine per espresso Regina: il modello che ci caratterizza principalmente è a leva, che ha come elemento differenziante il profilo di pressione durante l’estrazione, lo stesso che però comporta una certa fatica da parte dell’operatore. Bisogna saperla usare, e rallenta il lavoro: quindi stiamo cercando di rendere più agevole e semplice il meccanismo.

Parlando poi dei consumi energetici, stiamo tentando di ottimizzarli anche se non è affatto semplice riuscirci. Sulle macchine del caffè è stato sicuramente più facile farlo: utilizziamo dei dispositivi di risparmio energetico.

Mentre sulle tostatrici il discorso è più che altro di tipo economico: l’energia diventa un costo diretto, quindi più che lavorare sul risparmio energetico della macchina, si deve insistere sull’utilizzo consapevole della macchina. Si accende per lavorare un tot di ore, ottimizzando anche i consumi.

Sull’energia pensiamo più alla sostenibilità di un impiego consapevole, tostando ad esempio in orari in cui costa meno e senza farlo quotidianamente.

Proprio in questo periodo stiamo affrontando una transizione digitale della nostra azienda e nel 2024 affronteremo anche il tema delle certificazioni che diventeranno ormai per tutti piuttosto obbligatorie per poter avere accesso al credito bancario o a progetti agevolati.

Un altro obiettivo che ci poniamo per i prossimi anni è quello di creare una scuola.

Il complesso in cui siamo insediati ci consentirebbe di sviluppare anche questa parte formativa per diventare maestri torrefattori e anche per coprire un vuoto preciso: creare professionisti competenti dietro al bancone, di cui attualmente si sente il bisogno e la mancanza.

Credo che un’opportunità molto grande per il settore del bar sia rappresentata dai giovani che arrivano in Italia da tanti paesi del mondo che potrebbero aiutare il settore a superare la crisi dovuta alla ormai endemica mancanza di personale.

In ogni caso ritengo che il personale che opera nell’horeca debba essere pagato meglio: si tratta di lavori davvero impegnativi.

È inutile parlare di specialty coffee, se non ci sono i baristi e se non c’è personale che sappia fare manutenzione, massimizzare uno scontrino, accogliere un cliente, attuare un servizio corretto. Insegniamolo a chi vuole imparare un mestiere.

Una novità al di fuori dell’azienda e che però stiamo tenendo d’occhio è la Robusta brasiliana: il fenomeno si aspettava già da qualche anno, in sostituzione dei vietnamiti e degli indiani che iniziano a scarseggiare.

Ne ho provati alcuni e devo dire che ci siamo perché sono dei caffè che offrono in tazza tutto quello che si vorrebbe ottenere da un’ottima Robusta.

Per concludere, vorrei sottolineare che in Italia non si beve il caffè peggiore del mondo.

Sono un consumatore attento, viaggio molto dal nord al sud dello Stivale e mi capita spesso e volentieri di bere ottimi caffè, talvolta perfino in autostrada. A volte tuttavia succede di bere tazzine pessime anche in pasticcerie rinomate, e solo perché magari l’operatore quel giorno non è stato particolarmente attento.

I fattori sono tanti, ma credo che ciascuno di noi, me incluso, debba contribuire a valorizzare l’identità dell’espresso italiano. Questa non è retorica, ma è la consapevolezza di appartenere profondamente alla cultura che ha generato una bevanda unica su cui lavorare.

A questo proposito, sono completamente a favore della candidatura del caffè espresso italiano tradizionale all’Unesco, che può creare un movimento positivo attorno a tutta la filiera. È sicuramente una grande opportunità.”

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