mercoledì 10 Aprile 2024
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Fabio Verona: “Il caffè italiano è il peggiore del mondo? Si dovrebbe educare il barista con articoli formativi”

L'esperto: "Invece di sparare a zero sul caffè italiano, rischiando anche di compromettere un mercato estero importante, focalizziamo i nostri sforzi in positivo: aiutiamo il barista ad elaborare un business plan adeguato, spieghiamogli  come migliorare la performace e diamogli informazioni tecniche per essere più preparato nella scelta delle attrezzature, allora sono certo che poco a poco torneremo ad avere un prodotto migliore"

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Secondo un recente articolo apparso sul Gambero Rosso e firmato da Anna Muzio, il caffè italiano sarebbe il peggiore del mondo: amaro, sgradevole e frutto di una tostatura troppo scura che non permette al palato del consumatore di percepire gli aromi del contenuto della tazzina. L’articolo aggiunge che la crema spessa è dovuta, la maggior parte delle volte, da una miscela di Robusta di bassa qualità.

L’articolo si fa forza con l’opinione di alcune voci del panorama caffeicolo. Andrej Godina, ad esempio concorda sul fatto che la maggior parte dei bar italiani offre un caffè mediocre con grandi difetti della materia prima all’origine.

Qui di seguito Fabio Verona, head of training and fairs di Caffè Costadoro, esprime la sua opinione al riguardo, analizzando lo stato economico e sociale del settore dei bar in Italia.

Il caffè e i bar in Italia: dove migliorare

di Fabio Verona

MILANO – “Che l’articolo apparso sul Gambero Rosso sito specializzato relativo alla qualità dell’espresso e del caffè in generale in Italia sia stato scritto per destare attenzione è palese. Per altro, quanto descritto dai miei colleghi trainer corrisponde ad una parte di verità, e sono argomenti che io stesso utilizzo durante i miei corsi.

Probabilmente si poteva evitare di partire da qualche aspetto negativo per denigrare tutto un comparto economico-sociale fondamentale nel nostro paese, o quantomeno essere meno tranchant.

Per altro, essendo io dipendente di una media/grande torrefazione con il ruolo di formatore, mi ritrovo ad affrontare quotidianamente situazioni difficili, dove il mio ruolo diventa quasi quello di consulente del barista. Il quale, sovente, viene nella nostra academy per il corso di formazione che offriamo ai nostri clienti, non ancora ben deciso su quale miscela scegliere.

E la difficoltà non è certo quella del saperlo consigliare, ma soprattutto quella di far comprendere quanto la differenza di pochi euro al chilogrammo possano davvero cambiare i suoi risultati in termini di vendite, e di conseguenza di utile a fine mese.

È molto evidente come, a quasi due anni dal termine della pandemia, la crisi sia ancora presente. Questo dato innegabile ha portato molti soggetti a affrontare situazioni che nel 2019 non erano nemmeno immaginabili.

Allo stesso tempo, se il lavoro svolto fino a quella data aveva portato dei miglioramenti in tutto il comparto in termini di qualità e servizio, oggi ci ritroviamo a dover quasi ricominciare da zero, con timori (comprensibili) e nuove difficoltà, fosse anche solo quella di reperire del personale “stabile”.

Ma non solo, in quanto oggi, per aprire un bar, non servono particolari requisiti e nemmeno grandi investimenti economici, molte persone che si sono ritrovate senza un lavoro dopo il Covid hanno intrapreso questo tipo di attività.

Non sta a me giudicare se sia giusto o sbagliato dare supporto a chi fa questa scelta, ma di certo so che non è corretto fare di tutta l’erba un fascio.

Ci sono aziende con contratti di somministrazione e comodato chiari e senza vincoli, così come ce ne sono con contratti capestro e penali vergognose, questo perché non esiste una vera e propria regolamentazione nel settore, e purtroppo come sempre l’ignoranza è la peggior nemica.

Sapendo quali sono i costi da sostenere per la fornitura delle varie attrezzature, ormai un vincolo difficile da estirpare dalla mentalità del barista, sono certo che i torrefattori che vogliono lavorare su onestà, trasparenza e qualità sarebbero i primi a volere che il barman acquistasse i macchinari, potendo godere di un prezzo inferiore del caffè al chilogramm e lasciando che ci si possa concentrare solo sulla scelta della miscela e sulla formazione, ma ad oggi siamo appena al 2% dei nostri clienti che ha accettato questa formula, sebbene con incentivi all’acquisto dilazionato e con sconti che egli stesso, senza l’intermediazione dell’azienda, non avrebbe potuto ottenere”.

Invece di sparare a zero sul caffè italiano, rischiando anche di compromettere un mercato estero importante, focalizziamo i nostri sforzi in positivo.

Quindi educhiamo il cliente con articoli formativi, aiutiamo il barista ad elaborare un business plan adeguato, spieghiamogli  come migliorare la performace e diamogli informazioni tecniche per essere più preparato nella scelta delle attrezzature.

Allora sono certo che poco a poco torneremo ad avere un prodotto migliore.

Io sono da sempre un promotore della conoscenza, ho scritto un semplice manuale per aiutare baristi e clienti a comprendere l’importanza ed il piacere di questo lavoro (Professione Barista, edito da Tecniche Nuove) e svolgo corsi per lo più gratuiti presso la nostra torrefazione anche per gli associati Epat, come credo facciano anche molti altri miei colleghi.

Invito quindi i baristi in primis ad informarsi, a chiedere come poter partecipare, a seguire fiere ed eventi, assaggiare tanti caffè differenti (possibilmente senza zucchero, per percepirne più facilmente pregi e difetti), educando il proprio palato.
E una volta educati, fare proseliti, portando la cultura del caffè ai clienti, che è la parte più difficile, ma la si può fare solo se si ha una buona base formativa e tanta volontà.

Non credo sia solo una mia percezione, ma anche quando si riesce a creare un barista competente, il quale prepara un espresso ben fatto e con attrezzature adeguate e ben mantenute ma non sufficientemente convinto ad utilizzare un prodotto di qualità, sovente, dopo pochi mesi, avviene l’immancabile richiesta del passaggio ad un caffè più intenso, forte, e corposo perché la clientela non apprezza il gusto più delicato e talvolta più fruttato degli arabiche lavate e tostate in modo corretto.

E qui viene fuori il grande dubbio del torrefattore (tanto più grande quanto più ha investito nel cliente): accontento il barista fornendo un prodotto che seppur realizzato con materie prime buone porterà sicuramente un espresso con caratteristiche diverse rispetto agli standard qualitativi precedenti ma continuo a servirlo.

Oppure: insisto sulla prerogativa della qualità, offrendo ulteriore supporto anche di marketing, tecnico e formativo.

Oppure, infine rinuncio e lascio che il mio cliente (che con molta fatica ho conquistato) vada in cerca per un altro torrefattore che non si farà scrupoli a portarmelo via?

Ricordiamo che ogni azienda, piccola o grande che sia, ha dei conti economici da far tornare e, spesso, è responsabile di molte famiglie, e non sempre è possibile scegliere bianco o nero.

Con questa ultima domanda vi saluto, e vi aspetto al Sigep allo stand di Costadoro (B1-200) per assaggiare differenti espressi, di qualità, per differenti palati. Ma non parlatemi di comodati o finanziamenti!

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