giovedì 11 Aprile 2024
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L’antropologo Luca Ciurleo: “Il bar è la chiesa laica del rito dell’espresso e cappuccino”

Ciurleo: "La macchina per espresso, che non è altro in realtà se non un attrezzo di produzione come il tostapane, nei bar è messa in bella in vista, e diventa un po’ il sancta sanctorum. Il cliente che ha confidenza si avvicina al bancone un po’ come i fedeli all’altare"

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MILANO – Luca Ciurleo si è laureato in Antropologia culturale ed Etnologia all’Università degli studi di Torino e in tutto il suo percorso si è sempre interessato al cibo e alle bevande rispetto alla loro valenza simbolica per chi li consuma: il rito della tazzina non è sfuggito alla sua ricerca, tra novità, convinzioni tutte italiane e difficili da scardinare, prospettive.

Ciurleo, cosa l’ha portata a studiare il rituale dell’espresso?

“Nasco antropologo e via via mi sono specializzato nello studio del cibo traghettato dalla tradizione. La cosa più bella che ho scoperto è tutto ciò che è legato al caffè: andare a prendere un espresso al bar ha un significato che va oltre la consumazione.

Mi viene in mente un esempio, la serie “Camera caffè”, in cui tutte le interazioni tra colleghi e protagonisti non avrebbero avuto senso o luogo se non in quanto svolte proprio attorno al distributore durante la pausa caffè dell’ufficio.

In questo spazio avviene un sovvertimento addirittura dell’ordine, delle gerarchie sociali. Questo perché si realizzano degli scambi differenti a seconda del contesto in cui avvengono. Ho teorizzato secondo questa premessa, l’idea che il bar altro non è che la chiesa laica del rito del caffè.

La macchina per espresso, che non è altro in realtà se non un attrezzo di produzione come il tostapane, nei bar è messa in bella in vista, e diventa un po’ il sancta sanctorum. Il cliente che ha confidenza si avvicina al bancone un po’ come i fedeli all’altare. Chi invece va per incontrarsi con la propria ragazza – mia moglie l’ho conosciuta così – si posiziona al tavolo, dove ha un po’ più di privacy.

Quindi il bar diventa un luogo eclettico, dove è possibile sia coltivare dei momenti intimi con amici e colleghi sia, come ha scritto Marc Augè, fare palleggiamento sociale. Le persone che vanno al bar per fare conversazione, sono come i tennisti che prima della finale di Wimbledon fanno due palleggi per prepararsi. Il bar è un po’ il riscaldamento sociale. Le interazioni sono importanti nel bar all’italiana, che è il concetto che è stato ripreso addirittura da McDonald’s quando sono nati i McCafè. Starbucks poi ci ha insegnato dei nuovi metodi di consumazione. “

Due suoi libri: 1000 e un caffè. I molti volti di un rito sociale. Edizioni Landexplorer, Boca, 2018 e ‘La società di lattice. Viaggio di un antropologo urbano nel mondo post Covid 19.

Ciurleo, che cosa ci raccontano dell’horeca di oggi?

“Prima di tutto siamo di fronte a un cambiamento catastrofico: il mondo del bar ha dovuto rigenerarsi dopo una dura fase di chiusura. La socialità rischiava di cadere nel baratro. Sono riusciti però a ricostruire e ancora più mi torna in mente di fronte a questo fenomeno, il parallelismo tra chiesa e bar: in uno hanno tolto le acquasantiere per farsi il segno della croce, nell’altro hanno piazzato gli igienizzanti, un’abluzione rituale della pulizia delle mani all’ingresso.

Non tutto il male viene per nuocere: i lavoratori in questo periodo di fermo hanno potuto fare delle riflessioni sindacali. Anche noi abbiamo appreso qualcosa dal Covid. Il bar prima era solo il luogo della socialità e ora non basta più. Ancora meno se messo a confronto con l’uso domestico di capsule e cialde, rafforzato durante la pandemia, che riproducono dei risultati più o meno paragonabili e assimilabili a quello dell’espresso servito in caffetteria.

I bar quindi stanno riformulando la propria funzione.

Alcuni, non tanti in percentuale, si stanno ricostruendo come luoghi legati più alla qualità della materia prima. A Domodossola, dove vivo io, c’è un bar che serve specialty: in un paese di 18mila abitanti è incredibile che se ne trovi anche solo uno. È un forte segnale che ci si sta avvicinando a una maggiore conoscenza del caffè. Cosa che probabilmente non sarebbe accaduta senza il Covid.

Il caffè come rito sociale dov’è più importante l’idea della convivialità e il tempo insieme agli altri indipendentemente da ciò che si degusta, ora sta timidamente cedendo il passo alla necessità di bere qualcosa di buono.

Un po’ come è successo con il vino attraverso la sommelierie. Ora si inizia a comprendere che il caffè non è tutto uguale. È una cosa che ho sperimentato in prima persona: collaboro con Coop e nelle domeniche ho intervistato i consumatori di passaggio, chiedendo loro che caffè bevessero.

Spesso la maggior parte non sapeva neppure cosa rispondere – in linea di massima affermavano di acquistare quello che costava meno – poi però facendo loro sperimentare un Brasile o un’altra monorigine, cominciavano a capire la differenza. È un lavoro lungo di comunicazione. “

Ciurleo: “Si sta assistendo a un cambio di prospettiva importante anche da parte dei grandi torrefattori. “

“In Italia purtroppo ci nascondiamo dietro il vanto di esser i migliori a preparare l’espresso come si deve. Ancora si è convinti quasi che il caffè venga coltivato da noi e non solo torrefatto. Anche gli chef stellati arrivano a fare figure misere con la tazzina a fine pasto che non viene considerata minimamente.

Come se fosse un particolare in più che sono obbligati a servire e che però non vale la pena di curare perché il cliente non ci presta mai troppa attenzione. Niente di più sbagliato: la stessa passione per lo studio del menù, della piccola pasticceria, dovrebbe esser posta coerentemente anche sul caffè, che deve esser ripensato come ultima coccola al cliente.”

Ma perché nella patria dell’espresso siamo così impreparati invece sulla bevanda?

“L’ignoranza è dovuta al fatto che lo beviamo per abitudine e tradizione. È un gesto che si è sempre fatto senza chiedersi mai qualcosa sulla qualità del prodotto. Siamo abituati a portare avanti per inerzia il rito di fine pasto, ma ancora oggi non esiste un discorso di cultura dietro. Il lavoro che alcuni dei grandi marchi stanno portando avanti ultimamente va proprio in questa direzione.

Spero che il bar possa essere il veicolo di questa evoluzione, tramite il barista che può occuparsi dello storytelling del prodotto. Penso più realisticamente però che si arriverà al consumatore tramite la grande distribuzione: la presenza ad esempio di Starbucks nei supermercati e così anche di altri grandi marchi che approdano tra gli scaffali con prodotti differenti, può iniziare a segnalare al consumatore che ci sono altri modi di intendere il caffè.

Mi auguro che il barista faccia il suo lavoro liturgico di diffusore e comunicatore della bevanda, ma la gdo aiuterà maggiormente a penetrare le abitudini di consumo. Ora molte etichette indicano qualche informazione in più sulla miscela, anche se ancora non siamo arrivati a dei livelli più dettagliati che informano anche sui metodi di lavorazione e le varie origini.

Ho notato però anche meno diffidenza tra le persone che ho intervistato e che soprattutto la fascia d’età è determinante: tra gli anziani il caffè è uno ed è quello e basta, non si può cambiare. Dobbiamo puntare sulle nuove generazioni: lavoro su una scuola professionale e sto tentando di far lavorare i ragazzi anche sulla conoscenza del caffè, sulla degustazione di diverse tipologie. Stesso discorso sull’apertura verso metodi di estrazione oltre l’espresso.”

Il riconoscimento Unesco è un’arma a doppio taglio?

Ciurleo: “Certamente da una parte il riconoscimento potrebbe spingere ad idealizzare e a fossilizzare ulteriormente l’espresso preparato scorrettamente. Da una parte l’etnocentrismo quindi è un rischio, ma visto dal lato positivo, il riconoscimento spingerebbe gli italiani ad esplorare il modo in cui lo fanno gli altri all’estero. Il Covid ci ha avvicinato alla passione verso un prodotto diverso e migliore. Ci ha fatto riscoprire l’importanza non solo di stare seduti al bancone, ma di provare qualcosa di buono.

E questo è vero ancor più adesso che ormai i prezzi si sono alzati e quindi per dare valore all’esperienza e al costo, i consumatori sempre più sceglieranno luoghi in cui spendere per la qualità. Impariamo quindi a non bere 70 caffè al giorno – tutti pessimi – giusto per avere una dose di caffeina, e invece a berne tre ma davvero gustosi. Magari scopriremo anche diversi metodi di estrazione per accompagnare differenti momenti della giornata.”

Ciurleo, come ci spiega questa ribellione dell’italiano a salire oltre l’euro?

“Anche in questo caso la ragione è perché è sempre stato così: il caffè è una droga a basso prezzo che mi permette di tornare a lavorare dopo una piccola pausa. E poi, c’è da ammettere che alcuni espressi effettivamente non varrebbero neppure quell’euro che si paga.

Siamo sempre andati avanti abituati che il caffè, che ricordo non è un bene di prima necessità, debba costare un euro ed è diventato in tutti questi anni parte integrante del rito liturgico: cambiare questo passaggio risulta un po’ sacrilego. A maggior ragione adesso che stiamo vivendo un momento critico come questo, la tradizione sembra rassicurante.
E invece non si dovrebbe vivere come una bestemmia: dobbiamo smettere di pensare di pagare così a poco prezzo il frutto di un lavoro che a monte è innanzitutto sulle spalle e spesso a discapito dei coltivatori. Valorizziamo invece questo prodotto. Ricordiamoci che la tradizione per sopravvivere si rinnova di continuo. “

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