martedì 16 Aprile 2024
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Matteo Borea: “La realtà fuori dalle Fiere di settore è un’altra La diversità? Il consumatore”

Borea: "Un modo per avvicinare i baristi e i consumatori al mondo del caffè, delle origini, può essere anche dare la possibilità di viaggiare nelle piantagioni che con il nostro progetto della farm di Gran Canaria è diventato oggi un obiettivo raggiungibile."

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MILANO – Matteo Borea, Barista Coach e terza generazione della torrefazione La Genovese di Albenga (Savona), aiuta a fare il punto su temi attuali come formazione, professionalità nel mondo dell’horeca, in un interessante confronto sulle dinamiche che funzionano all’estero e che ancora non hanno trovato un terreno fertile in Italia.

Borea, è vero che molti gestori lavorano più degli stessi dipendenti: ecco lei ha parlato di cambiare il proprio status da “dipendente di se stesso a padrone del proprio locale”. Ci spiega la differenza e come riuscirci?

“Identificare il vero problema di questo settore è il primo passo. Tantissimi nostri clienti sono operatori che sulla carta rientrano nella categoria di imprenditori, ma in realtà non si comportano come tali nei fatti.

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Avviare un locale non significa soltanto compilare delle pratiche burocratiche, ma occuparsi di business.

Non c’è niente di male nell’essere anche un barista, perché questo consente di esser più consapevoli nel confrontarsi con i propri dipendenti e ne facilita la selezione, ma non è questo il punto: oggi ancora si confondono spesso i ruoli di gestore e operatore, che chiaramente sono due cose diverse.

In Italia ci si focalizza molto sulla parte operativa che permette di incassare, ma di fatto non è questo che fa di se un imprenditore.

Questo approccio fa sì che sia il locale a possedere te e non il contrario.

Allora bisogna intervenire sulla mentalità diffusa e diventare consapevoli di avere questo problema per poterlo risolvere con informazione, formazione e acquisizione di competenze poi da mettere in pratica.

Purtroppo è un passaggio molto difficile da far comprendere.

Questo fenomeno risulta evidente quando ad esempio uno di questi proprietari vuole vendere il proprio locale: dopo anni di lavoro dietro al banco con successo stabilisce una cifra di vendita in base al fatturato totalizzato, che però non riflette poi il valore effettivo del bar.

Nessuno comprerà quel locale a quel prezzo, perché di fatto non si sta più vendendo un’attività, ma il gestore stesso: nel momento in cui il titolare esce dall’equazione, lo stesso bar perde il suo valore, perché era la persona a determinarne il fatturato.”

Ma in Italia conviene essere sia titolare che operatore, in modo da ammortizzare i costi del personale?

Borea dietro la macchina (foto concessa)

“È vero, ma queste sono regole di mercato che non cambieranno.

Quindi se si vuole fare impresa, bisogna tenerne conto e calcolare il costo del personale (anche si tratta di se stessi) all’interno del business plan.

Se non si include questa voce nel proprio progetto, allora l’attività non è sostenibile né tantomeno appetibile per un altro imprenditore.

Purtroppo non si è ancora capito che c’è bisogno di professionalità e di formazione. Faccio sempre il paragone con il settore dei parrucchieri, che allo stesso modo ha assistito alla liberazione delle licenze, funziona per zona, e però si è sviluppato attorno all’idea che le competenze sono fondamentali: il settore li ha educati a specializzarsi, formarsi regolarmente, con aggiornamenti costanti.

Esiste la voce di spesa e di tempo dedicata alla formazione. Il barista al contrario assolutamente non lo considera, tanto meno quando si parla di ore investite per imparare a gestire il proprio locale.”

Ma questo muro negli anni si è indebolito?

“Sì, la barriera di ingresso è scesa, ma di poco. Perché in ogni caso, a mio avviso, il settore continua a muoversi nella stessa direzione. Per quanto nelle fiere e durante gli incontri tra addetti assistiamo a novità e tendenze, la realtà al di fuori di questa bolla è ben diversa. Sono ancora molto indietro.

C’è qualcosa che manca nel mezzo.

Fa la differenza a questo punto, il consumatore finale. Tornando a fare un parallelismo con il vino: il grande pubblico ha iniziato a interessarsi a questa bevanda e a voler essere sommelier, quando si è cominciato a parlare di morti causati dal metanolo nel 1986. Il settore a quel punto si è dovuto reinventare.

Ora, anche il caffè, senza dover arrivare a queste situazioni così estreme, dovrebbe spingere su questo aspetto.

Così, il consumatore finale capirà che c’è qualcosa di più, diventerà uno status avere lo specialty in casa e saper degustare un espresso. Noi continuiamo a restare però immobili: siamo ancora fermi ai muri di mattonelle di macinato nei supermercati oppure di capsule.

Il cliente sceglie in base a ciò che costa meno o che è in offerta e questo perché non gli viene attribuito alcun valore. Nei bar la situazione va un pochino meglio, ma la comunicazione resta ancora assente.

Tutti noi del settore cerchiamo di dare il nostro contributo sui social illustrando concetti che fondamentalmente sono troppo distanti ancora da ciò che il consumatore vuole conoscere.

L’unica cosa che può spostarli sono i casi eclatanti legati alla salute, oppure i soldi.

Inutile ora spiegare come preparare la moka correttamente, parlare di temperatura e tipo di acqua: ancora il consumatore non è pronto

Al bar cominceranno a cambiare le cose solo quando gli stessi clienti smetteranno di frequentarli perché il caffè non gli piace più.

La Fipe a Host ha dichiarato che hanno chiuso 20mila bar, ma bisognerebbe contestualizzare: 20mila chiusi e quanti aperti?

Ciò che conta è che il messaggio resta negativo e per questo i giovani non vogliono più lavorare nel settore, tanto meno aprire locali o formarsi e d’altronde, perché dovrebbero farlo?

La mia risposta è questa: se si va insieme nella stessa direzione allora c’è speranza, ma purtroppo da ex trainer Sca certificato posso dire che in Italia fin qui non si è riusciti a fare funzionare la cosa.

Ai baristi in Italia non interessa seguire tutto il percorso Sca sostenendo anche costi elevati e finché queste associazioni non parleranno anche con il consumatore finale facendo comprendere che c’è altro nella tazzina, il settore è condannato a morire.

Coinvolgiamo i consumatori finali, oltre che i baristi. Il mercato deve diventare consapevole. Adesso ci stanno già dicendo che il caffè per diverse ragioni, sta diventando un lusso e costerà 3 euro.

Ecco che, quando si tocca il portafoglio, il consumatore sarà il primo, anche se non capisce la differenza tra un caffè cattivo e uno buono, a farsi le domande giuste e si informerà pretendendo di più da gestori.

A quel punto, quali saranno i bar che funzioneranno? Oltre agli specialty coffee shop, le catene sopravvivranno perché possono permettersi con i grandi numeri di ammortizzare i costi e vendere a prezzo basso.

Il barista al momento non sa neppure che il caffè è un frutto che proviene da una pianta. L’ho provato sulla mia pelle che l’approccio di Sca non funziona così com’è.”

Portare la forza dell’espresso italiano all’estero: come sono i baristi da formare fuori dai nostri confini?

“La situazione all’estero è completamente diversa perché lì questo settore è visto in modo opposto. Quando si fa l’apprendista in una multinazionale ma anche in aziende più piccole, prima di toccare la macchina passano mesi: si parte dalla mission, da come si tratta il cliente, dal branding, dalle basi.

Una volta appreso questo, allora si comincia a imparare a toccare le macchine.

In Italia l’apprendista serve innanzitutto a far risparmiare dei soldi al titolare e poi a farlo lavorare meccanicamente. Molti dei nostri ragazzi vanno all’estero infatti a fare questo mestiere.

Per questo poi si parla di mancanza di personale: io sono il primo che fa fatica a trovare persone che vogliano lavorare nel nostro locale. Questo perché non è interessante questa professione, non si parla di progettualità aziendale, di far parte di una realtà con prospettive. Tutti si avvicinano a questo mondo per racimolare qualche soldo extra.

Per contrastare questo andamento, bisogna parlare tutti la stessa lingua e procedere uniti: i primi siamo noi torrefattori, che ci facciamo la guerra, siamo attaccati ancora al comodato d’uso, ai finanziamenti.

È un mercato in cui l’ultima cosa che si vende, paradossalmente, è proprio il caffè. Ancora si ha paura a fare gruppo e ancora si parla di “miscela segreta.”

Borea, e allora lei come si comporta?

Puntando all’estero. La formazione vera la svolgo lì. Fuori dall’Italia, le competenze nostrane vengono valorizzate. Ma arriverà poi il momento in cui gli operatori non serviranno neppure più: stiamo già assistendo all’arrivo dei bracci robotici che preparano il caffè.

All’estero però ti guardano con occhi diversi: formare baristi ha come obiettivo fargli apprendere determinate competenze, non solo tecniche. Insegniamo ai baristi come far risparmiare migliaia di euro e a vendere di più.

Noi consulenti partiamo in aereo per formare 30 baristi che lavorano per delle grandi catene perché comunque gli standard di pulizia e di costanza, mantenimento della macchina e del macinino, freschezza dei grani, sono più importanti e più elevati rispetto all’Italia.”

Domanda provocatoria: al caffè degli Specchi, ci sono dei robot di sala, ma in tante fiere sono comparsi i robot baristi. Ha ancora senso la formazione e lavorare come barista se l’automatizzazione del servizio è sempre più dietro l’angolo?

“Io dico meno male: servono personalità e professionisti formati, non meri operatori che possono esser sostituiti. In primis, man mano che questa tecnologia diventa accessibile e performante, riduce i costi.

Magari invece che assumere una figura giovane da sfruttare con contratti finti per fare il semplice operatore, si può investire su delle figure che ti aiutino a comunicare meglio e a gestire la tua impresa.

E poi, anche con l’arrivo della tecnologia, le macchine avranno sempre bisogno di persone che le ottimizzino e le mantengano funzionanti. L’user experience sta diventando sempre più importante e quindi, a maggior ragione, serviranno risorse per migliorare il servizio clienti più che l’operatività.

Servono baristi formati, competenti e che sappiano comunicare e vendere. Il resto, lasciamolo alle macchine.

Quindi il futuro della caffetteria come lo vede?

“Così com’è oggi, non ne vedo uno. Bisogna che avvenga un cambiamento rapido. Il consumatore deciderà di andare nel locale dove si trova meglio, sarà sempre più esigente perché anche andare al bar sarà sempre più un lusso.

Per cui si dovrà uscire dalla standardizzazione e, parlando di caffè, dal prezzo politico. Di conseguenza, anche le torrefazioni si dovranno adeguare. Si inizierà a parlare di qualcosa che va oltre al prodotto: ora si va nei caffè non soltanto perché si fa un buon espresso o per un determinato prodotto.

Si entra innanzitutto per l’esperienza: per incontrare qualcuno, per per lavorare, per l’ambiente, il servizio e la pulizia: tutti elementi fin ad oggi generalmente trascurati
dalla caffetteria in Italia.

Dobbiamo iniziare a concepirci come imprenditori. Basta con l’improvvisazione, bisogna evolversi e fare sistema. Facciamo dei corsi ai baristi che vadano oltre alle competenze specifiche: la necessità è fare formazione manageriale e di marketing.

Rivolgiamoci anche al consumatore finale, investiamo per comunicare con lui. I baristi si raccontano tra loro, ma vedo un grande gap tra loro e i clienti.

I corsi di sommelier sono pieni di gente appassionata, non di persone del settore e questo perché i consumatori vogliono imparare a riconoscere un vino buono e fare bella figura al ristorante con gli amici.

Come mai non c’è la stessa folla per i corsi di caffè?

All’estero i portali B2C vendono caffè in grani da un chilo e noi continuiamo con il macinato da 250 grammi o le capsule. Le linee home dei produttori di macchine italiani sono vendute al 99% all’estero.

In Italia siamo pochi. Un modo per avvicinare i baristi e i consumatori al mondo del caffè, delle origini, può essere anche dare la possibilità di viaggiare nelle piantagioni che con il nostro progetto della farm di Gran Canaria è diventato oggi un obiettivo raggiungibile.

È diverso doversi organizzare per andare dall’altra parte del mondo per vedere le coltivazioni, rispetto al potersi recare in Europa, le Canarie poi sono anche una meta turistica, per toccare con mano lo specialty e unire l’utile al dilettevole”.

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