mercoledì 10 Aprile 2024
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Barbagallo, Etna Roaster, sullo specialty: “Più facile cambiare il consumatore che il settore”

Il roaster: "In qualsiasi bar se si chiede cosa viene servito, la risposta è il marchio: questo è il cancro della caffetteria italiana, che è ancora schiava dei grandi marchi. Abbiamo poche caffetterie indipendenti e tanta approssimazione"

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MILANO – Sergio Barbagallo è l’uomo dietro Etna Roaster, un’impresa legata alla torrefazione che ha scelto di investire anche nello specialty coffee, nonostante le difficoltà del caso, soprattutto in un contesto come quello della Sicilia, dove certo non è ancora molto diffuso nelle abitudini di consumo come potrebbe essere in altre zone d’Italia come Milano, Roma, Firenze.

Barbagallo, facciamo il punto sulla situazione specialty lì da voi: è stato faticoso in questi anni, qualcosa si è mosso?

“Qualcosa si è mosso per ovvie ragioni, un po’ per il trend in crescita e un po’ sotto la spinta del turismo. Purtroppo non è diventato meno faticoso, perché è ancora troppo poco diffuso: siam ben lontani dal far parte di un movimento a differenza di quello che succede all’estero: la mia stagista della Repubblica Ceca mi ha raccontato che per lei è la normalità trovare roasteries e specialty coffee in città. Anche i turisti lo danno per scontato.

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L’italiano invece ancora è fuori da questo circuito e il motivo è che partiamo da un livello di base troppo basso: esiste ancora oggi un divario incolmabile tra la caffetteria ordinaria e lo specialty.

Ho deciso di passare a questo prodotto perché credo nel fare il mio lavoro nel migliore dei modi: non è più il tempo di improvvisarsi. Oggi fare imprenditoria non può essere solo seguire delle mode, ma significa anche essere innovativi nel proprio campo.

Qual è stata sin qui la difficoltà maggiore che ha affrontato?

Barbagallo: “La conoscenza di questa bevanda delle persone, che ancora oggi non sanno cos’è il caffè. In qualsiasi bar se si chiede cosa viene servito, la risposta è il marchio: questo è il cancro della caffetteria italiana, che è ancora schiava dei grandi marchi. Abbiamo poche caffetterie indipendenti e tanta approssimazione.

Questo in parte è anche dovuto al fatto che, bevendo caffè cattivo non è morto nessuno, come è invece avvenuto nel mondo del vino. Se il cappuccino è preparato male, al massimo il consumatore va in bagno, ma raramente il cliente collegherà il suo malessere a quello che ha trovato in tazza.

Quindi da una parte certo lo specialty è bello, ma dall’altra bisogna renderlo più accessibile e inserirlo nella quotidianità come prodotto base più pulito. Ad esempio, ai bar che lavorano con me, cerco di proporre un blend 100% Arabica. Questo perché è il primo step per arrivare a degustare dei monorigine. Si inizia dalle fondamenta per poi passare ad un livello superiore.”

Ma Barbagallo, lei fa tutto da solo?

“Gestisco tutto in autonomia: avere un’altra persona con cui dividere il lavoro non è sostenibile economicamente. Quindi mi occupo di tostare, di consegnare il caffè e anche di fare il controllo qualità nei locali che rifornisco.

Un domani potrei trovare qualcuno che sia in linea con i miei standard, ma come ogni buon artigiano dovrò decidere fino a quanto espandermi e nel caso rischiare di perdere parte del proprio valore. Al momento penso di poter continuare così, per seguire perfettamente i miei clienti, pur restando da solo.

Per quanto riguarda invece la diffusione dello specialty in Sicilia, c’è un aumento costante delle vendite e della crescita di questo prodotto anche qui. Ho seguito di recente un ragazzo che ha aperto un coffee shop con roastery a Milazzo: sono convinto che essere da soli a spingere questo prodotto non è un vantaggio per nessuno.

Bisogna invece essere in tanti e mantenersi diversi, comunicando con il consumatore per fargli capire la differenza tra un prodotto di largo consumo e uno più ricercato.”

A quali volumi siete arrivati?

“Intorno ai 10mila chili in totale di cui lo specialty costituisce circa il 15%.”

Il vostro mercato di riferimento è l’Italia oppure l’estero?

“Lavoro abbastanza con l’estero, a Malta, in Germania, con qualche paese dell’Est Europa. Il mio fatturato si compone per un 30% all’estero e per un 70% in Italia. Vendo più blend sia in Italia che all’estero. Il pensiero che solo da noi si bevano miscele è un po’ uno stereotipo.

Certo fuori ci sono capitali dello specialty coffee, c’è una maggiore offerta, sono tanti e le persone statisticamente hanno più probabilità di bere specialty.

Vendo più offline che online, nonostante il comodato d’uso. Ho uno shop online ma è volutamente involuto: è una piattaforma in cui si può ordinare, ma la piattaforma è strutturata in modo che si finisca sempre a parlare in chat con me, in modo da garantire un prodotto fresco e in linea con i gusti di chi acquista.

È necessario spesso confrontarsi e sono pronto a dare tutte le informazioni, creando un rapporto che permette poi di conoscere altre persone. Intendere il canale online in altro modo quando si parla di una materia prima di questo tipo, non ha senso.

Sono cresciuto lentamente proprio perché ho faticato a trovare i baristi disposti a uscire da questa dinamica. Come ci sono riuscito? Ho selezionato. Il gestore oggi, se vuole fare questo mestiere per davvero, deve acquistare le proprie attrezzature, formare il personale e avere un piano operativo efficiente.

Nel tempo, con un lavoro duro di comunicazione di 6 anni, dopo esser stato presente nel settore sono diventato conosciuto e le persone interessate vengono a cercarmi. Collaboro ad esempio con una ragazza di Malta che è arrivata ad Etna Roaster per sviluppare il suo progetto: siamo arrivati a fare 50/60 chili al mese, buona parte di specialty. Organizziamo insieme degli eventi anche serali, dedicati al caffè che hanno riscontrato un buon interesse.”

Voi non fate solo monorigine ma anche blend, usando anche la Robusta: non siete quindi dei “puristi” dello specialty che spesso usano esclusivamente single origin di Arabica. Ci raccontate questa scelta?

“Dobbiamo chiedere prodotti di qualità.

E passiamo quindi al tema della miscela: bisogna in tutti i modi riallacciare i consumatori a quello che è il caffè, ovvero un prodotto della terra. In Italia si vive con le miscele, spesso di bassa qualità.

Bisogna ed è possibile innalzare la qualità media e sfruttarla come trampolino di lancio per apprezzare i prodotti di singola origine. Da roaster educo, spiego, creo una rete di sinergie per poi arrivare al consumatore finale. E così si dà vita ad un movimento.

È quasi impossibile cambiare il settore: è molto più facile cambiare il consumatore. Aggrediamo il mercato dal lato opposto: informiamo il cliente, al fine da generare una richiesta che coinvolga il barista.”

Dal vostro punto di vista dove si sta orientando questo mercato? Sarà sempre una nicchia?

“Se la qualità media si innalzerà, potremmo pensare di vedere maggiori realtà specialty con più facilità. Avremo di base un pubblico più consapevole e vicino ad un prodotto di un certo livello. Sono contento di intravedere già anche nei clienti locali, un leggero cambiamento. Quando vado in altre torrefazioni siciliane sono felice di sostenere i miei colleghi per migliorare il segmento medio.

Per quanto riguarda il futuro di Etna Roaster, ho pensato tante volte ad aprire un nostro flagship. Ma non avrei potuto reggere la responsabilità di gestire bene anche un locale con mio marchio. Resta però tra i miei desideri futuri.”

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