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IMA: subfornitori come soci nell’azienda della famiglia Vacchi

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La struttura è a raggiera. Al centro, l’impresa di medie dimensioni, attorno i fornitori. Coi quali però non c’è un semplice rapporto contrattuale ma un’intesa che rende queste mini-aziende di subfornitura, parte del gruppo.

Ovvero il committente partecipa all’innovazione tecnologica del fornitore anticipando i pagamenti, gli illustra le proprie strategie di crescita e discute con lui su come attuarle insieme, lo invita a partecipare a stage in fabbrica.

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E’ un nuovo modo di produrre, che punta sull’alta qualità dei componenti e non sul massimo ribasso.

A impostare in questo modo, cioè in rete, la produzione è Alberto Vacchi (FOTO), a capo di Ima, leader nel packaging.

L’azienda è quotata a Piazza Affari nel segmento Star ma il 60% del capitale è in mano alla So.fi.ma, holding di cui la famiglia Vacchi ha il 70%.

Lui è stato a un passo da diventare presidente di Confindustria.

Voleva rigenerare l’associazione e orientarla verso quella parte imprenditoriale che compete nel mondo.

Ma è stato bruciato sul filo del traguardo perché le aziende a partecipazione statale gli hanno votato contro.

L’ inter-connessione tra l’azienda e chi le fornisce i componenti è, secondo Vacchi, quel tassello in più che può avere l’industria italiana 4.0.

Vanno bene i big data, cioè la potenza di calcolo, la robotica, le nuove tecnologie.

Che sono però appannaggio di tutto il mondo industriale avanzato.

L’Italia, in più, può vantare una rete di piccoli e piccolissimi imprenditori specializzati nella subfornitura e in grado di proporre una qualità del prodotto ineguagliata.

Se lasciati soli e magari strozzati sui prezzi di catalogo è un valore aggiunto del made in Italy che rischia di scomparire.

Al contrario l’esperimento di Vacchi sta consentendo sia a lui che a loro di crescere.

Dice: «Loro mantengono la loro autonomia e forniscono anche altri committenti e noi li lasciamo liberi ma li facciamo partecipi delle nostre scelte e delle nostre esigenze, li consideriamo partner del gruppo e quindi siamo al loro fianco nel farli crescere, possono attingere alle nostre competenze, utilizzare i nostri specialisti, essere facilitati negli investimenti.

Nessuna gelosia.

Se cresce il sistema industriale è un bene per tutti e se loro diventano più forti lo saremo anche noi».

Ima è una case history del made in Italy leader nel mondo.

Fondata nel 1961, è specializzata nelle macchine per il confezionamento di prodotti farmaceutici, cosmetici, alimentari, tè (due terzi delle bustine di tè che ogni giorno vengono scartate nel mondo sono state impacchettate dalle macchine dell’azienda) e caffè (Nespresso fa produrre qui le sue cialde).

Ha 5.000 dipendenti (di cui 2.600 all’estero) in 38 stabilimenti tra Italia, Germania, Francia, Svizzera, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, India, Malesia e Cina.

All’inizio dell’anno ha acquisito (per 7,7, milioni di dollari) il 70% della Mai, sede a Mar del Plata, Argentina, che produce e commercializza macchine per il confezionamento di tè e tisane in sacchetti filtro (fattura 7 milioni di dollari).

“Si tratta- dice Vacchi- di un’operazione strategica. L’acquisizione ci consente di rafforzare la leadership nel confezionamento del tè e di rafforzare la presenza industriale in Sud America».

Dal te al caffè. L’acquisizione della Mai segue di poche settimane quella dell’80% di Mapster (sono stati pagati 2,4 milioni di euro, sede a Parma, fatturato di 7,5 milioni), e del 49% di Petroncini (2,5 milioni, sede a Ferrara, fatturato 8 milioni di euro, opzione per l’acquisto di un ulteriore 31%).

Le due aziende producono macchine automatiche per il riempimento e confezionamento di capsule per caffè, settore previsto in forte crescita nei prossimi anni. «

L’ampiezza della gamma è un elemento competitivo e vincente- spiega Vacchi. -Diventiamo il solo produttore in grado di offrire soluzioni per impianti completi che spaziano dal caffè verde al confezionamento finale del caffè tostato in capsule, cialde, sacchetto, incluso il packaging secondario».

Il rafforzamento di questi settori è anche una spinta alla diversificazione poiché finora il farmaceutico genera oltre la metà dei ricavi.

Le previsioni sulla chiusura del 2016 indicano un fatturato di 1,27 miliardi (+14% sul 2015) e un’Ebitda (si tolgono dall’utile lordo le imposte, gli ammortamenti, i deprezzamenti e gli interessi) di 178 milioni di euro.

Tutto questo è made in Italy 4.0.

Carlo Valentini

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