MILANO – Tre super professionisti in ordine alfabetico, a confronto attorno al tavolo dello specialty coffee nelle caffetterie specializzate in Italia: la parola a Carlos Bitencourt, fondatore di Cafezal, Francesco Sanapo, l’uomo dietro la macchina Ditta Artigianale e Maurizio Valli, l’esperto che porta avanti la bandiera di Bugan Coffee Lab.
Lo specialty con solo singole origini e tostatura chiara, può ancora funzionare o è superato per un coffee shop?

Carlos Bitencourt apre la discussione: “Sì, ma onestamente è un’operazione molto dura da fare in Italia. Probabilmente, aprendo oggi da zero, l’attività farebbe molto fatica. In fondo siamo partiti così anche noi, con il Cafezal di via Solferino, concentrandoci sul caffè. Poi ci siamo spostati ampliando sul food e così come noi hanno fatto la maggiorparte degli specialty coffee shop. Oggi il Cafezal di via Solferino regge ancora solo sullo specialty perché ormai è un nome, un locale, che è riconosciuto solidamente attorno a questa bevanda.
Ma partire ex novo oggi, solo con il caffè specialty, è davvero complicato da sostenere. Non fare cross selling adesso è abbastanza irrealistico, perché è quello che ti aiuta a fare più margine. C’è il main product a cui affiancare altro.
All’estero le cose cambiano, anche se dipende da dove ci si colloca. Lisbona è un mercato leggermente più facile rispetto all’Italia, ma neppure qui ci sarebbe la garanzia di avere successo con un modello concentrato solo sullo specialty. Nei paesi nordici, questo format funziona meglio.
Tuttavia ci tengo a sottolineare che poter contare su un forte menù, non significa necessariamente cannibalizzare lo specialty a favore del cibo: la qualità del caffè proposto da Cafezal non è messa in discussione anche se la proposta food è molto pronunciata.
Sono convinto che un business di successo si basi su entrambe le cose e certo tutto dipende molto dalla mentalità dell’azienda, di come la comunica e nel suo modo di mantenere coerente lo standard con cui si è partiti. Dietro Cafezal c’è una profonda conoscenza della caffecultura, un contatto diretto con le origini dove andiamo anche a insegnare e formare sull’imprenditoria in Brasile oltre che a raccogliere il caffè con i produttori.
Quindi se ci si impegna a conservare la qualità, anche avendo la parte food sviluppata, il lavoro sul caffè si nota e viene riconosciuto.”
Alla stessa domanda prova a dare una risposta Francesco Sanapo

I luoghi che dobbiamo rivalutare sono quelli della caffetteria. Cercando di riportare in piazza questo servizio che ha un’attenzione dal servizio, al prodotto, all’atmosfera che si vive. Il punto è: cercare di offrire il miglior tipo di caffè per ogni tipo di estrazione insieme ad altri prodotti integranti nel menù che può aiutare ad aumentare lo scontrino medio.
Caffè acidi o non acidi? Non sono stato molto “acidità oriented”: sono validi per i filtri, dove gioca una complessità importante e che viene fatta in modi differenti. L’espresso è una scienza a sé.
Un’estrazione a filtro ha bisogno di tre minuti, con un tempo di contattato tra la polvere e l’acqua più prolungata e quindi ci si può permettere una tostatura meno spinta perchè viene compensato. Fa anzi nascere bouquet di frutta e di fiori interessantissimo.
Per l’espresso però il mondo è diverso e non può avere solo questa caratteristica acidula: è l’unione di più elementi, l’amarezza, il corpo, la dolcezza, in 30 secondi. Quindi un tostato più chiaro, meno solubile, non può estrarre tutto il suo potenziale in 30 secondi.
Bisogna agire sul profilo di tostatura, senza doverlo al contrario bruciare. Il roaster ha una responsabilità altissima, per rispondere alla veloce estrazione dell’espresso. Il bilanciamento è sempre stata la nostra filosofia, il mio punto chiave, per richiamare l’armonia.
Con questa idea molto limpida, lo specialty come si faceva all’inizio non è più possibile: la nuova generazione di roaster hanno smesso di imitare pedissequamente le modalità dell’estero.
Per quanto riguarda le miscele, io la vedo come una cosa positiva: dipende dall’arte del torrefattore. il blending di specialty può esistere per l’espresso e viceversa può esserci l’espresso in monorigine.
In Italia si beve ancora molto l’espresso mentre all’estero si bevono molto le ricette a base latte che smorzano l’acidità dello specialty.
Parliamo sempre di scelte imprenditoriali. Non è il mio modo di fare caffetteria puntare esclusivamente sullo specialty. Riuscire a vendere a 3 euro un espresso base aiuterebbe le caffetterie italiane, tuttavia, per me la caffetteria è innanzitutto quel luogo in cui trova ciò che cerca. Non è come andare in un laboratorio. Voglio il miglior croissant, il miglior succo, un matcha di qualità, lo specialty coffee, il cappuccino, i signature a base caffè se sono curioso. Bisogna offrire una maggiore complessità al cliente.
Per vivere di soli specialty bisognerebbe avere dei costi fissi molto bassi: un affitto non elevato, il personale ridotto, un forte take away. Su città come Milano è un’impresa molto difficile da sostenere in termini di spesa e si fa più fatica. Al contrario, dovendo affrontare metrature importanti, lo scontrino medio deve aumentare e non è fattibile con solo lo specialty.
Per Ditta lo specialty è ciò che vendiamo, che raccontiamo. Ma un’offerta buona di food, non esclude la qualità del caffè che serviamo. È tutto adeguato e coerente.
Credo tanto nella rinascita della caffetteria italiana, un luogo in cui l’espresso di qualità si accompagna alla bakery di altrettanto livello. per far sì che questo accada, c’è bisogno che si inizi ad acquisire una forte identità, comprendendo un prezzo più alto di tutti i prodotti, anche della tazzina.”
All’appello non poteva mancare anche Maurizio Valli, che della filosofia Bugan legata allo specialty ha fatto un vero marchio di fabbrica
Lo specialty duro e puro, per l’appunto alla Bugan (senza Brasile, solo singole origini, tostatura chiara) può ancora funzionare o è superato?

“Sì certamente. A mio avviso, uno specialty coffee shop dovrebbe fare cultura del caffè e offrire specialty provenienti dai migliori luoghi di produzione.
Ci dovrebbero essere sempre, almeno due caffè di origini diverse: uno dal profilo più classico, rotondo e accessibile, e uno più spinto, come un’Etiopia, con note acidule, fruttate o floreali. Due mondi opposti, per raccontare la complessità del prodotto, la cui qualità è strettamente legata al terroir e alle condizioni climatiche del paese di provenienza.
Il Brasile, storicamente, non è riconosciuto come una terra d’eccellenza (al contrario di paesi come Colombia, Panama, Etiopia o Kenya) e per questo in un contesto come il nostro, risulterebbero poco adatto.”
E poi aggiunge, per quanto riguarda la possibilità di restare un’attività economicamente sostenibile pur non scendendo a compromessi: “Un coffee shop può essere economicamente sostenibile anche senza una forte proposta food, ma è fondamentale affiancare al servizio al banco altre fonti di entrata.
Il modello che abbiamo impostato si basa su tre linee di business: il coffee shop con degustazione, l’attività formativa e l’e-commerce. Questo approccio consente di bilanciare i flussi: se una delle attività rallenta, le altre compensano e quando funzionano tutte in sinergia, lo store lavora al massimo del suo potenziale. In un contesto di questo tipo la componente food non è centrale, ma solo funzionale a completare l’esperienza del cliente e non determina la sostenibilità economica del locale.
A Bergamo, dove abbiamo aperto nel 2014, il modello è rodato e ora lo stiamo portando a Milano, dove oltre al coffee shop di via Vigevano, svilupperemo un progetto di formazione e degustazione che ci consentirà, anche lì, di contare su un sistema integrato per una crescita solida e coerente.”














