lunedì 15 Aprile 2024
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Starbucks in Italia, tutta schiuma e niente espresso?

Dopo anni di speculazioni, attese e persino petizioni, è notizia di qualche settimana: Starbucks, la arcinota catena di caffetterie nata a Seattle nel 1971, aprirà la sua prima caffetteria in Italia fra la fine di quest’anno e l’inizio del 2017, più precisamente a Milano

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MILANO – Una notizia del genere sicuramente non passa sotto traccia e infatti si è diffusa a macchia d’olio, diventando hot topic sui social, le testate giornalistiche nazionali hanno scritto articoli su articoli ed il cosiddetto “popolo della rete” – questo termine mi fa sempre un po’ paura – si è diviso fra coloro che hanno salutato la notizia con entusiasmo, vedendo lo sbarco in Italia della catena statunitense come l’occasione di poter bere finalmente un frappuccino, prodotto-simbolo del brand, senza dover prendere un aereo, e chi invece ha visto l’arrivo di Starbucks come una vera e propria invasione, arrivando a paventare un possibile snaturamento della cultura italiana dell’espresso.

Una cosa è certa, la storia di Starbucks è indissolubilmente legata al nostro Paese: Howard Schultz – fondatore della catena (nella Galleria di Milano, in alto) – non ha fatto mistero di essere stato ispirato, durante un viaggio in Italia fra Milano e Verona, proprio dalla tradizione e, perché no, dal “culto” tutto italiano per l’espresso nella creazione del primo Starbucks café. Un aspetto che contraddistingue i bar italiani è quel legame quasi “sacro” che si instaura fra cliente e barista. Il barista, nel breve tempo di consumo di una tazza di caffè diventa confidente, fido consigliere e anche psicologo. Ovviamente in un Paese di CT come il nostro non possono mancare i commenti sul calcio!

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Le tracce della fascinazione del founder per il Bel Paese sono evidenti:

la miscela “Verona”,
i banconisti chiamati “Barista(s)”,
la diffusione del termine “latte” per definire un macchiato in giro per il mondo, sono solo alcune di esse.

Per anni l’arrivo di Starbucks in Italia è stato visto come una delle sfide più ardue per questo colosso del settore food che opera a livello globale ed infatti Schultz, in un ormai celebre post sul blog aziendale, ha chiarito che si avvicinerà al mercato italiano con “umiltà e rispetto”.

La catena di Seattle però ha avuto per anni l’occasione di studiare il mercato italiano ed interagire con uno dei maggiori player del mercato italiano, infatti dal lontano 1991 è in atto una partnership commerciale fra Starbucks e HMSHost – la divisione americana del gruppo Italiano Autogrill, concessionario del marchio per la rete commerciale su strada nel Nord America.

Per l’apertura degli stores nel nostro Paese però il partner scelto è stato il gruppo Percassi, a cui fanno capo, fra gli altri, marchi noti come KIKO e la squadra di calcio dell’Atalanta.

Innanzitutto bisogna chiarire che, aldilà della mitologia aziendale e i suoi costanti richiami all’ispirazione tratta dal nostro espresso, la gamma dei prodotti Starbucks è molto lontana da ciò che noi Italiani beviamo comunemente in uno dei nostri bar. E su questo, non ci piove.

Il punto però è un altro: Starbucks non punta a vendere elaborati ed ipercalorici caffè che sono i “cugini americani” delle nostre tazzine di caffè ristretto ma vuole catturarci con un altro elemento: l’atmosfera.

Persino i più snob, i puristi, non possono negare che l’esperienza che si vive entrando in una caffetteria della catena è totalmente diversa da quella che si vive in uno dei nostri bar.

La fruizione è diametralmente opposta, al nostro caffè al bancone si sostituisce un lungo momento di relax, studio o persino lavoro, accompagnato dai prodotti del brand americano.

Dite che non fa per noi? Che sono “americanate”? Beh, i dati dimostrano il contrario, infatti diverse sono state le aperture di caffetterie ispirate proprio al modello-Starbucks e che hanno introdotto prodotti molto vicini a quelli proposti dal marchio della sirena a due code. (Qui abbiamo parlato di “The Coffee Box”). E sapete cosa? Vanno alla grande!

Ai millennials piace la formula proposta. Cioè tempi di permanenza lunghi, spazi che offrono wi-fi gratis, prese dove ricaricare i device. E… ambienti e prodotti altamente “instagrammabili”!

C’è poi un trend crescente che vede la comparsa sul suolo nostrano di format del mondo food tipicamente associati alla cultura statunitense.

In sintesi, se guardiamo a Starbucks come competitor delle nostre classiche caffetterie, non c’è storia. A ’ tazzulell’ e cafè” al volo fa parte del nostro DNA, è un rituale che scandisce le giornate di moltissimi di noi. Studenti o lavoratori e non ci sarà nessuno in grado di togliercela.

E se invece proviamo ad andare oltre e a capire qual è il vero fattore strategico di Starbucks? Ci accorgeremo che quella formula fatta di spazi ampiamente fruibili, tempi dilatati e feeling quasi casalingo, ci ha già conquistati. Nei nostri viaggi all’estero, nel successo che hanno le caffetterie che hanno replicato questo format e nella nostra conclamata esterofilia.

Perché il prodotto è assolutamente secondario

Da un punto di vista puramente di marketing, cosa insegna questa mossa? E’ l’ennesima dimostrazione di quanto importante sia la “shopping experience”. Vi ricordate il nostro evento, MARKETERs Experience – Customer Journey? In questo caso rende il prodotto assolutamente secondario e, grazie ad essa, probabilmente Starbucks riuscirà a superare questo “mostro sacro”. Rappresentato dallo sbarco in Italia.

Bene, fatte queste riflessioni, la parola sta a voi: siamo curiosi di capire cosa ne pensate voi. Usate i commenti qui sotto, commentate sui social o mandateci una mail.

Magari ne discutiamo davanti ad un Double-caramel Vanilla Frappuccino?

Piergiorgio Ivan D’Onofrio

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