giovedì 11 Aprile 2024
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Andrea Panizzardi: “Ecco perché in Italia non si ha ancora la cultura del caffè”

Andrea Panizzardi, campione italiano di moka e aeropress, formatore, torrefattore e fondatore di Alternative Coffee Panizza di Casalnoceto (Al): “Noi abbiamo una cultura intesa come rituale, come tradizione, ma mentre all’estero studiano che cos’è il caffè e come migliorarlo dalla piantagione al trasporto, alla torrefazione, all’estrazione e così via, noi ci crogioliamo sul fatto di avere creato il rito del caffè, ciò che sta attorno alla tazza piuttosto che quello che ci sta dentro. Credo sia arrivato il momento di evolversi e poi mi capita di girare tra i bar e mi sembra che si sia perso anche l’aspetto rituale che ci differenziava. Non c’è più il rito di fermarsi davanti a una tazzina e chiacchierare di calcio o di politica"

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Si parla spesso di candidare il rito del caffè espresso all’Unesco, ma quanto si conoscono questi chicchi nel Bel Paese? Le tazze in patria sono davvero superiori a quelle che si bevono all’estero? ll sito Agrodolce si interroga  se in Italia ci sia la cultura del caffè. La risposta sembrerebbe di no.

Leggiamo di seguito la prima parte dell’articolo di Carlotta Mariani che comprende l’intervento di Andrea Panizzardi, campione italiano di moka e aeropress, formatore, torrefattore e fondatore di Alternative Coffee Panizza di Casalnoceto (Al).

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Il rito del caffè in Italia

MILANO – In tutto il mondo l’Italia è riconosciuta per essere la patria del caffè, dell’espresso in particolare, e spesso, quando andiamo all’estero, critichiamo quel liquido scuro che ci viene servito in tazza. Siamo talmente fieri della nostra tradizione che nel 2022 il “caffè italiano espresso tra cultura, rituali, socialità e letteratura nelle comunità emblematiche da Venezia a Napoli” era stato proposto come candidato tricolore a patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco.

Candidatura poi bocciata dalla commissione nazionale per l’Unesco (a favore dell’opera lirica), che, in effetti, non aveva tutti i torti. Alla luce di questo, la domanda che ci siamo posti è: in Italia infatti esiste davvero una cultura del caffè? Sappiamo riconoscere un prodotto ben estratto? Conosciamo il sapore di un buon caffè? Abbiamo un’idea dei luoghi di provenienza della materia prima?

Lo chiediamo lungo, corto, doppio, macchiato caldo o freddo, in tazza di vetro, con lo zucchero, corretto, shakerato e chi più ne ha ne metta. Conosciamo tutte le possibili ricette, ma ci fermiamo mai un istante a sentirne il profumo, lo assaporiamo un secondo prima di farlo scivolare in gola alla velocità della luce? O forse è vero che gli italiani non conoscono il caffè?

Quanti tipi di caffe esistono?

Oltre all’espresso e alla moka, il mondo del caffè offre molto di più, peccato che in Italia non ci stiamo facendo molto caso. Esistono infatti diversi tipi di preparazione, con differenti risultati in tazza, ed esistono gli specialty coffee ovvero caffè selezionati per condizioni ambientali e climatiche che in tazza regalano un determinato profilo gustativo, grazie anche alla particolare lavorazione che ha permesso di preservarne tutte le caratteristiche uniche.

Non è un caffè come gli altri e all’estero lo sanno bene, ma c’è chi, anche nel nostro Paese, cerca di portare questo mondo, questa maggior conoscenza della materia prima e dei suoi diversi tipi di estrazione rompendo i canoni della tradizione.

Tra questi, Andrea Panizzardi, conosciuto come il Panizza, barista della Specialty Coffee Association (Sca), campione italiano di moka e aeropress, formatore, torrefattore e fondatore di Alternative Coffee Panizza di Casalnoceto (Al). Vediamo che cosa ci ha spiegato.

Gli italiani ne capiscono di caffè?

In realtà per esser precisi la domanda che abbiamo posto è Ci riteniamo la patria del caffè, ma c’è davvero questa cultura, in base alla tua esperienza?

“Noi abbiamo una cultura intesa come rituale, come tradizione, ma mentre all’estero studiano che cos’è il caffè e come migliorarlo dalla piantagione al trasporto, alla torrefazione, all’estrazione e così via, noi ci crogioliamo sul fatto di avere creato il rito del caffè, ciò che sta attorno alla tazza piuttosto che quello che ci sta dentro.

Credo sia arrivato il momento di evolversi e poi mi capita di girare tra i bar e mi sembra che si sia perso anche l’aspetto rituale che ci differenziava. Non c’è più il rito di fermarsi davanti a una tazzina e chiacchierare di calcio o di politica.

Si ingurgita al banco di corsa senza sapere che cosa stiamo bevendo, che profumo ha, ecc. Non c’è empatia con il barista o la barista, non c’è attenzione alla preparazione delle bevanda o al servizio.”

Perché gli italiani dovrebbero aprirsi a tutte le sfaccettature di questo mondo?

“Non è un obbligo ovviamente, ma in questo modo il consumatore medio potrebbe provare un’esperienza nuova e potrebbe accorgersi che un’estrazione in filtro o un espresso oggettivamente fatto bene potrebbe, per esempio, non farti mettere lo zucchero nel caffè o farti ricredere su certi aspetti.

Per esempio, c’è chi dice che tre tazze di caffè facciano male ma magari è la tostatura a essere eccessiva o la quantità oppure non si ha il controllo dell’acqua o del caffè che si sta utilizzando. Ci sono poi chicchi che sono in giro da più di 10 anni e quindi devi spingere sulla tostatura per renderli accettabili con il rischio che una tazza di quel caffè ti porterà ad avere problemi gastrointestinali”.

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