mercoledì 01 Maggio 2024
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Santaromero Coffee: quando lo specialty solo colombiano viaggia per arrivare a Torino

Il messaggio dei giovani micro roaster: "Per quanto riguarda noi piccoli attori della filiera, dobbiamo imparare a collaborare e a fare impresa, perché dietro la tazzina c’è tanta gente che lavora ed è entusiasmante. È lunga, è pesante, ma provare ad essere positivi e darsi una mano per tener duro, diventa importantissimo anche per far conoscere il caffè di qualità.”

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MILANO – Santaromero Coffee, micro torrefazione a Torino: la storia di due ragazzi che si sono incontrati all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo e hanno iniziato un percorso che li ha avvicinati al mondo del caffè. Lei, Gabriela, colombiana, che inizialmente non beveva neppure il caffè: “In Colombia, la produzione di qualità andava all’estero e nel nostro Paese restavano soltanto gli scarti, tostati molto scuri, oppure, come ad esempio succedeva a casa mia, il solubile che di certo non era caffè prodotto nel paese.”

A Pollenzo avviene la scintilla. Lui, Francesco, che ha iniziato a bere il caffè soltanto una volta che l’ha assaggiato diversamente nella Bottega delle Delizie, dove Paolo Panero, ha iniziato già nel 2015 a parlare di specialty in un posto di provincia come Bra. Lì è avvenuto il battesimo di questa coppia, che poi pian piano ha reso concreto il proprio progetto.

Triestespresso

Tanti i viaggi nelle piantagioni anche attraverso Slow Food, dal 2016 al 2020, così come sono stati tanti i caffè assaggiati. L’approccio di Santoromero alla qualità è in senso ampio: non soltanto la tazza, ma tutta la filiera, con attenzione all’aspetto più sociale di questo mercato.

Nel mezzo della pandemia, il passaggio da consumatori consapevoli a torrefattori è avvenuto attraverso la frequentazione di corsi Sca e soprattutto all’origine, così come racconta Francesco: “L’approccio alla formazione nei Paesi produttori ha una matrice molto differente, incentrata davvero sulla qualità del caffè, in quanto prodotto agricolo.”

E aggiunge Gabriela: “Ho seguito il corso roasting Sca a Roma, con un ragazzo che vive molto in sud America e poi in Colombia ho portato a termine il sensory, green coffee, barista, e ho percepito la differenza .Lì, avere a che fare con i farmers permette di confrontarsi con chi parla di un prodotto che conosce profondamente, valorizzandone gli aspetti che magari nei paesi consumatori non hanno la stessa importanza.”

Specialty: una parola che non racchiude tutto

Ci tiene a spiegare Gabriela: “E’ un po’ come la parola sostenibilità, che indica tutto e niente.” I due fondatori di Santoromero quindi continuano a crescere frequentando le fiere, conoscendo vari professionisti e colleghi.

Comprano una tostatrice da 200 grammi, una HB, con cui fanno le prime prove durante la pandemia. Gabriela racconta: “Abbiamo comprato del verde dalla Colombia. Bevevamo spesso il caffè che tostavamo noi stessi.” E, dopo 5 anni da appassionati del settore, nel 2021 partono in Colombia.

Ecco come nasce Santaromero

Un anno dedicato allo scouting tra produttori e professionisti della filiera. Francesco:  “L’energia che abbiamo trovato in Colombia, le persone del posto con la loro apertura e il loro calore, sono stati il fattore che ci ha spinto a continuare. Abbiamo girato 7-8 regioni della Colombia, alla ricerca di farmers, formandoci sul campo. L’esempio principale di come questa esperienza ci abbia arricchiti è il poter osservare personalmente il mondo delle fermentazioni: un grande trend nonostante non sia ben standardizzato. Se si chiede infatti a un produttore, si comprende presto che una buona parte non sa esattamente cosa sta facendo. Stanno sperimentando senza avere gli strumenti adatti per farlo correttamente.

Sviluppare fermentazioni particolari senza averne il controllo, ci ha fatto pensare che andare in quella direzione non fosse la cosa per forza giusta da fare – nonostante ovviamente comprendiamo che per il produttore possa costituire la possibilità di ottenere un prezzo migliore -. “

Gabriela completa il quadro: “Frequentemente i coltivatori che fanno un lavoro un po’ più scientifico sulle fermentazioni, non provengono da una famiglia di cafeteros, ma spesso hanno un background scientifico/ingegneristico e possono contare su un’educazione, una conoscenza e su dei mezzi che gli consentono di avere un maggiore controllo dei processi.

Altri produttori invece, provano a emulare le tendenze, iniziando a sperimentare diverse fermentazioni nella speranza di un prezzo migliore, senza avere ben chiaro il contesto del mercato internazionale e dei risultati in tazza.

Certo, anche questo fa parte del processo, ma sapendo che le condizioni reali sono queste, noi come Santaromero possiamo scegliere se acquistare o meno quel verde. Confrontandoci anche con degli esportatori, abbiamo scoperto che l’esportazione del caffè che va in Europa oppure negli Stati Uniti, in Australia, segue determinate tendenze. Quindi la materia prima di diversi produttori viene indirizzata verso differenti mercati.”

L’approccio olistico di Pollenzo

Francesco: “Arrivavamo dai produttori, spesso abituati a dover trattare su prezzo e quantità, e molti rimanevano sorpresi dal fatto che fossimo lì per ascoltare e vedere cosa succedesse in piantagione, per osservare la fase agricola, senza mai stabilire noi il prezzo. La sfida vera è quella poi di esser bravi a rientrare sulla qualità in tazza supportando i progetti e i contesti che non partono da qualità altissima.

Un esempio concreto: la scintilla è scoccata mentre eravamo in Colombia, insieme ad un proprietario di una caffetteria proveniente dal Meta, l’ultima regione prima dell’Amazzonia e anche il solo posto in cui non siamo arrivati per questioni di sicurezza. Questo imprenditore ci ha avvicinato ad un gruppo di produttori che lavora all’interno di un progetto per la sostituzione delle piante di coca con il caffè. Sono persone molto precise nella selezione e nel lavoro. Loro rappresentano un percorso in divenire ma purtroppo ancora molto legato a scelte politiche e sociali: può essere che oggi il loro Castillo valga 86 punti ma la prossima raccolta soltanto 82/83, o viceversa.”

“L’idea di Santaromero è anche quello di dare un feedback diretto”

“E chiedere ai produttori: che cosa è successo, se qualcosa è andato storto. Basta una stagione di pioggia più lunga a cambiare la qualità durante l’essiccazione del caffè e capirlo ci rende più consapevoli.

In Colombia, alle origini (foto concessa)

L’altra chiave di lettura forte di Santaromero, è la Colombia. Non porteremo altre origini, ma diverse varietà, fermentazioni, profili di tazze, sempre dallo stesso Paese, parlando di regioni che non arrivano in Europa: vicino a casa di Gabriela al confine con il Venezuela, abbiamo conosciuto un produttore a cui vogliamo bene, un agricoltore che 4-5 anni fa, ponendosi contro la Federazione, ha deciso di piantare la varietà Geisha, nel Norte de Santander, senza supporto.

A 1900 metri, di fronte al Venezuela, con una grande escursione termica, la magia avviene. Soltanto per arrivarci abbiamo viaggiato 34 ore per percorrere 59 chilometri. È una zona molto difficile.

Oggi nelle miscele si trova il caffè di media qualità di Norte de Santander per il mercato commerciale, lui invece ha puntato sulla qualità producendo un Castillo e un Geisha, che in tazza hanno un corpo lattico, non comune per le varietà, che non derivava da un processo di fermentazione come avremmo potuto pensare, ma dal terroir ricco di minerali in cui crescono.

Nel giro di 6 mesi questo Geisha è aumentato quasi del 100%. Questo perché in Colombia stanno spingendo sul caffè di qualità e lui ha sempre vinto diversi concorsi, partecipando a delle aste che hanno raggiunto dei prezzi allucinanti. Lui è consapevole che quel costo è eccessivo, ma è il mercato che lo aveva stabilito.”

Quali sono le difficoltà di portare lo specialty colombiano sino a Torino?

“Abbiamo una grossa fortuna, perché in primis conosciamo la cultura del paese e abbiamo sviluppato dei rapporti con persone del settore.  Il nostro obiettivo è quello di tornare in Colombia per visitare i produttori ed essere presenti prima del giorno della spedizione. Per noi è stato difficile non soltanto valutare la qualità di quello che ci arrivava, ma anche muovere il verde in Colombia.

Francesco: “La parola specialty in origine non ha molto significato. Il caffè speciale non è poi sempre bandito da una scheda SCA che abbia più di 80 punti. Un produttore su 3, togliendo i difetti e facendo una selezione, tranquillamente produce specialty da 82/84 punti e questo per loro è una benedizione. Molti neppure lo sanno.”

Gabriela mentre tosta il caffè (foto concessa)

Gabriela apre una parentesi: “Sdoganiamo il mito della ciliegia perfetta. Essendo un frutto è normale che ci siano livelli di maturazione differenti e quindi per fare qualità diventa importante vivere la parte agricola con un’attenzione straordinaria, pur sapendo che una parte della produzione di “seconda qualità” dovrà andare su altri mercati.”

Francesco: “Bisogna umanizzare il caffè di qualità. Si tratta di un prodotto agricolo e sociale. Noi ad esempio siamo arrivati in piena crisi del lavoro: c’erano pochi raccoglitori.

C’è tanto disagio sociale nelle fincas e, spesso, i raccoglitori più bravi hanno 60 anni. Abbiamo intervistato una coltivatrice che a 27 anni si è ritrovata a dover gestire 3 aziende agricole per un totale di 40 ettari, che non sa come farà a occuparsi di tutto tra 5 anni. Cosa succederà quando i lavoratori saranno troppo vecchi e nessuna nuova forza lavoro si inserirà sui campi? Quindi, è importante umanizzare il processo.”

Nel 2021, create le situazioni e le relazioni umane che hanno aiutato alla creazione di Santaromero

Gabriela ha passato quasi 3 mesi al telefono, combattendo il fuso orario, soltanto per seguire il caffè e farlo arrivare in un posto solo. La comunicazione è fondamentale, così come la creazione di relazioni di fiducia.

Francesco: “Collaboriamo con un giovanissimo produttore e esportatore per gestire la parte burocratica dell’esportazione. Noi abbiamo affidato i soldi al ragazzo che poi a sua volta retribuiva i coltivatori, per rientrare nei parametri burocratici, nel rispetto delle condizioni contrattuali che avevamo stabilito con i produttori e seguito noi. Questo comporta anche il pagamento per intero in anticipo di tutta la materia prima: uno sforzo e un atto di fiducia non da poco. Capiamo chi non lo fa.

E bisogna anche accoppiare nel container diversi caffè e anche in questo caso, il rapporto di fiducia è fondamentale. Al punto che chi fa qualità, può esportare in aereo, anche se non è il modo più sostenibile possibile: il gioco resta quello di tenere il caffè il meno fermo possibile in diversi posti. Abbiamo dovuto fare una ricerca anche sugli agenti validi e abbiamo avuto la fortuna di trovarci bene con uno di loro che ha sdoganato il caffè nel giro di poco tempo.”

Gabriela: “Trovare Ervin in Colombia come esportatore, è stato paradossalmente più facile che fare scouting tra gli importatori qui. Molti ci hanno terrorizzato, perché non sono in pochi che fanno arrivare il caffè e lo fanno restare fermo mesi.”

Francesco: “Noi non siamo paladini della giustizia, della sostenibilità. Abbiamo deciso di aprire in queste modalità Santaromero e magari poi cambieremo delle cose più avanti. Ma il concetto però fondamentale è: cercare di lasciare il maggiore valore aggiunto in origine. L’esempio che vogliamo perpetuare è che al Signor Diofanor, se lo paghiamo direttamente, guadagna 2-3 mila pesos in più. Ci sono situazioni per noi importanti da coltivare umanamente, almeno finché il nostro business continuerà ad andare avanti.

Ha molto senso collaborare, mettere insieme più sacchi. Per noi è un motivo di orgoglio portare qua il caffè di persone a cui brillano gli occhi pensando di arrivare in Italia. Ci piacerebbe ovviamente vendere in Europa, per qualità del mercato e dei consumi, ma in Italia vediamo una prateria: c’è tantissimo spazio ancora inesplorato.

Molti ci hanno detto di restare in Colombia perché qui fare gli imprenditori è da folli. All’inizio, siamo consapevoli che dovremo muoverci tanto, comunicare molto anche su Instagram. Non stiamo facendo niente di eccezionale, ma semplicemente quello che ci piace stando fedeli ai nostri valori. Sentiamo comunque che c’è tanta curiosità attorno a questo tema ed è importante avere sostanza per farlo. Il greenwashing è dietro l’angolo e quindi bisogna essere molto concreti senza vendere fumo.

Parliamo anche della vostra scelta particolare per la tostatrice di Santaromero

Francesco: “Visto che è molto complicato essere indipendenti in questo mercato e le spinte arrivano da tante parti, è facile cedere da una parte o un’altra. Siamo in due, abbiamo visto le origini, abbiamo svolto un lavoro sulle nostre sole spalle anche di selezione di alcuni prodotti e strumenti escludendo le logiche delle tendenze. Noi abbiamo selezionato una marca colombiana, una Prisma da 3 chili, per i tanti feedback di colleghi ricevuti e soprattutto perché l’abbiamo potuta testare con mano e ci piace la sua consistenza nella trasmissione del calore. Il suo creatore è un ingegnere di Medellin, una città in grande fermento per innovazione e cultura di impresa.

Gabriela: “Molte persone in finca stanno iniziando anche a tostare il proprio caffè, creando valore aggiunto anche sulla trasformazione. Il tema della formazione in origine è importante, sta aumentando e siamo molto curiosi di vedere tra 5 anni come si evolverà il mercato. Molti nei Paesi produttori si stanno svegliando. Come italiani esportiamo il cibo e la cultura gastronomica, e il Sud America essendo è molto esterofilo lo vive con grande rispetto e entusiasmo.

Ma quando sono loro a comprendere il valore del loro prodotto, iniziando a investire sulla qualità, chissà come ci comporteremo noi trasformatori nei paesi consumatori. I prezzi stanno aumentando, sempre di più si sta riconoscendo il lavoro di qualità e di conseguenza il mercato cambierà.” Questo vorrà dire che da micro torrefattori, dovremmo rivolgerci a un mercato di lusso, perché il target a cui ci piacerebbe vendere non sarà quello a cui potremo vendere. Noi, personalmente, faremo di tutto per restare accessibili, mantenendo magari una miscela ad un costo più basso, ma il rischio è un po’ quello.

Per il futuro speriamo di evolverci passando più mesi all’anno in Colombia, stando in contatto con i coltivatori e lavorando sempre di più con il verde di qualità. Chissà se in Italia tra 6 anni vedremo batch brew più diffusi, anche a 3-4 euro, con un Castillo naturale, un Bourbon, un Pacamara honey, stando più attenti alla sostanza e meno alla forma, in maniera più sostenibile per le caffetterie. Magari cambierà anche il mercato italiano, nonostante la barriera culturale che ci contraddistingue.

E invece per quanto riguarda noi piccoli attori della filiera, dobbiamo imparare a collaborare e a fare impresa, perché dietro la tazzina c’è tanta gente che lavora ed è entusiasmante. È lunga, è pesante, ma provare ad essere positivi e darsi una mano per tener duro, diventa importantissimo anche per far conoscere il caffè di qualità.”

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