venerdì 28 Novembre 2025
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Mercati del caffè: gli esperti si aspettano prezzi in discesa di qui a fine anno

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Il logo dell'Ice

MILANO – Mercati del caffè in ripresa nella settimana a cavallo tra febbraio e marzo. A New York, il contratto principale (maggio) ha perso 105 punti nella prima seduta del mese chiudendo comunque in positivo di 3 centesimi, rispetto al venerdì precedente. Londra inizia il mese al rialzo: il contratto per scadenza maggio dell’Ice Robusta ha guadagnato infatti 48 dollari, risalendo al massimo settimanale di 3.143 dollari.

A mettere sotto pressione gli arabica, i nuovi dati sull’export dell’Honduras, che è cresciuto, a febbraio, del 26% raggiungendo un volume di 932.678 sacchi.

Il massimo produttore centro americano è anche l’origine più importante per quanto riguarda le scorte certificate dell’Ice Arabica.

Ad allentare le tensioni sulla borsa newyorchese hanno contribuito anche le migliorate condizioni meteo in Brasile e una nuova stima di StoneX, che prevede un ulteriore balzo in avanti del 4,2% del prossimo raccolto brasiliano, a 67 milioni di sacchi.

Londra continua a ricevere supporto dai dati negativi dell’export dei due principali produttori asiatici di robusta

Le esportazioni del Vietnam hanno subito, a febbraio (dati provvisori dell’istituto generale di statistica di Hanoi), una caduta del 20% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso fermandosi a 160 mila tonnellate.

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Lavazza e Politecnico di Torino insieme per il workshop Coffee Design, sperimentazione attorno al mondo del caffè, 04-08/03

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Al via il workshop Coffee Design promosso da Lavazza e Politecnico di Torino: terzo da sinistra c'è Marcello Arcangeli tra i relatori del corso (immagine concessa)

TORINO – Dal 4 all’8 marzo, gli iscritti al corso di laurea triennale in design e comunicazione visiva del Politecnico di Torino e di design sostenibile per il sistema alimentare (inter-ateneo con l’Università di Parma), avranno la possibilità di partecipare al workshop Coffee Design – Sperimentare intorno al mondo del caffè promosso da Lavazza.

Lavazza insieme al Politecnico di Torino con il workshop Coffee Design – Sperimentare intorno al mondo del caffè

Durante i cinque giorni di laboratori previsti, gli studenti saranno immersi nel mondo Lavazza e avranno l’opportunità di comprendere l’expertise dell’azienda nella sperimentazione sul caffè, sviluppata in oltre 120 anni di storia.

Durante i giorni di formazione, gli alunni saranno stimolati a sviluppare una visione alternativa e innovativa sul prodotto, sul consumo e sulla comunicazione.

Il workshop, giunto alla 19° edizione, rappresenta ormai un punto di riferimento per gli studenti per prepararsi al mondo lavorativo, guidati dal professor Paolo Tamborrini (Responsabile del progetto), da Marcello Arcangeli (Lavazza Training Center Director), da Francesco Viarizzo (International training and F&B expertise manager) e da Michele Pulcher (Coffee senior trainer & ambassador).

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Il workshop Coffee Design (immagine concessa)

I ragazzi, divisi in cinque team, lavoreranno nelle aule del Training Center Lavazza, luogo simbolo che riunisce tutto l’impegno dell’azienda nell’ambito della formazione, della ricerca e della sperimentazione sul caffè.

La giornata di apertura del corso prevede una full immersion nell’universo del caffè con sessioni didattiche e pratiche per approfondire la conoscenza sulle origini della materia prima, seguendo il viaggio del chicco dalla pianta alla tazzina e analizzando i diversi sistemi di estrazione del caffè.

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Gli studenti durante il workshop Coffee Design (immagine concessa)

Agli alunni verranno assegnati una serie di progetti legati al mondo del caffè da sviluppare nei giorni successivi, sapientemente indirizzati e guidati dal team Lavazza. Sarà questa un’occasione preziosa per gli studenti per mettersi alla prova e capitalizzare gli insegnamenti acquisiti, poiché l’ultimo giorno di workshop i progetti saranno presentati in plenaria presso la sede del Politecnico in c.so Settembrini a Torino.

Nella collaborazione tra Lavazza e il Politecnico è stato fondamentale il contributo del Training Center Lavazza di Torino, struttura che da oltre 30 anni si impegna nella formazione e aggiornamento dei professionisti del settore, oltre che nella ricerca e sviluppo di nuovi prodotti legati al mondo del caffè.

L’attività di formazione (immagine concessa)

Lavazza è stata infatti la prima azienda a creare, nel 1979, un’istituzione dedicata alla formazione, una vera e propria scuola del caffè che oggi è diventata un network internazionale con oltre 50 sedi sparse nei 5 continenti e finalizzate alla diffusione a livello mondiale della cultura dell’autentico espresso italiano.

La scheda sintetica del Gruppo Lavazza

Lavazza, fondata a Torino nel 1895, è un’azienda italiana produttrice di caffè di proprietà dell’omonima famiglia da quattro generazioni.

Il Gruppo è oggi tra i principali protagonisti nello scenario globale del caffè, con un fatturato di oltre 2,7 miliardi di euro e un portfolio di marchi leader nei mercati di riferimento come Lavazza, Carte Noire, Merrild e Kicking Horse. È attivo in tutti i segmenti di business, presente in 140 mercati, e con 8 stabilimenti produttivi in 5 Paesi.

La presenza globale è frutto di un percorso di crescita che dura da oltre 125 anni e gli oltre 30 miliardi di tazzine di caffè Lavazza prodotti all’anno sono oggi la testimonianza di una grande storia di successo, per continuare a offrire il miglior caffè possibile in qualsiasi forma, curando ogni aspetto della filiera, dalla selezione della materia prima al prodotto in tazza.

Il Gruppo Lavazza ha rivoluzionato la cultura del caffè grazie ai continui investimenti in Ricerca e Sviluppo: dall’intuizione che ha segnato il primo successo dell’impresa – la miscela di caffè – allo sviluppo di soluzioni innovative per i packaging; dal primo espresso bevuto nello Spazio alle decine di brevetti industriali sviluppati.

Un’attitudine a precorrere i tempi che si riflette anche nell’attenzione rivolta al tema della sostenibilità – economica, sociale e ambientale – considerata da sempre un riferimento per indirizzare la strategia aziendale. “Awakening a better world every morning” è il purpose del Gruppo Lavazza, che ha l’obiettivo di creare valore sostenibile per gli azionisti, i collaboratori, i consumatori e le comunità in cui opera, unendo la competitività alla responsabilità sociale e ambientale.

Massimo Zanetti eletto presidente di Fondazione Canova, chiusa l’era legata al nome di Vittorio Sgarbi

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Massimo Zanetti cittadino onorario
Massimo Zanetti presidente del Massimo Zanetti Beverage Group a un Gran Premio di Formula 1 di cui è grande appassionato: è stato anche sponsor personale di Ayrton Senna da Silva

Massimo Zanetti, presidente e amministratore delegato di MZ Beverage Group, è stato eletto presidente della Fondazione Canova. La decisione è emersa nel corso del Consiglio di amministrazione dell’ente tenutasi il 27 febbraio scorso. Si chiude così in questo modo l’era legata al nome e all’attività di Vittorio Sgarbi. Il ruolo di vicepresidente sarà ricoperto dal sindaco Valerio Favaro. Leggiamo di seguito parte dell’articolo pubblicato su Treviso Today.

Massimo Zanetti presidente della Fondazione Canova

POSSAGNO (Treviso) – Il Museo Gypsotheca Antonio Canova di Possagno chiude ufficialmente l’esperienza, burrascosa, con il critico d’arte e sottosegretario Vittorio Sgarbi e si affida all’imprenditore trevigiano del caffè Zanetti. Il 27 febbraio scorso si è infatti tenuto il primo Consiglio di amministrazione della nuova stagione.

I membri del Consiglio di amministrazione, nominati dal sindaco di Possagno, Valerio Favero, lo scorso 13 febbraio, hanno eletto all’unanimità le nuove figure di presidente e di vicepresidente che guideranno la Fondazione, Zanetti e Valerio Favero appunto.

non usare prodotti vecchi Massimo Zanetti Beverage mette in mostra il mondo della sua azienda
Massimo Zanetti mette in mostra il mondo della sua azienda

Massimo Zanetti, classe 1948, è presidente e amministratore delegato di Massimo Zanetti Beverage, società nota al grande pubblico per “Segafredo”, uno degli attori chiave a livello globale nel settore del caffè. Da sempre dedito alla filantropia, il patron della multinazionale del caffè ha dato vita alla Fondazione Zanetti Ets, con l’obiettivo di aiutare i minori in difficoltà tramite progetti nazionali e internazionali.

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La grande scultura il Punto nello Spazio di Arnaldo Pomodoro davanti a Villa Zanetti, sede del Massimo Zanetti Beverage Group a Villorba in provincia di Treviso

La forte passione per lo sport lo ha portato a sostenere numerose iniziative, dalla Formula Uno al basket. Tuttavia, ad avvicinarlo alla Fondazione Canova è stata la sua attenzione nei confronti della salvaguardia del patrimonio per le generazioni future e il suo interesse per il mondo culturale e artistico, del quale condivide i valori universali.

“Sono veramente onorato di assumere questo incarico da parte del Comune di Possagno. Darò tutto il mio impegno per valorizzare e sostenere la Fondazione Canova che tanto lustro dà al territorio e all’Italia tutta”: ha commentato il patron del colosso del caffè Massimo Zanetti a Treviso Today.

Qui è possibile leggere l’articolo completo di Treviso Today. 

Bergamo, chiusi 362 bar classici dal 2019: il modello è superato e ora i locali si reinventano multitasking, diversificandosi

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Il settore del bar e della ristorazione (immagine: pixabay)

Dal 2019 al 2023 sono stati chiusi 362 bar tra Bergamo e provincia. Il classico modello imprenditoriale è ormai superato considerato il cambio radicale della cornice socio-commerciale insieme alle abitudini e ai consumi dei clienti. Gestire un solo locale renderebbe troppo poco ed è per questo che gli imprenditori aprono nuovi esercizi, diversificandoli: dal bar il modello gestionale si è evoluto contaminandosi, dalla pasticceria al catering.

Leggiamo di seguito l’articolo di Donatella Tiraboschi per Il Corriere della Sera nell’edizione di Bergamo.

La crisi dei bar a Bergamo

BERGAMO – Una falcidia di 90 chiusure nel 2023 e di 362 dal 2019 allo scorso anno, tra Bergamo e provincia, chiarisce come il bar, per come lo si intende in modo classico, sia un modello imprenditoriale in crisi, superato. Ed è inutile dare la colpa solo al Covid o alla liberalizzazione delle licenze, afferma il Corriere della sera nella sua edizione dedicata al capoluogo Orobico.

È proprio cambiata la cornice socio-commerciale in cui gli esercizi pubblici sono innestati: più complessità, maggiore concorrenza, abitudini e consumi della gente che si sono modificati e, almeno per quanto riguarda i piccoli centri (dove il bar, in chiave aggregativa, è molto più del caffè che eroga), molta più fatica nella gestione (tra conti che non tornano e personale che non si trova).

Gestire un solo locale poi rende troppo poco ed è per questo che gli imprenditori aprono nuovi esercizi, diversificandoli: dal semplice bar il modello gestionale si è evoluto contaminandosi con altri segmenti; dalla pasticceria al catering, dal cocktail al ristorante. E poi, cruciale, è diventato il tema delle competenze; dare da bere e mangiare (anche bene) non basta più.

Per far quadrare i conti, anche l’imprenditore/gestore (si tenga presente che il 70% dei bar è di piccola dimensione, con un organico che non supera i tre addetti) deve metterci quel «quid» in più sul prodotto, sul servizio e sul marketing. Per capire dove vanno il gusto della gente e il trend dei consumi, sostiene Donatella Tiraboschi nell’articolo apparso nell’edizione bergamasca del Corriere della Sera.

Chiedere, per credere, a Diego Rodeschini, che oltre ad essere presidente del Gruppo bar, caffetterie e pasticcerie Confcommercio Bergamo è titolare in Valle Imagna di un’attività che ha seguito questa nuova tendenza “multitasking”.

Ma non tutti ce la fanno. “Per questo — spiega al Corriere —, è importante che soprattutto nei paesi piccoli, le amministrazioni comunali possano intervenire e tutelare la resilienza dei locali pubblici. Gli stessi proprietari degli immobili dovrebbero venire incontro ai gestori, calmierando il canone di locazione”.

Una voce o meglio un appello, quello di Rodeschini, che si alza deciso davanti al quadro statistico elaborato da Confcommercio Bergamo (su dati dell’Osservatorio Dataviz) che narra di un mondo, legato alla ristorazione, emblematico di un contesto sociale in continua evoluzione. Dove Bergamo non fa eccezione.

Se i bar, che non hanno cucina, ma solo tavola fredda e bevande, nel quadriennio 2019-2023 hanno registrato una flessione del 10,5% (ne restano attivi oggi poco più di tremila tra città e provincia), i ristoranti, che sul periodo avevano registrato un incremento del 2,5%, hanno perso, dal 2022 al 2023, ben 42 insegne.

Esaurito il boost post pandemia stanno subendo, proprio negli ultimi mesi, un calo. “Succede dopo aver conosciuto una lunga e straordinaria curva di crescita, grazie all’aumento dei consumi fuori casa e del turismo, ma la crisi li morde con il crollo dei consumi e bollette care”, puntualizza al Corsera Oscar Fusini, direttore di Confcommercio Bergamo.

A svettare su tutti, rivela il Corriere, sono le imprese di fornitura pasti, e cioè mense e catering, cresciute del 27,5% sul quadriennio e del 5,5% dal 2022 al 2023, anche se si tratta di un segmento meno rilevante in termini di fatturato e volumi, rispetto al mare magnum di bar e ristoranti: costituiscono, infatti, solo il 5,2% del comparto.

Disaggregando il macro dato di 7.105 imprese della ristorazione attive sul territorio alla fine del 2023, (pari a -3,1% rispetto alla fine del 2021 quando in esercizio c’erano 7.336 unità) si contano così, oltre ai 3.070 bar, 3.711 imprese della ristorazione (in tutte le salse, con le cucine internazionali, l’asporto, i sushi bar e i kebab e chi più ne ha più ne metta).

Nel dettaglio, ristoranti e pizzerie sono 2.305 (32,4%), 859 sono senza somministrazione e asporto (12,1%), 370 pasticcerie e gelaterie (5,2%), 94 (1,3%) imprese di ristorazione e pasticcerie ambulanti, oltre a 41 imprese (0,6%) di altri microsettori.

Quanto alle 366 aziende di fornitura pasti, il numero si parcellizza in 296 mense, 15 catering su base contrattuale e 55 imprese di catering per eventi e banqueting.

Altri elementi riportati dal Corsera aiutano a chiarire un quadro settoriale composito, dove a segnalarsi particolarmente attive sono le imprese femminili dei servizi della ristorazione; a Bergamo sono 1.845, pari al 32%, e sono in percentuale più alte del totale della Lombardia, 27%, e dell’Italia, 28%, rivela il Corriere.

Le imprese giovanili (con proprietà o controllo in prevalenza under 35) sono 695, pari all’11,9% del totale, mentre le imprese straniere sono 1.085, pari al 18% del totale. Il settore presenta 2.826 ditte individuali attive (39,8%), 1.886 società Snc e Sas (26,5%) e 2.116 Srl, Srls e Spa (29,8%).

“Il calo vistoso della costituzione di società di persone a favore delle forme di società di capitale — evidenzia ancora Fusini all’edizione di Bergamo del Corriere della Sera — va in scia alle norme introdotte nel nostro ordinamento a partire dal 2012 con l’obiettivo di rendere più accessibile e meno costosa la costituzione della società”.

Marr, specialista della vendita e distribuzione per i pubblici esercizi, porta nel 2023 i ricavi a 2.085 milioni

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Il logo Marr

RIMINI – Si è tenuta il primo marzo a Rimini la Convention commerciale del Gruppo Marr (Milano: MARR.MI), leader in Italia nella commercializzazione e distribuzione al foodservice di prodotti alimentari e non-food. All’evento, il cui tema è “We are Marr”, prenderanno parte oltre 1.000 persone – managers commerciali e Forza Vendita – provenienti dalle oltre 40 unità distributive del Gruppo presenti su tutto il territorio italiano.

La Convention sarà l’occasione per condividere con l’organizzazione commerciale le linee di sviluppo per il rafforzamento della leadership di mercato.

Il Gruppo Marr chiude il primo esercizio dei suoi 52 anni di storia superando i 2 miliardi di euro di giro d’affari, con un preconsuntivo di ricavi totali consolidati che nell’esercizio 2023 si attesta a 2.085 milioni di euro (1.930 milioni nel 2022).

Prosegue inoltre l’impegno del Gruppo per uno sviluppo sostenibile, con il recente lancio di iniziative in materia di “Salute e nutrizione” volte a promuovere stili di vita sani e caratterizzati da una corretta alimentazione.

In tal senso sono stati progettati percorsi di formazione rivolti ai propri dipendenti e collaboratori, ad alcune categorie di persone particolarmente sensibili (bambini e adolescenti) nonché ai propri clienti, anche attraverso la selezione di una gamma di prodotti con specifici requisiti. In ambito ESG è dei giorni scorsi la conferma del rating AA di MSCI.

Si ricorda che il Bilancio Consolidato 2023 del Gruppo sarà sottoposto all’approvazione del Consiglio di amministrazione di Marr S.p.A. il prossimo 13 marzo.

La scheda sintetica di Marr

Marr (Gruppo Cremonini), quotata al Segmento Euronext STAR Milan di Borsa Italiana, è la società leader in Italia nella distribuzione specializzata di prodotti alimentari alla ristorazione extra domestica ed è controllata da Cremonini S.p.A..

Attraverso un’organizzazione composta di oltre 900 addetti commerciali, il Gruppo Marr serve circa 55.000 clienti (principalmente ristoranti, hotel, pizzerie, villaggi turistici, mense aziendali), con un’offerta che include oltre 25.000 prodotti alimentari, tra cui pesce, carne, alimentari vari, ortofrutta e con una significativa offerta di prodotti verdi, sostenibili e del Made in Italy (https://catalogo.marr.it/catalogo).

La società opera su tutto il territorio nazionale attraverso una rete logistico-distributiva costituita da oltre 40 unità distributive, alcune delle quali con cash&carry, e si avvale di oltre 850 automezzi.

Marr ha realizzato nel 2022 ricavi totali consolidati per 1.930,5 milioni di euro (1.456,3 milioni nel 2021) con un EBITDA consolidato di 82,1 milioni di euro (90,5 milioni nel 2021) ed un utile netto consolidato di 26,6 milioni di euro (35,1 milioni nel 2021).

Per maggiori informazioni su Marr basta cliccare qui

Il Bilancio di sostenibilità di Marr è disponibile qui

Luca Carbonelli, titolare dell’omonima torrefazione di Napoli spiega perché: “La categoria del caffè di qualità non esiste”

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Il torrefattore napoletano luca carbonelli qualità
Il torrefattore napoletano Luca Carbonelli dice la sua

Sono anni che circola l’espressione caffè di qualità in sottintesa contrapposizione con il resto del caffè che dovrebbe essere di scarsa qualità. Luca Carbonelli, titolare dell’azienda napoletana Caffè Carbonelli, ha espresso la sua opinione proprio su questo concetto all’interno del portale d’informazione Food Club.

Il caffè di qualità

di Luca Carbonelli

L’espressione caffè di qualità è stata lanciata, meglio dire che ha preso vigore, durante la prima puntata di Report incentrata sulla denigrazione del caffè espresso. Correva l’anno 2014; stesso anno della prima inchiesta sulla pizza, portata avanti sulla stessa falsa riga, e che, successivamente, ha visto i giornalisti di Report autoproclamarsi “salvatori della Pizza” perché a quanto pare credono d’esser stati loro a dare il via al nuovo filone della meglio conosciuta oggi come pizza contemporanea.

“Evidentemente in Report si ignora il fatto che i giovani nati e cresciuti in contesti di aziende familiari, nonostante l’imprinting marcatamente tradizionalista, crescendo studiano, viaggiano, sperimentano, provano, e poi portano nei locali di famiglia o nelle loro nuove imprese la propria conoscenza che intanto si è arricchita di nuova e diversa cultura.

Un attento osservatore potrebbe pensare che nel 2014 Report abbia iniziato strategicamente, e legittimamente per i propri interessi, una serie di puntate a tema destinate a far parlare a lungo, con l’intento di alzare l’audience e lo share anno dopo anno.

E in effetti ha avuto ragione. Parlate di pizza e di caffè e avrete sempre tutta l’attenzione degli italiani, figuratevi quella dei napoletani se chiamati in causa criticando i prodotti che più amano.”

Le inchieste

“Il 2014 – dicevamo – è stato l’anno in cui Report ha iniziato a toccare argomenti legati al caffè e alla pizza, di lì in avanti, soprattutto per il caffè, lo ha fatto a cadenza periodica, ogni 2 o 3 anni; e visto che pochi giorni fa è andata in onda l’inchiesta “definitiva” a tema pizza, con tanto di incoronamento, non è difficile ipotizzare che presto potremmo assistere all’ennesimo episodio dedicato al caffè.

Allora, prima che rischiamo di ritrovarci Report tra i padri fondatori anche del caffè di qualità, dopo esserlo divenuti della pizza contemporanea, ho deciso di anticiparli, ripercorrere i metodi giornalistici che hanno usato, provare a fare un po’ di chiarezza e, magari, evitare, almeno per il caffè, la medesima imbarazzante deriva.”

La qualità del caffè

“In queste inchieste i giornalisti di Report interrogano ciclicamente le medesime personalità chiamate da un lato a testare e a giudicare vari caffè consumati casualmente per la città, i quali risultano quasi sempre pessimi; e dall’altro lato a riconoscere, a distinguere, ed elogiare “caffè di qualità” incontrati probabilmente meno per caso.

Se volessimo pensar male verrebbe quasi da dire che, viste le difficoltà a trovare dei buoni caffè in città, quelli buoni li intercettano appositamente con l’intenzione di promuoverli. Ma non pensiamo male e ci limitiamo ad invidiare la gran fortuna di questi signori.

Per giunta, chi nel tempo ha seguito la saga, avrà potuto notare l’encomiabile quanto incomprensibile cambio di opinione che tra una puntata e l’altra alcuni di quei giudici hanno avuto su alcuni brand, dapprima criticati negativamente, e poi finiti per esser elogiati tanto, al punto da meritare menzioni e premi ufficializzati attraverso pagine di prodotti editoriali firmati da quegli stessi giudici chiamati in causa da Report per le sue inchieste. Quando si dice che il tempo cambia le cose. Menomale va.”

La candidatura Unesco e la valorizzazione del caffè

“Bene, terminata la doverosa premessa, servita per portarvi nel contesto, iniziamo subito chiarendo una cosa: non esiste una categoria di caffè denominata “caffè di qualità”.

Chi usa questa espressione intende banalmente riconoscere caffè esclusivamente Arabica, in tanti casi certificati Specialty, e per loro insindacabile giudizio lavorati a regola d’arte. Ma chi le fa le regole dell’arte? Non esiste un disciplinare che possa definire come deve essere lavorato un caffè a regola d’arte.

Anzi, ad onor del vero c’è da dire che si è provato a redigerlo qualche anno fa per presentare la candidatura del caffè espresso a patrimonio dell’Unesco ma è stato praticamente bocciato dall’istituzione preposta. Tra le altre cose, da operatore del settore, mi sento di dire che era un documento che presentava dei parametri talmente larghi che da risultare inadeguato, per non dire inutile.”

Una definizione approssimativa

“Proporrei quindi di archiviare sia l’espressione caffè di qualità che quella di a regola d’arte relativa alla preparazione del caffè; anche perché per quest’ultima, oltre alla preparazione del caffè prevista al momento dell’estrazione, ci sarebbe da discutere dell’arte legata a tutta la fase di lavorazione (tostatura), la quale, checché ne dicano i soliti esperti e giudici, imprenditorialmente parlando, può e deve seguire una varietà di logiche e di pratiche che vengono condizionate sia dal canale di mercato in cui il prodotto verrà distribuito (horeca, vending, casa), in quanto ad ognuno di questi è destinato l’uso di differenti macchinari per l’estrazione che necessitano di caffè lavorati diversamente per rimandare in tazza tutta l’essenza delle caratteristiche di ogni blend o monorigine; e sia dalla cultura del paese in cui sarà distribuito, che è legata alle tradizioni e ai gusti locali.

Ignorare la geografia, le culture, e i canali di mercato a cui è destinato un prodotto è purtroppo il più grave errore che commettono coloro che di caffè ne parlano senza l’incombenza di doverlo produrre e commercializzare, ma soltanto teorizzare o, quando va bene, servire.”

Alcuni equivoci sono chiarissimi

“In questi giorni in cui, guarda caso, sono andate in scena un paio di piccole fiere di settore tra Milano e Napoli, è tornato dirompente un vecchio articolo pubblicato da Repubblica, intitolato “Caffè, il più clamoroso equivoco gastronomico d’Italia”.

In questo articolo pubblicato da Repubblica e ripreso da Francesco Costa nel suo podcast Morning, del 15 novembre, intitolato: “I confini che diamo al mondo e le altre storie di oggi”, intervengono o vengono citati, oltre ai soliti esperti già noti grazie a Report, alcuni piccoli imprenditori i quali, tutti in accordo, insieme all’autore dell’articolo, concludono, a mo’ di filastrocca, che il caffè proposto in Italia è mediocre.

Questa volta però a supporto delle loro teorie aggiungono un’ulteriore regola che dovrebbe seguire il settore, non si sa bene da quali dati supportata. La regola vorrebbe che il caffè venisse venduto ad un prezzo minimo di 2 euro.”

Un caffè all’altezza delle aspettative

“Tutti i caffè proposti al di sotto dei 2 euro sarebbero di scarsa qualità. Ecco, questa affermazione è falsa.

Mi sono già lungamente espresso a riguardo, pertanto rimando ad un articolo a firma di Francesco Sanapo che, provocatoriamente ma non tanto – io direi molto concretamente – prendendo come spunto la ristorazione, effettua dei semplici calcoli concludendo che se in un locale vengono venduti ed erogati 30-40 caffè al giorno, in un paese come l’Italia in cui alcune caffetterie arrivano a vendere ed erogare 700 e più caffè al giorno, probabilmente il problema non è il prezzo del caffè che si vuol far credere essere sottopagato, bensì è la scarsissima capacità di rendere sostenibile un certo tipo di idea di impresa basata su sole nozioni teoriche.

Il messaggio di Sanapo è chiaro, e personalmente lo condivido in toto pubblicamente da anni: se vogliamo offrire un certo tipo di proposte dobbiamo creare locali all’altezza, educare imprenditori e lavoratori e, soprattutto, riuscire a venderle quelle proposte grazie ad una esperienza totale e non solo legata al prodotto fine a sé stesso.

A quel punto il prezzo del caffè non avrà più importanza. Se non si riesce a portare avanti questo tipo di operazioni, allora è bene che iniziamo a prendere seriamente in considerazione il fatto che, a prescindere dalla teoria, il risultato di tutti i prodotti è attestato dal mercato. Occorre iniziare a parlare più largamente di qualità dei modelli di impresa e non soltanto di caffè di qualità.”

I modelli di impresa

“Non occorre, o meglio dire che non basta, creare soltanto prodotti di un certo livello. Occorre creare aziende di un certo livello. L’ambizione di ogni impresa è fatturare e, progressivamente, creare posti di lavoro e utili.

Se non ci si riesce, evidentemente, alcune nozioni possono essere destinate soltanto alla formazione teorica, e non ad aziende di prodotti e somministrazione, perché in termini finanziari e commerciali avrebbero – almeno in Italia – un destino segnato dal fallimento perché basate su proposte diametralmente opposte ai tempi da rispettare delle aziende al momento del servizio, nonché ai gusti dei consumatori.”

Un’arte individuale

“Non dimentichiamo che alcune delle proposte di tanti chef stellati sono basate sui prodotti più popolari, quelli sì preparati a regola d’arte. Un’arte individuale che innalza il valore, anche economico, del prodotto e del servizio, insomma dell’esperienza tutta.

Dove sono invece i locali degli esperti del caffè di qualità? Ci sono locali in cui questi signori investono direttamente e si mettono in gioco praticando le loro teorie sulla qualità?

Personalmente credo sia molto più da elogiare un maestro torrefattore, un barista qualificato, capace di creare, lavorare, ed estrarre, un caffè studiato per avere un sapiente equilibrio tra dosi di Arabica e Robusta tale per essere apprezzato dal fruitore principale che è l’unico ad attestare il successo di un prodotto e di un’azienda: il pubblico.

Ancor di più oggi, che il pubblico è abituato a anche a consumare caffè monoporzione direttamente a casa grazie all’uso di macchine domestiche che permettono l’estrazione di caffè espresso vicino all’immaginario di quello dei bar, lavorare caffè anche per questo tipo di canale è diventato ancor più complicato.

Dosare Robusta e Arabica per permettere al binomio macchina/caffè di rimandare un buon espresso in tazza al consumatore non è impresa semplice.

Fin a poco tempo fa i giudici demonizzavano il canale dei monoporzione, poi probabilmente sono andati a scuola di Finanza e, consapevoli dell’enorme mercato che si è creato intorno a questo filone casalingo, alcuni di essi hanno addirittura iniziato a commercializzarle. Potere del tempo e dei legittimi sforzi di tener su le proprie imprese.”

L’analisi finanziaria

“Le dinamiche finanziarie in cui, fortunatamente, evapora un certo tipo di qualità. L’analisi finanziaria, quando si tratta di caffè e di imprese legate al caffè, è molto articolata.

Se la si vuol far combaciare con quella esclusiva teorica qualità delle proposte, diventa quasi chimerica: grazie ad alcune multinazionali, Starbucks su tutte, che ha avuto il merito di indicare la strada anche ad alcune grandi aziende italiane, abbiamo capito che un certo tipo di proposte possono essere effettuate solo all’interno di un certo tipo di locali.

E allora qual è il problema? È che un certo tipo di locali, talmente belli che varrebbe la pena pagare un biglietto di ingresso, ragion per cui passa in secondo piano anche l’eccessivo prezzo dei prodotti, riesce a realizzarli soltanto un certo tipo di aziende.”

Luminist

Ultimamente a Napoli registriamo l’apertura (benedetta) di un locale stupendo: Luminist, caffetteria e Bistrot per il momento, anche fine dining in futuro. Il locale è parte del progetto Gallerie d’Italia, e prende vita in uno storico palazzo di Via Toledo.

Gallerie d’Italia è un progetto finanziato anche da Banca Intesa San Paolo; va da sé che gli ingenti investimenti effettuati per la realizzazione degli spazi destinati ai servizi di ristorazione e caffè sono stati di una banca. La potenza di Starbucks e del Gruppo Percassi (referenti per l’Italia), dall’altra parte, sono stati i pilastri su cui invece si è creata la Roastery Starbucks a Milano.

Non risultano pervenuti, purtroppo, ulteriori locali degni di nota che propongono una proposta analoga. Questo per dire che, evidentemente, se nessun piccolo o medio imprenditore tenta di investire in un certo format è perché un certo format è molto dispendioso.

In sostanza si rischia che locali di un certo tipo – e nessuno se lo augura – siano destinati a chiudere il bilancio d’esercizio costantemente in perdita a causa delle grosse spese di gestione da un lato, e dell’esiguo numero di consumazioni che, seppur pagate ad un prezzo più alto, non arriverebbero mai a coprire quelle spese.

Chiudere il bilancio in perdita è superabile per qualche tempo, solo per alcuni gruppi finanziari, e solo quando altre attività del gruppo permettono di sopperire le perdite. Ma per piccoli e medi imprenditori, rischiare di investire tanto su un certo tipo di proposta senza cambiare il concept, il format, e tentando di limitare le spese di gestione del locale, può essere solo l’inizio della via verso il fallimento.”

Caffè buono o cattivo? Il mistero del fantasma formaggino

“Ma torniamo più materialmente al caffè. In locali come il Luminist, soprattutto se in questi anni avessimo preso come oro colato tutte le nozioni teoriche sapientemente decantate dai massimi esponenti dei caffè di qualità, non ci aspetteremmo mai di trovare offerte le proposte di un brand ultra commerciale come Lavazza.

Soprattutto se accostato ad una pasticceria di assoluta qualità come quella del Maestro Armando Palmieri, e ad un ottimo servizio proposto da uno staff super preparato.

Dobbiamo essere intellettualmente onesti. Nonostante alcune buone proposte del brand e alcune linee monorigine di valore, Lavazza nell’immaginario collettivo, e non solo, risulta essere uno dei caffè più popolari e commerciali che abbiamo in circolazione.

Non fraintendetemi, per me è una cosa positiva essere un brand popolare, in quanto significa che si realizzano fatturati e utili enormi contribuendo alla crescita del Prodotto interno lordo del Paese.

Ma non sempre questo coincide con la definizione di qualità che vogliono inculcarci gli esperti.

Il fatto che si proponga questo brand in un locale di lusso, di qualità, in un momento storico in cui si fa tanta teoria elogiando le torrefazioni e, soprattutto, le micro torrefazioni che propongono caffè di qualità, specialty coffee, ecc. non so come dire, stride un sacco con tutto quello storytelling; soprattutto se tanti elogi provengono dagli stessi onnipresenti esperti e giudici che, in tempi non sospetti, hanno tanto criticato i prodotti di quello stesso brand, finendo poi per elogiarlo e premiarlo quando ha iniziato ad investire su un certo tipo di format.”

Coerenza e onestà

“Certe scelte non dipendono dalla qualità dei prodotti, ma dalla forza finanziaria e dai rapporti tra gli stakeholder. Alcune volte il prodotto passa, anche giustamente, in secondo piano. Poi si lavora per migliorarlo. E in Luminist ci sono riusciti rendendo buono un prodotto che nasce e si propone tra i più commerciali del settore.

Servirebbe a questo punto un po’ più di coerenza e onestà intellettuale da parte di chi è chiamato a valutare la qualità; o forse una maggiore conoscenza dei mercati. La verità è molto semplice: non ha senso parlare di caffè di qualità perché la stragrande maggioranza delle torrefazioni italiane è capace di produrre caffè di qualità, e ognuna, nella propria linea di prodotti inserisce almeno una miscela di caffè che presenta tutti i parametri utilizzati dagli esperti per rientrare in tale definizione.

D’altra parte, possiamo affermare senza timore di smentita che, gli stessi giudici che oggi elogiano il brand Lavazza per le proposte che presenta nel nuovo locale napoletano, se in una delle prossime inchieste visitassero altri dieci locali dove si propongono miscele di caffè del medesimo brand, sicuramente non potrebbero valutarlo come degno di menzione tra quelli offerenti caffè di qualità. Ci basterebbe rivedere qualcuna delle prime puntate di Report.

E allora come è possibile che lo stesso brand, nella stessa città, per lo stesso canale di mercato, possa riprodurre in tazza un caffè di qualità in un locale, e un caffè pessimo in un altro locale?”

Misteri del settore. Misteri molto chiari però per chi il settore lo vive

“Ragion per cui invito i lettori, i telespettatori, e i consumatori, a non prendere come oro colato tutto ciò che viene scritto negli articoli di giornali che elogiano o screditano un certo tipo di caffè, un certo tipo di lavorazione, o un brand specifico. A non prendere come verità assoluta tutto ciò che viene riprodotto in certe inchieste giornalistiche televisive.

Il settore caffè, probabilmente come tutti i settori del mercato, se non di più, è guidato da una miriade di interessi che, a volte anche in buona fede, pregiudicano i giudizi dei diretti interessati.

Il consiglio è di tentare di restare informati, di approfondire, di testare, assaggiare, e basarsi sempre e solo esclusivamente a quello che è il proprio gusto personale che, progressivamente, oltre ad essere sempre più allenato, sarà anche sempre più consapevole di tutti i pregi e i difetti, le storture e le virtù, di un settore padre di uno dei prodotti che sarà costantemente tra i più discussi della storia.”

Luca Carbonelli

Luigi Odello: “Pensare alla tostatura in modo olistico”, il risultato finale degli aromi nei chicchi è superiore alla somma delle molecole originarie

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Luigi Odello zucchero inei tostatura
Luigi Odello del Centro studi assaggiatori

Secondo Luigi Odello, professore di analisi sensoriale in università italiane e straniere e presidente del Centro Studi Assaggiatori e dell’Iiac, Istituto internazionale assaggiatori caffè, per fare una buona tostatura, occorre abbandonare l’idea di una semplice evoluzione delle molecole di partenza, e cominciare a immaginare il chicco come un grande reattore chimico. Leggiamo di seguito un estratto del suo libro Espresso Italiano Roasting dal sito Coffee Toaster.

Più componenti per la miscela dalla medesima materia prima

di Luigi Odello

Variando le modalità di tostatura è possibile ottenere diverse componenti della miscela. Innumerevoli sono i vantaggi che ne derivano: economie di scala negli acquisti, ottimizzazione del magazzino, facilità di gestione della materia prima.

Anche qui, il motivo per cui questa via è scarsamente praticata è fortemente dipendente dalla difficoltà che ha il torrefattore di avere mezzi che gli consentono un adeguato e rapido monitoraggio sulle caratteristiche del verde e dalla non conoscenza di quanto avviene durante la cottura dei chicchi.

Se una cosa non c’è, non può originarne un’altra

In mancanza di precursori di aromi nel verde, nel tostato certi caratteri non si formeranno: si osservino nuovamente i profili nel grafico e si noterà che i fiori e la frutta fresca nel Santos non si spostano qualunque sia il livello di tostatura, quindi è una caratteristica che non potremo richiedere a questo tipo di caffè verde.

Però in altri Santos possono essere presenti, anche se non enfatizzati come nei lavati, e a tostature un po’ più chiare possono essere enfatizzati sinestesicamente dall’acidità e risultare evidenti.

Luigi Odello
Il diagramma di tostatura proposto da Luigi Odello

Fuoco giusto al momento giusto

Non è solo importante la quantità di calore che si somministra, ma anche il momento nel quale si somministra. Il chicco di caffè è una struttura complessa ad alto livello organizzativo in cui i diversi componenti sono a volte protetti da altri che devono evolvere con il calore per rendere disponibili i primi.

Ma soprattutto, per fare una buona tostatura, occorre abbandonare l’idea di una semplice evoluzione delle molecole di partenza, bensì cominciare a immaginare il chicco come un grande reattore chimico. In pratica, con il calore si ha la trasformazione di una moltitudine di molecole in un’altra moltitudine.

Le molecole di seconda generazione possono reagire tra loro formandone di nuove, ma possono dare il medesimo risultato anche reagendo con le prime. E, ovviamente, ogni nuova generazione può reagire con molecole delle generazioni precedenti. Il torrefattore può solo governare il processo mediante il dosaggio del calore nell’unità di tempo.

Luigi Odello

Stevia: l’alternativa allo zucchero che riduce i danni per l’ambiente

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dolcificanti stevia zucchero
La stevia è diventata uno dei dolcificanti più diffusi

Una ricerca, parte del progetto europeo Sweet, ha calcolato l’impatto di una miscela ottenuta dalla pianta della stevia: a parità di potere dolcificante ci sono meno danni per l’ambiente. La miscela in questione è la RA60. Leggiamo di seguito la prima parte dell’articolo di Anna Lisa Bonfranceschi pubblicato sul quotidiano La Repubblica.

La ricerca sulla stevia

Sweet è un progetto finanziato dal programma europeo Horizon 2020 e mira a valutare gli effetti per la salute, ma anche per l’ambiente, della sostituzione dello zucchero con i dolcificanti. Così, accanto a studi che valutano l’impatto sulla mortalità di bevande dolcificate in modi diversi e a studi che cercano di comprendere gli effetti sul metabolismo e sull’appetito, compaiono anche ricerche inerenti la questione ambientale.

Un po’, a onor del vero bistrattata, quando si parla di dolcificanti, come denuncia oggi un team di ricercatori dalle pagine dell’International Journal of Life Cycle Assessment.

Lo studio in questione, parte del progetto europeo, ha tentato di colmare questo vuoto, cercando di rispondere alla domanda: i dolcificanti sono più leggeri dello zucchero anche quando si parla di consumo di suolo, acqua ed emissioni di gas serra? Sì, almeno quando si paragonano il dolcificante naturale stevia (Stevia rebaudiana) e lo zucchero (saccarosio), dice il gruppo di James Suckling della University of Surrey, che ha analizzato il ciclo vita di una miscela di stevia.

La miscela in questione è la RA60, ovvero è una miscela in cui è presente per almeno un 60% il rebaudioside A, uno dei glicosidi steviolici che si ritrovano nella pianta di stevia, le molecole responsabili del suo sapore dolce.

Quanto? Circa 200-300 volte tanto quello dello zucchero tradizionale, ricordano gli autori, che per le loro analisi si sono concentrati su foglie di stevia coltivate in Grecia e lavorate per l’estrazione della RA60 in Francia.

A parità di potere dolcificante la miscela RA60  – la misura di confronto usata dagli studiosi per paragonare zucchero e stevia, e che in massa equivale a 4 grammi di stevia contro un kg di zucchero –  è molto meno impattante. Si stima che le emissioni di gas serra associate alla produzione della stevia possano essere circa il 10% di quelle associate allo zucchero, il 7% invece l’utilizzo di suolo.

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Come le piantagioni di caffè in America Centrale minacciano la sopravvivenza dei volatili

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Un tucano (immagine: Pixabay)

Per i volatili che vivono in America Centrale, la sostituzione dei terreni forestali con le piantagioni di caffè rappresenta un pericolo alla sopravvivenza poiché li costringerebbe a cambiare dieta e habitat per sopperire alla mancanza di cibo dovuta alla deforestazione. Leggiamo di seguito parte dell’articolo tradotto dal portale scientifico Phys Org.

Il pericolo per i volatili dovuto alle piantagioni di caffè

Un nuovo studio condotto dai ricercatori dell’Università dello Utah esplora il registro delle diete degli uccelli e il monitoraggio radio dei loro movimenti per scoprire che mangiano molti meno invertebrati nelle piantagioni di caffè che nelle foreste: ciò suggerisce che il disturbo del loro ecosistema ha un impatto significativo sulla loro sopravvivenza.

“Il crescente impatto ecologico umano sul pianeta, in particolare attraverso la perdita e il degrado dell’habitat e il cambiamento climatico, spesso ha un impatto negativo anche sulla dieta degli uccelli”, ha affermato Çağan H. Şekercioğlu, autore principale dello studio e professore di ecologia e ornitologia presso la U’s School of Biological Scienze.

“Questi cambiamenti negativi, compreso il declino delle principali risorse alimentari come insetti e altri invertebrati, possono portare a una ridotta sopravvivenza, in particolare dei giovani in rapida crescita, sfociando nel declino della popolazione e alla perdita di questi uccelli denutriti”. Lo studio è pubblicato su Frontiers of Ecology and Evolution.

Le foreste del Costa Rica

In tutto il mondo, le foreste si stanno riducendo da oasi di vita un tempo verdeggianti a piccole aree scarne sparse tra i terreni agricoli che le hanno sostituite.

Solo l’uno per cento circa delle specie di volatili preferisce i tipi di habitat dominati dall’uomo, ma la rapida scomparsa dell’habitat naturale delle foreste significa che circa un terzo delle specie si trova ora a lavorare per sopravvivere in ambienti dominati dall’essere umano.

In Costa Rica, la terra intorno alla stazione biologica di Las Cruces, vicino al confine con Panama, è passata dall’essere completamente boscosa fino ad essere composta dal 50% di piantagioni di caffè, dal 20% da pascoli per il bestiame e dal 10% di altri ambienti umani: solo il 20% della terra è ancora boscoso.

Le aree agricole sono intrise di pesticidi, fertilizzanti e fungicidi, con un impatto drastico sulle comunità di invertebrati di cui si nutrono gli uccelli locali.

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Francesca Bieker, da giudice e trainer Sca: “Ecco tutti i passi necessari per preparare bene e gestire la moka a casa propria”

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Francesca Bieker (immagine concessa)

MILANO – Francesca Bieker, giudice internazionale nei campionati Sca, assaggiatrice professionista certificata Q grader e trainer per la Specialty Coffee Association, durante la prima sessione del corso di Coffee Master al Training Center Kimbo di Melito di Napoli (Napoli) ha sorpreso e divertito tutti i presenti con una lectio dal titolo “Il caffè declinato per il coffee lover e il consumatore appassionato”, un viaggio tra falsi miti, curiosità e suggerimenti inediti per la preparazione del caffè a casa con la Moka.

Vi proponiamo il testo della divertente e istruttiva lezione di Francesca Bieker.

di Francesca Bieker

“Parleremo della moka, uno strumento che bene o male è presente in tutte le case, con la quale sicuramente abbiamo preparato tutti il caffè almeno una volta.

In questa mia lezione spiegherò tecnicamente come gestire correttamente questa caffettiera, ricordandovi però che non necessariamente il metodo giusto sarà quello che più vi piace. Ci scontreremo sempre tra la soggettività e l’oggettività di ciò che è buono ed io vi farò passeggiare tra questi due mondi proprio attraverso la moka.

Ma perché tecnicamente potrebbe non piacervi? Perché il risultato finale potrebbe essere diverso da quello che siete abituati a bere.

E la vera domanda è: sappiamo che cosa ci piace o riconoscere ciò che preferiamo, già visivamente a partire dal pacchettino per arrivare al profilo sensoriale con gli assaggi? Qualcuno vi ha mai insegnato a farlo?

Quello che vorrei che portaste a casa da questo intervento di oggi, è imparare a capire e riconoscere che cosa ci piace.

Il problema che sicuramente abbiamo affrontato tutti è che talvolta, invitati a casa di amici che ci hanno offerto la moka, ci siamo trovati davanti a un caffè che non è buono quanto quello che facciamo noi. Ma perché succede? Le variabili sono diverse ma se le conosciamo, possiamo piano piano comprendere come replicare il sapore che soggettivamente ci piace ovunque.

Provate a rispondere: come descrivereste il caffè che vi piace, dovendo spiegarlo a me, senza usare il nome di una marca?

Se provando a rispondere avete utilizzato descrittori come “piacevole” e “morbido” o “intenso”, questi possono essere chiari per voi, ma tecnicamente non forniscono una definizione precisa.

C’è dunque un problema di fondo, non sappiamo descrivere le sensazioni che ci piacciono in modo corretto, dobbiamo quindi imparare ad accoppiare le sensazioni soggettive a dei dati oggettivi.

Vediamo assieme alcune variabili che influenzano il sapore, che sono da iniziare a conoscere.

Primo aspetto da considerare: il caffè. Ovviamente a seconda di cosa acquisto otterrò risultati diversi. Esistono diverse specie e varietà, con sapori in tazza diversi.

Leggere e poi provare e classificare ci permetterà nel tempo di farci una idea più precisa di che sapore potrebbe avere quel caffè che vorrei acquistare. Cerchiamo le informazioni quindi che ci indicano se si tratta di una specie piuttosto che un’altra (arabica – canephora, che troverete probabilmente chiamata robusta) o se si tratta di una miscela di queste due. Si può controllare se si tratta di una monorigine, e sperimentando, provando i vari prodotti quindi, cominciare a capire che i caffè provenienti dall’Etiopia hanno magari delle caratteristiche aromatiche che si preferiscono rispetto ad alcuni dal Kenya: funziona come per il vino o come per le mele, di cui sappiamo aspettarci la differenza tra una rossa o una verde.

Si può leggere anche la descrizione della tazza e così il nostro morbido-piacevole a quel punto corrisponderebbe a dei descrittori specifici. Pian piano in sostanza dobbiamo costruire delle associazioni.

Non ultimo verifichiamo la tostatura, cioè la cottura del chicco. Immaginate di dover cuocere una bistecca, quale risultato vogliamo ottenere? Ben cotta, al sangue, lessa? Lo stesso si può fare al caffè per avere diversi risultati. A noi cosa piace? e come la definisce l’azienda quella tostatura? magari tostatura intensa, oppure medio-chiara? Verifichiamo.

E giusto sapere che riguardo la tostatura esiste anche un elemento più tecnico: non tutte le tostature sono adatte per tutti i metodi d’estrazione.

Ad esempio, l’espresso o la moka, per venire valorizzate hanno bisogno di una tostatura un po’ più spinta. Invece con il metodo filtro, per renderlo al meglio, è necessaria una tostatura più chiara: basta aprire il pacchetto per guardare il colore del caffè per comprendere che tostatura è stata scelta.

Una volta che si è imparato ciò che soggettivamente ci piace e a dargli un corrispettivo più oggettivo, ci si deve sempre ricordare che esiste una differenza tra le due sfere. Il consumatore di solito non sa cosa è tecnicamente buono, ad oggi ha solo un’interpretazione soggettiva del caffè che beve, spesso dettata dall’abitudine: sappiate però che esiste la versione oggettiva. E questo è un po’ il nostro obiettivo come formatori, di comunicare cosa sia tecnicamente buono o cosa no, riscontrando i difetti del caffè.”

Ed ecco la moka: Un sistema di estrazione che differisce completamente dall’espresso e per questo non si possono comparare i due metodi. Quasi tutti preparate la moka a casa: ma come la fate?

Prendiamo l’esempio della moka come la farebbe (probabilmente) la nonna:

Acqua a metà valvola, caffè macinato nel filtro, probabilmente facendo la montagnetta o premendo un po’ il macinato per compattarlo. Tutte queste cose purtroppo sono tecnicamente errate.

La moka, quindi, va sul fuoco e qui devo dare la smentita numero due: il gorgoglio della moka, sinonimo spesso di risveglio mattutino, non ci dovrebbe essere.

Ora che l’abbiamo preparata, se guardiamo il risultato, si presenterà come un liquido nero senza crema.

Proviamo ad annusarla e cerchiamo di memorizzare questo odore. Non sentiremo tantissimo, ma andiamo all’assaggio. E a questo punto dovete registrare nella vostra soggettività, il sapore. In questo caso è un po’ ruvido e dovendo trovare un descrittore probabilmente sarà qualcosa che riguarda l’amaro.”

Si procede con il secondo giro di moka:

“Nel frattempo, vi mostro tecnicamente come si prepara la moka. Partiamo da un presupposto più scientifico per comprendere il motivo per cui la faremo in un certo modo: cos’è l’estrazione. Si tratta di un processo, che darà come risultato una bevanda che è l’insieme di acqua e caffè.

Questi due ingredienti sono importanti: l’acqua è l’elemento che passa attraverso il caffè e trasporta le sostanze contenute nel macinato rendendole liquide.  Per semplificare al massimo, a seconda di come e per quanto tempo ci sarà contatto tra i due ingredienti avremo un risultato diverso.

Abbiamo due fondamentali aspetti da tenere in mente infatti: il tempo e la quantità.

Proviamo a trovare la giusta ricetta per preparare la moka, con l’obiettivo non soltanto di estrarre al meglio il caffè, ma renderlo ripetibile. Applicare un metodo, appoggiandosi a una ricetta, ci permette di replicare la stessa tazzina che ci è piaciuta infatti.

Vista, olfatto, gusti e sapori: il colore appare differente e una moka fatta bene ha anche la crema, da non paragonare comunque a quella dell’espresso – all’odore e al gusto anche le cose cambiano confrontandola con la tazza precedente, la differenza risulterà ancora più evidente.

Francesca Bieker, l’esperta della moka (immagine concessa)

A parità di caffè, quindi, capito il procedimento e rendendolo standard, possiamo divertirci a modificare la ricetta o uno standard alla volta della preparazione e ottenere il caffè che preferiamo.

Possiamo quindi sempre dire che è il caffè che è buono o non vale niente o semplicemente non ho saputo estrarlo nel modo giusto?

Ora che abbiamo sperimentato, quale estrazione mi piace maggiormente? Bene: so che per riaverlo, dovrò prepararlo in quel modo.

Se volete sperimentare la ricetta che ho usato, ecco come procedere: per ogni grammo di caffè, si usano 10ml di acqua. Serve quindi una bilancia per pesare.

La valvola ci interessa sino a un certo punto: la sua esistenza ci importa perché ha una funzione di sovrapressione, quindi di sicurezza. Se per qualche motivo la pressione aumentasse, la valvola interviene permettendo al contenuto di sfiatare e abbassare la pressione interna. Controllate bene per questo che sia in buone condizioni e non si blocchi, per capire basta premere la valvola e verificare che si muova. Questo è il motivo per cui dovremmo evitare che l’acqua arrivi all’altezza della valvola, in caso di sovrapressione, dal foro uscirà acqua estremamente calda con il rischio che ci schizzi addosso. Inoltre, c’è bisogno di lasciare una camera, ovvero uno spazio sufficiente per il vapore che possa spingere l’acqua attraverso il filtro.

Poi ci si occupa del caffè: quanto caffè ci va? La risposta è dipende.

Partiamo sempre dalla nostra ricetta, quindi pesando arriviamo più o meno a raso del nostro filtro, senza pressarlo e senza montagnetta. Le nostre variabili abbiamo visto sono il tempo e la dose e sappiamo che l’acqua deve attraversare il macinato, cosa che risulta difficile se trova una forte resistenza, bloccandosi eccessivamente, bruciando il caffè, perdendo l’acidità e la dolcezza ma lasciando soltanto l’amaro bruciato.

Se si desidera un sapore più intenso, si può usare una dose leggermente maggiore. Ma solo sapendo quanto era la dose la prima volta sapremo “quanto aumentare”.

Vediamo ora l’acqua: ne esistono di diversi tipi, con un residuo fisso più o meno alto. A seconda di quale acqua io utilizzo, estrarrò cose diverse. In una tazzina di espresso, la percentuale di caffè all’incirca è del 9-10% mentre l’acqua è il 90%; nella moka la percentuale di caffè si riduce drasticamente all’1,5% più o meno.Quindi possiamo renderci conto di quanto importante sia l’acqua nel sapore finale.

Dobbiamo quindi imparare anche a scegliere l’acqua giusta al supermercato. I dati essenziali che ci servono: ph neutro, no cloro, incolore e insapore, residuo fisso a 180 gradi tra 50 e 175 milligrammi per litro.

Chiusa la moka, la si mette sul fuoco. Essenziale è che non bisogna aspetta il gorgoglio: a quel punto si è arrivati già a bruciare il caffè. Quello che dobbiamo fare è tenere il coperchio aperto durante tutta l’estrazione. Il caffè non deve schizzare, se ciò avviene significa che la guarnizione è da cambiare.

Quando l’estrazione arriva alla metà della parte superiore, spegnete la fiamma: la pressione continuerà a spingere l’acqua che attraverserà il caffè e risalirà comunque. Otterremo quindi lo stesso quantitativo senza però continuare a sovraestrarre e bruciare il caffè.

Ancora non si è pronti per l’assaggio: tenete a mente che il caffè tende a stratificarsi. Per rendere le tazze omogenee quindi prima di versarlo, prendete un cucchiaino e mescolate.

Ora torniamo ad assaggiare l’ultima tazzina  estratta e poi la prima, ad una temperatura più fredda: ci sono differenze?

Sì, ancora tante. Due mondi completamente diversi, tutto solo per la mano dell’uomo, noi a casa, o il barista nel locale, che trasforma un solido in un liquido.

Manca però ancora una cosa fondamentale: la pulizia.

Avete cucinato prima una bistecca e ora avete la padella piena di grasso: la lavate o la mettete via sporca? Penso che tutti noi ci preoccupiamo di lavarla bene. Anche il caffè ha la sua parte oleosa che va tolta: metterla sotto l’acqua è come non aver fatto nulla, perché gli oli non vengono intaccati dall’acqua, esattamente come non sciacquate e basta la padella.

Come la laviamo allora? Facciamo attenzione al materiale della moka: acciaio e alluminio hanno caratteristiche differenti. L’alluminio assorbe, quindi non può essere lavato con il sapone per i piatti o saponi aggressivi. Si devono usare dei detergenti specifici neutri e risciacquare bene per far si che non restino residui di sapone che influirebbero sulla bevanda.

L’acciaio invece non ha questo problema, l’importante è comunque non usare spugnette che graffiano, ma un panno morbido.

Ma cosa devo pulire? Se smontiamo la moka, vediamo che è composta da tre parti: la caldaia in cui non c’è parte grassa da rimuovere ma c’è il calcare, il filtro in cui la polvere di caffè rilascia degli olii, la parte superiore che è quella più sporca e con maggior parte oleosa in assoluto.

Non è finita qui: ci sono altre tre parti da pulire, ossia la guarnizione – che ogni tanto va tolta e oltre che pulita, cambiata – un filtro con i buchi che rischiano di otturarsi se non vengono mai puliti e il camino dove passa il caffè.

Ogni volta che prepariamo il caffè, la moka va lavata, perché quel “gusto in più” che la moka sporca può darvi non è altro che amaro bruciato“.

                                                                                                       di Francesca Bieker