venerdì 19 Aprile 2024
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Più capsule e meno pasta, così cambiano i consumi al supermercato

Meno latte, ma tantissima birra. Specialmente artigianale. Pochi pelati e pomodorini in scatola, ma più caffè in cialde. È la fotografia dell'Italia al supermercato. Cambiata profondamente negli ultimi otto anni, quelli della grande crisi.

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MILANO – I dati analizzati da Nielsen raccontano un Paese diviso in due. Da una parte il Centro-Nord, che registra una lieve ripresa economica e sceglie prodotti di gamma più alta. Dall’altro il Sud e le isole, dove la disoccupazione giovanile incide – e non poco – sulla scelta dei prodotti che finiscono nel carrello della spesa.

Le regioni dove si spende di più sono Lombardia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Veneto, Liguria e Toscana. Qui sono in aumento le vendite di frutta secca sgusciata (più 16 per cento), salmone affumicato (più 12,8 per cento), affettati (più 9,6 per cento), birre rosse (più 11,6 per cento) e piatti pronti (più 29,3 per cento).

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Al contrario sono in netta flessione i consumi di biscotti per l’infanzia (meno 12,8 per cento), merendine (meno 4 per cento) e yogurt intero (meno 5,4 per cento).

LA NUOVA SPESA

Diversa la situazione nel meridione, dove sugli scaffali di supermercati e discount vanno a ruba bottiglie di acqua naturale (più 6,5 per cento), sostitutivi del latte uht (più 17,5 per cento) e yogurt magro (più 13,1 per cento). A rallentare la ripresa sono invece latte fresco (meno 11,4 per cento), preparati per il brodo (meno 10,2 per cento) e confetture e spalmabili (meno 7,3 per cento).

A incidere sul cambio delle abitudini alimentari è naturalmente il reddito, che continua a restare invariato nonostante l’aumento dei prezzi. Ma non solo. «È in atto un cambio deciso delle modalità di spesa, sul quale incide l’uso di internet e dell’e-commerce – spiega Italo Piccoli, sociologo dell’Università cattolica di Milano -.

In questo quadro naturalmente la forbice di reddito fra Nord e Sud si è allargata, ingigantendo un fenomeno che in Italia esiste da sempre. Storicamente la differenza fra settentrione e meridione ha sempre oscillato fra 800 e 900 euro al mese per ogni famiglia.

Adesso crisi e difficoltà occupazionale hanno portato il divario a circa mille euro». E se il reddito diminuisce la scelta sugli scaffali cambia. «Chi guadagna meno tende ad acquistare beni che costano meno, e a frequentare punti vendita low cost come per esempio i discount – prosegue -. Da parte loro, le grandi catene di supermercati hanno imparato a farsi guerra a colpi di sconti, offerte e promozioni. Sono i numeri a dimostrarlo: la pressione promozionale è cresciuta del 15 per cento negli ultimi dieci anni. Mentre ormai sul web è possibile trovare volantini di qualunque genere, disponibili ormai anche sulle app per tablet e smartphone di nuova generazione. Tutto questo incide sulla qualità degli acquisti».

IL TREND

Il cambiamento nelle abitudini dei consumatori è in atto – inarrestabile – dalla fine degli anni Novanta. Ma sono stati gli ultimi otto, quelli della grande crisi, a renderlo più evidente. Se ci sono meno soldi, si scelgono prodotti di prima necessità.

Possibilmente low cost. Questo spiega come mai la mortadella, salume tipico dell’Emilia-Romagna, vada molto bene al Sud. Mentre il prosciutto crudo sia in continua flessione. Oppure il motivo per il quale ai pelati e pomodorini in scatola si preferiscano gli ortaggi freschi acquistati al mercato. Ma queste regola generale ha un’eccezione.

Proprio quando risparmio è diventata la parola d’ordine in quasi tutte le famiglie italiane hanno cominciato a decollare i consumi di prodotti bio e gluten free. Costano decisamente di più rispetto a quelli tradizionali, eppure agli italiani sembra non importare.

«Esiste una maggiore propensione ad accantonare il denaro, ma allo stesso tempo è cresciuta l’attenzione per la qualità – conferma Enrico Valdani, economista dell’università Bocconi -. Questo spiega lo sviluppo del comparto bio. Ma anche di prodotti una volta considerati di nicchia, come per esempio le birre rosse artigianali che stanno crescendo fino al 46 per cento. Vanno benissimo anche tutti i prodotti privi di glutine, le cui vendite sono salite fra il 20 e il 90 per cento. Questo perché sempre più persone soffrono di celiachia, certo. Ma anche perché si è diffusa la convinzione che facciano bene alla salute di qualunque persona».

IL FATTORE TEMPO

Non finisce qui, perché a dispetto dei prezzi più alti, da Nord a Sud è in aumento il consumo di prodotti integrali, a base di farro e di farina di kamut (più 23 per cento). Senza dimenticare i piatti pronti freschi, le cui vendite sono cresciute del 33 per cento, e i salumi già affettati in vaschetta, in aumento del 40 per cento.

«Questo fenomeno dimostra come il fattore tempo, anche nella spesa sia diventato decisivo – prosegue -. Ciò che importa è acquistare beni di qualità, che possano essere preparati in modo veloce».

A fotografare questo cambio epocale è stato anche l’Istat, che come ogni anno ha aggiornato il suo paniere. Dal 2014 a oggi ci sono finite le bevande vegetali, i biscotti e la pasta senza glutine, la birra analcolica, il formaggio grattugiato e quello spalmabile in confezione. E infine il caffè in cialde e in capsule. Segno di una differenza radicale rispetto al passato, che relega alcuni generi alimentari più tradizionali in una posizione di nicchia.

«A pesare su questo fenomeno ci sono anche componenti strutturali – va avanti l’esperto della Bocconi -. Il numero medio delle famiglie italiane è passato da 2,8 a 2,4. Inoltre sono aumentate le famiglie mononucleari, cioè quelle formate da una sola persona. Infine non bisogna dimenticare che il 21 per cento della popolazione del Paese è composta da persone che hanno più di 65 anni di età. Tutto questo contribuisce a modificare radicalmente le abitudini di spesa degli italiani».

RISPARMIO E QUALITA’

Capita così che la regina della tavola italiana – la pasta – subisca una flessione delle vendite, alla quale fa da contraltare l’aumento del consumo di frutta e verdura. E che ai prodotti tradizionali, gli italiani preferiscano sempre di più quelli a marchio del distributore. Il buon rapporto qualità-prezzo che spesso li caratterizza fa sì che la loro quota di mercato abbia raggiunto il 20 per cento. Una cifra molto alta per il nostro Paese, ma ancora lontana dalla media europea.

«I nostri connazionali ormai hanno imparato a risparmiare, senza per questo rinunciare necessariamente alla qualità – conclude Valdani -. E questo vale sia al Nord sia al Sud. Per questo non deve stupire che in regioni come il Trentino o l’Emilia-Romagna, dove il reddito medio mensile è più alto, si tenda ad acquistare beni diversi rispetto a quelli scelti in Sicilia o Basilicata.

Basti pensare che fra la Lombardia e la Calabria, che sono ai poli opposti della classifica delle regioni più ricche, la differenza di reddito medio per ogni famiglia oscilla fra il 30 e il 40 per cento. Ed è compensata solo in parte dal costo della vita, che al Sud è più basso di circa il 15 per cento».

Insomma, l’Italia al supermercato cambia. E si fa più attenta e consapevole. Al Nord come al Sud, dove la crisi premia qualità e sostenibilità.

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