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Dallo Jesi Caffè, Samuele Gara consiglia: parlare al cliente e conoscere tutto

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MILANO – Nel nostro percorso di conoscenza del mondo della gestione di locali, restituiamo il punto di vista di Samuele Gara, titolare dello Jesi Caffè. Situato in Viale della vittoria a Jesi, in provincia di Ancona. Un’attività cominciata due anni fa e che oggi, non solo è ancora aperta, ma è in procinto di espandersi in un secondo coffee shop.

Jesi Caffè, una realtà che funziona

E allora: che cosa dovrebbe sapere chi decide di avviare una propria attività?

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“Sicuramente chi sceglie questa strada, dovrebbe conoscere la materia. Soprattutto se tratta come focus un prodotto come il caffè: deve saperlo padroneggiare. Parliamo di un mondo in continua evoluzione e per questo ci si deve mantenere aggiornati.

Non basta più infatti saper preparare semplicemente il caffè. Quella fase è superata: ormai questo aspetto è il minimo e indispensabile. Oggi, per la mia breve esperienza da gestore di caffetteria specialty, bisognerebbe avere una conoscenza completa della bevanda. A partire dall’origine alle varie metodologie di estrazione.”

Come mai ha deciso di aprire una caffetteria a un certo punto?

“Il fattore trainante, che poi è lo stesso che potrebbe portare al successo, è la passione. Rappresentando un po’ l’avanguardia, la caffetteria specialty oggi apre una strada in Italia, che probabilmente si evolverà. Ho già un’idea di cosa potrebbe accadere, ma attualmente è ancora una novità.

La passione però è indispensabile, non solo per trattare la materia, ma anche per porterla trasmettere al consumatore.

Prima lavoravo all’interno del settore vending, in un’azienda di famiglia. Ho capito che, fondamentalmente gli elementi base sono due: il saper stare a contatto con le persone e poi la conoscenza della materia.

L’aspetto del dialogo con i clienti è forse, specialmente nel periodo iniziale, quello più decisivo da curare. Ancor prima della conoscenza della materia prima: infatti, la formazione è sempre perfezionabile nel tempo.

C’è un difetto che finora ho riscontrato spesso, prima guardando dall’esterno e poi dall’interno: chi conosce la materia non si rende spesso conto che si relaziona a chi è totalmente a digiuno di questo mondo.

Non puoi fare lo scienziato di fronte al consumatore. Altrimenti li spaventi ulteriormente. Io riesco a vendere l’espresso a due euro ogni giorno, perché cerco di mantenere un contatto con il cliente. Poi il caffè filtro può arrivare anche ai 4 euro, se viene prodotto come si deve e con un senso.

Noi vendiamo anche Robusta a un euro. Questo perché non si può fare a meno di offrirla, oggi come oggi. Non condivido l’opinione di molti che affermano che la Robusta non sia caffè.

Mi riferisco poi all’inchiesta uscita per Report: mi ha portato un numero maggiore dei clienti e di valore aggiunto. Ma non sono d’accordo con l’attacco che è stato fatto durante l’indagine.

Non condivido la demonizzazione di una caffetteria storica come il Gran Caffè Gambrinus. Non ne ho apprezzato le modalità. ”

A proposito di locali storici italiani: nel momento in cui ha aperto lo Jesi caffè, ha analizzato i format di successo anche all’estero?

“Una bella domanda. In realtà sì, ma ho smesso di osservare nei due anni precedenti all’apertura dello Jesi caffè. Perché mi sono reso conto che già no ieravamo pionieri e quindi dovevamo avere la libertà di fare quello che volevamo. Perché non c’erano esempi da seguire.

L’estero è un modello, ma non è applicabile attualmente alla mia clientela. Potrei prenderlo come esempio solo tra qualche anno, oppure pensando a dei consumatori più giovani che hanno viaggiato.”

La location e il design: per lo Jesi Caffè sono stati curati questi aspetti?

“E’ fondamentale occuparsene per tutte le forme di hospitality. La gente che esce per consumare fuori casa, anche spendendo poco, si aspetta di trovare un certo ambiente. E’ importantissimo ringraziare la clientela con la cura dei locali, nella sua creazione e rinnovazione. Il fattore estetico, senza dubbio deve esser un input che colpisce chi chi entra.

Mentre, la zona per l’apertura è altrettanto importante. Lo Jesi caffè è una piccola caffetteria al centro.”

Qual è stato il target di clientela che ha pensato?

“Ho pensato a delle persone tra i 25  e i 65 anni. Mediamente una fascia anagrafica più avanzata, lavoratori e con una certa cultura. Anche perché i nostri orari sono da ufficio: apriamo alle 7 e chiudiamo alle 8. ”

Il core business dello Jesi Caffè è proprio l caffè

“Sì, assolutamente. Non è possibile vendere uno specialty coffee a un euro. La caffetteria è il cuore della mia attività, ma da accompagnare all’offerta food. Altrimenti, matematicamente, non si riesce a ottenere un margine di guadagno. Bisogna pensare un po’ alla diversificazione. Questo perché ancora il prezzo medio della tazzina non permette diversamente. Spetta a noi delle caffetterie specialty, cercare di cambiare le cose.”

Che ne pensa di forme ibride di caffetterie e altre attività, come le librerie-bar?

“E’ un concept che è già stato sviluppato in altri settori. Per quello che so, non portano risultati diversi da quelli ottenuti da un bar in forma pura. Poi certo, esistono dei casi particolari che funzionano davvero bene, ma è un fenomeno legato ad altri fattori come la personalità del gestore. Ma non lo darei come un dato certo. E’ relativo a tanti altri aspetti esterni.”

Qual è invece il valore aggiunto di una caffetteria? Lo Jesi Caffè cos’ha di diverso?

L’innovazione, insieme al saper cogliere cosa sia meglio per il cliente. Sapersi immedesimare nel consumatore. La novità ovviamente bisogna saperla portare avanti, adeguandosi alle condizioni attuali per avere il giusto riconoscimento del cliente.”

Puntare su qualità e formazione: è un costo sostenibile che alla lunga premia?

“E’ obbligatorio. Fa parte delle basi di un’attività. Noi chiudiamo per formare il personale per delle ore. Tutto si ricollega al discorso di prima: il cliente si aspetta professionalità e competenza. Non è un costo per noi, è un must have.”

Uno dei costi indicati come più gravoso, è quello del personale

“Confermo. Questa è la condizione tipica del sistema italiano. Non funziona bene: finché assumere le persone significa pagare prezzi così alti, sarà un problema. Sono dei costi insostenibili per delle attività non agevolate dallo Stato. All’estero costa meno. Sarebbe bello se più della metà calcolata nello stipendio del personale, non andasse in tasse.

Le agevolazioni esistono, però dedicate tutte a delle forme contrattuali come quelle dell’apprendistato che però, non danno una prospettiva a chi lavora. Non sono una garanzia per i ragazzi.

Io ho un’attività giovane e il mio personale deve poter intravedere una strada davanti a loro. Un percorso di crescita verso una vita più stabile, che giustifichi lo stipendio più basso iniziale e lo sforzo formativa. Invece, con queste forme contrattuali, sono demotivati. Non hanno la possibilità di lavorare bene adesso.

Mi viene in mente un esempio paradossale. Allo Jesi Caffè di recente, è arrivata una ragazza che lavorava a chiamata, che voleva integrare degli immigrati nel nostro locale a nessun costo. Gli stipendi li avrebbe messi la Regione. Un provvedimento che non è disponibile però per chi è cittadino italiano, compresa la stessa ragazza che si occupava della promozione dell’iniziativa. A me è sembrato assurdo.”

Un altro argomento chiave è la comunicazione del proprio brand: lei ha pensato di investire su questo punto?

“E’ vero, la comunicazione online è imprescindibile oggi. Noi ce ne occupiamo, ma dovremmo fare molto di più. Si tratta di strategie molto efficienti soprattutto quando si pubblica in rete la quotidianità della tua azienda. Esprimendolo attraverso i social e la condivisione delle immagini.

Sono cosciente che, magari più avanti, si debba pensare ad appoggiarsi a qualche professionista. Anche se sono convinto che tutto debba partire dall’interno: le foto, arrivano dallo stesso personale. A maggior ragione i giovani sono perfetti.”

Per quanto riguarda invece la liberalizzazione delle licenze? Qual è la sua posizione?

“Credo che non sia ammissibile pensare un sistema che si regga sulle licenze. Oggi non c’è più alcuna garanzia, quindi il problema della liberalizzazione è solo un alibi. Io do il meglio di me quando mi trovo stimolato dalla concorrenza. Se non mi confronto con nessuno, comincio a sedermi sugli allori. Ma la sfida a livello mondiale è persa in partenza così.”

Che messaggio darebbe a chi vorrebbe esser un pioniere come lei?

“La risposta sta in quello che abbiamo già detto: formatevi prima e aprite poi. Formazione, formazione, formazione: dopo, quando siete pronti, buttatevi.

Quello che bisognerebbe evitare in assoluto è l’esser completamente sprovveduti sulle basi per fare impresa. Ovvero: l’aspetto fiscale e quello economico-finanziario. Non si può partire solo con un debito in banca: il rischio che si finisca nelle mani dei creditori è altissimo.

Siate poi autonomi. Non cadete nella trappola del comodato d’uso. Io sono libero: se qualcuno vuole aprire un’attività dev’esser coraggioso e fare da solo. Fare impresa vuol dire esser slegato da vincoli come il franchising. L’esser imprenditore è esser libero, con la tua attrezzatura.”

Ha in mente progetti futuri?

“Sì. Spostarmi di città e aprire un altro locale. La mia pazzia continua, ma sono convinto della mia scelta. Mi fa piacere far parte di un processo di crescita generale.

Io dico sempre: l’obiettivo è aprire a Seattle. Loro ci hanndo dato una bella lezione e noi la prendiamo. Però, arriverà il giorno che potremo ricordar loro che Howard Schultz è venuto a Milano per ideare Starbucks.”

Ma secondo lei, perché molti locali chiudono nell’arco di un anno?

“E’ difficile dirlo. Penso sia dovuto soprattutto alla mancanza di conoscenze manageriali. Una persona deve sapere fare l’imprenditore. Una professione che non può basarsi solo sull’intuizione, sulla passione. C’è tanta matematica dietro.

Io provengo da un’azienda di famiglia e sono socio in un’altra attività. Posso quindi dire che, conoscere il tessuto imprenditoriale è essenziale. La realtà è che, io amo l’imprenditore giovane, ma più sei giovane più potrai contare su conoscenze scolastiche. Che però non bastano. Questo in linea di massima, ovviamente.

Nelle caffetterie io ho un cassetto che contiene denaro liquido. Sono cose scontate, ma altrettanto sottovalutate: quei soldi, non sono tuoi. Bisogna esser lungimiranti e parsimoniosi. Se non si entra in quest’ottica, in una corretta gestione del denaro frutto di un business plan, il rischio di chiudere entro poco tempo è altissimo.

Tanti aprono un locale pensando che solo mettendosi dietro un bancone, porti al guadagno. La gestione del contante, lo studio da effettuare prima dell’apertura con l’aiuto di professionisti, è essenziale.

Siate modesti: non aspettatevi un guadagno immediato. Ci vogliono anni.”

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