venerdì 04 Ottobre 2024

Specialty in Italia: gli esempi di successo delle caffetterie e locali di qualità

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MILANO – Nell’ambito della prima edizione del The Milan Coffee Festival  si è tenuto un un interessante dibattito che abbiamo tenuto in archivio. Gianni Trazzi, per La Marzocco, ha introdotto e coordinato il racconto di tre esempi di caffetterie specialty, rappresentate dai loro stessi gestori. Francesco Sanapo, di Ditta Artigianale a Firenze; Pasquale Polito, titolare e capo panettiere, Forno Brisa Bologna; Dario Fociani, titolare e barista, Faro, Roma.

L’idea è nata a Torino, durante un evento organizzato da Slow Food

“Qui, insieme a diversi panificatori, abbiamo parlato di filiera. Mi è venuto in mente di trasporre quello stesso tema nel segmento caffè. Un appuntamento che per il settore, non mi veniva in mente ci fosse già stato.

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Ho parlato quindi con alcune figure di riferimento di questo ambito e poi ovviamente con i professionisti della comunicazione. In modo da comprendere in che modo è percepito il prodotto specialty dal consumatore. Un discorso ben lontano dalla realtà invece affrontata durante le fiere, in cui si parla di punteggi e qualità in tazza. ”

La parola agli imprenditori degli specialty

Francesco Sanapo, Ditta Artigianale: “Il mio locale nasce come torrefazione nel 2013. Perché ho capito che non c’era più spazio di business per sostenere un’attività classica di torrefazione. Oggi, chi apre un bar, si attende dal torrefattore la macchina espresso, quella per la pulizia e una serie di sostegni.

Per me, da piccolo torrefattore, era impossibile avere la forza economica per affrontare tutte quelle spese. Per cui abbiamo aperto delle caffetterie. Anche da quel punto di vista, la scelta non era indolore. Perché se si parla ancora di sostenibilità, il bar italiano oggi non vive un buon momento. Anzi, soffre di un momento critico profondo.

Attualmente non è sostenibile aprire una caffetteria tradizionale per tanti motivi: i costi del personale, dell’affitto. C’è una sola cosa su cui spingo sempre: l’aumento del costo della tazzina, a prescindere della qualità del caffè. Almeno si deve partire da un minimo di 1 euro e 50. Perché? Perché è l’inizio di un cambiamento.

Io l’ho fatto qualche anno fa, prendendomi i miei bei rischi. Non è stato facile. Ma è importante. Se aumentiamo il prezzo, tutto diventa più semplice per l’industria intera: dai locali, alle macchine, alle condizioni delle piantagioni. Dobbiamo quindi lottare tutti insieme. ”

I baristi devono impegnarsi a dare un contenuto ai clienti

“Ovviamente poi gli imprenditori e gli operatori, devono saper comunicare ai consumatori, per far comprendere loro i motivi del rincaro dei prezzi. Dare un servizio di qualità, oltre che un prodotto eccellente, permetterebbe di far passare meglio l’aumento della tazzina.

Va insomma fatta un’opera di comunicazione importante, anche se non sempre c’è il tempo materiale per farlo. E, soprattutto, bisogna pensare che questo tipo di giustificazione non viene sempre effettuata. Ad esempio, a Milano una bottiglietta d’acqua la si acquista anche a due euro, senza che il venditore debba spiegare al consumatore il perché costi così tanto. E’ necessario sottolineare il momento comunicativo, ma bisogna cominciare ad accelerare questo fenomeno.”

Non solo food

“Per mantenere in attività il locale, ho inserito oltre il caffè anche il reparto food e anche la possibilità di consumare alcolici. Questo non solo per una questione di sostenibilità dei costi. Ma anche perché penso che la tradizione italiana del locale sia legata a quella dell’ospitalità. Quindi è essenziale prendere per mano il cliente e portarlo sulla strada della qualità. Anche nel momento in cui consuma un prodotto diverso dallo specialty. La cosa principale insomma è farlo sentire a suo agio, donando uno spazio di condivisione e familiare. Voglio scrivere una nuova pagina di caffetteria italiana. Voglio sentire che in Italia, la caffetteria sia di alto livello, esattamente com’è adesso per la nostra ristorazione.”

Pasquale Polito, il loro inizio

“Abbiamo iniziato in 4, nel 2015 nel centro di Bologna. Abbiamo iniziato direttamente con la produzione forno. Abbiamo iniziato a panificare, prevedendo un angolo nel negozio per piazzare una macchina del caffè. Grazie anche all’aiuto e al modello di alcuni colleghi, come Francesco Sanapo, abbiamo introdotto una nuova linea di business.

Nel nostro store, la caffetteria non è il core, in quanto incide solo per il 15%. Però è sicuramente parte del fatturato e della nostra immagine. Sentiamo forte la responsabilità della qualità. Abbiamo pretese di essere uno spazio accogliente. Tutti i negozi hanno delle travi di legno che simulano proprio una casa.

Abbiamo ribaltato il mondo della panificazione italiano. Un gruppo di panificatori agricoltori che ha sentito molto l’impatto dei beni alimentari, come il pane e il caffè, sul consumatore. Lanciamo uno sguardo ampio su tutta la filiera. Seppure non abbiamo il controllo di tutti i passaggi. Dopo tre anni di attività, abbiamo aperto 4 store. Siamo in 26, dai 4 iniziali. Punto tutto sulle persone, che determinano il successo di un’attività, con le loro competenze e passioni.”

La formazione

“I baristi più forti fanno formazione interna. Da maestri più esperti. La nostra missione è quella però di democratizzare alcuni contenuti. Il mondo dello specialty coffee per me è un modello da seguire proprio dal punto di vista formativo, da trasferire anche nel mondo dell’accademia della panificazione. Dove le nuove leve non hanno la possibilità di confrontarsi con materie prime più ricercate. Il mondo dello specialty invece offre l’opportunità di creare un lessico specifico confrontandosi con dei professionisti di livello. Questo mi affascina molto.”

Dario Fociani, da Roma abolito lo zucchero

“Noi nel bar abbiamo addestrato un doberman che appena fiuta lo zucchero, attacca il cliente. Abbiamo aperto a fine del 2016 a Roma, in Piazza Fiume. La capitale forse è un pubblico un po’ restio ma, una volta conquistato, si affeziona parecchio. Abbiamo solo faticato un po’ a scalfire la tradizione italiana ormai consolidata. Il vero guaio con il cliente italiano, è che è convinto di saper tutto sul caffè proprio in quanto nato in Italia.

Sicuramente, il comodato d’uso ha inquinato il mercato. Perché dare un prodotto giudicandolo dal contesto -le attrezzature e i finanziamenti fornito- non aiuta poi a cambiare il prodotto nel tempo.

Noi da Faro abbiamo scelto di rimanere indipendenti. Così da dimostrare ai clienti che non siamo dipendenti da un unico marchio. E che la materia prima per noi è una ricerca, che è impossibile spesso di replicare nel tempo, perché alcuni specialty sono unici e hanno vita breve.  Due anni di fila, è difficilissimo trovare lo stesso prodotto.

Da Faro spieghiamo tutto questo. Per lo stesso motivo, un po’ ci rimaniamo male quando un cliente aggiunge lo zucchero. Per fare quel determinato assaggio, dai contadini in poi, il lavoro è tanto.”

La scelta di non fare miscele

“Noi non abbiamo miscele. Abbiamo delle fattorie, una lista di prodotti più classici e più particolari. All’inizio abbiamo iniziato con il Cigno Bianco di Gardelli. Esprimiamo la nostra filosofia attraverso innanzitutto il caffè. Nel rispetto della qualità e della sostenibilità dell’intera filiera. Tutti dobbiamo guadagnare.

Non facciamo solo caffè. Partiamo da esso, per poi offrire un intero servizio di ristorazione. Ci mancano gli alcolici perché non siamo esperti in materia e poi non abbiamo riscontrato una gran richiesta in questo senso. Il prodotto caffè è solo un veicolo per alzare il livello stesso di ristorazione. E superare la banalizzazione della figura del barista e dei luoghi di caffetteria. Anche gli operatori sono artigiani, sono professionisti formati, a cui dare il giusto valore.”

Il caffè mi ha scelto

“Ho iniziato a lavorare all’estero. Facevo il cameriere. Nel 2008 c’è stato l’inizio della crisi. Per cui, oh continuato a mantenermi in questo modo prima a Londra e poi a Melbourne. Ho sviluppato così l’amore per il servizio. Bisogna far sala per capire quanto sia importante la comunicazione col cliente. E’ necessario che le regole valide nel ristorante, siano applicate anche nei locali. Per elevare la conoscenza del prodotto e del servizio. Oggi i baristi non sanno neppure che materia utilizzano per le loro tazzine. Al massimo conoscono il nome della torrefazione e basta.”

Nei bar il cliente fa la sua ordinazione senza sapere assolutamente quali sia la reale offerta in termini di caffè. Quando dal banco io chiedo al consumatore, se preferisce un tradizionale o uno specialty, la risposta standard è: voglio un caffè normale. Ecco, noi vogliamo spiegare che fondamentalmente siamo ristoratori. E offriamo un prodotto di caffetteria avanzata.

Per me un caffè è buono nel momento in cui mostra una certa complessità. I gusti ovviamente sono personali, ma c’è bisogno per valutare, di avere dei punti di riferimento su cui basare la propria scelta.”

Il problema del caffè

Giulia Mulé. “E’ che la maggiorparte degli utenti non conoscono il sapore di un caffè buono. Abbiamo sempre bevuto in Italia, il caffè servito dalla moka. Il nostro palato ha registrato come sapore quello lì, magari zuccherato. E’ necessario quindi del tempo per allenare i gusti delle persone. Per far questo, è essenziale il lavoro di comunicazione del barista.”

La differenza con le caffetterie all’estero

“Secondo me il cambiamento verso lo specialty o di un caffè di qualità, deve partire dagli spazi. Che devono essere ormai instagrammabili, attraenti e accoglienti. Quello ahimè, è il punto di partenza. Avendo vissuto molto all’estero, a Londra, mi sono appassionata ai coffee shop più d’impatto dal punto di vista dell’atmosfera.

Di speciale era che erano diversi allo sguardo. Erano posti belli in cui sostare più a lungo. Dove il servizio era più che un semplice rispondere a un esigenza in termini di ordini. Ma quasi un’attenzione in più.  Col tempo, i baristi hanno iniziato a consigliarmi delle soluzioni più particolari. Man mano, hanno saputo intercettare la mia curiosità.

Quindi anche in Italia si dovrebbe iniziare a offrire uno spazio differente, in cui le persone possano stare anche due ore per fare altro. Da noi, quando è stata aperta Ditta Artigianale, mi sono precipitata per farlo sapere ai lettori. Il punto è che, se il cliente si sente bene, poi torna e porta anche qualcun altro.”

Si imita il modello inglese?

Sanapo: “No. Anzi, è importante insistere sulla nostra italianità. Noi ci distinguiamo per la passione per la materia prima di qualità. Nella mia caffetteria, per davvero, provo a dire al consumatore di provare senza lo zucchero. Che apre già un grande punto di domanda. Così si avvicina il nuovo cliente a questa esperienza particolare.”

Il gusto in tazza

Ancora Sanapo:”Mia mamma non apprezza il mio caffè, in quanto troppo fruttato. Per me è stata un po’ una sconfitta. Ma non è una cosa incredibile, perché gli italiani non sono abituati a questo gusto. Siamo noi operatori che dobbiamo ridisegnare questo aspetto. Allora io ho fatto ricerca per una miscela di qualità che potesse esser vicino alla tradizione italiana.

Dopo un anno, siamo riusciti a ricostruire questo prodotto, che ho poi dedicato a mia mamma, “Mamma mia“. Questo deve essere la base dell’espresso. Certo, ho usato degli specialty, però cercando di far evolvere l’espresso. Una bevanda nata in Italia, con un profilo gustativo preciso.”

Un processo lento

“Bisogna non mettere pressione al cliente, senza aspettarsi dei cambiamenti repentini. Ci dev’essere una grande opera di pazienza da parte degli operatori specialty. La costanza e la gradualità sono i segreti.

Il cambiamento nella torrefazione italiana rispetto all’ingresso degli specialty? Da anni c’erano già delle realtà che trattavano questo tipo di prodotto. Dai primi tempi tuttavia, sono aumentate. Ma il vero cambiamento, soprattutto a Milano, è avvenuto in quest’ultimo anno. Di sicuro ci sono tanti ragazzi giovani sempre più interessati.

Ciò che non vorrei è andare incontro alla standardizzazione degli spazi. Perché non è attraente offrire tutte delle caffetterie specialty fatte allo stesso modo, con identiche caratteristiche. E’ bello mantenere la propria personalità e la filosofia italiana. Senza scimmiottare troppo i modelli dall’estero. Il bar italiano è comunque un punto storico e tradizionale importante.”

di Simonetta Spissu

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