mercoledì 10 Aprile 2024
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Un viaggio alle origini del chicco verde: il racconto della vita in Colombia

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MILANO – La filiera del caffè è un sistema complesso e piuttosto articolato che va dalle piantagioni sino alla tazzina. La strada è lunga. Infatti, si tratta di un vero e proprio viaggio da una parte all’altra del globo, che vede la trasformazione di una materia prima semplice come una ciliegia nella bevanda che ricarica ogni giorno, più volte, i consumatori di tutto il mondo. Ma se è vero che spesso e volentieri ciò che conosciamo meglio -pur non sapendone molto- è il risultato finale, è altrettanto chiaro come ignoriamo il processo dietro un espresso. Un percorso che nasce nei Paesi di produzione, spesso lontani sia geograficamente che culturalmente. La quotidianità in luoghi come la Colombia va esplorata a fondo. Magari proprio dal punto di vista di quelle comunità che vivono dalla raccolta dei chicchi. Osserviamo questo universo dal racconto di Rosalinda Maresca su viaggiareconlentezza.com.

Colombia: il chicco verde di San Augustín, Dipartimento di Huila

Il viaggio cominciava superando la frontiera tra Ecuador e Colombia. Avevo appena oltrepassato un confine e cambiato paese ma l’architettura delle case, del paesaggio, le strade; le persone ed il profumo del cibo fumante sulla strada erano gli stessi. Alla vista non cambiava nulla. Forse per il clima che continuava ad essere lo stesso, quello amazzonico tropicale umidiccio con piogge frequenti.

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E il bisogno costante di bere qualcosa di fresco per evitare che la lingua e il palato si appiccicassero l’un l’altro definitivamente. I platani avevano lo stesso sapore e la varietà di frutta continuava a variare. Tra mangos dolcissimi, papaya arancione splendente e banane gustosissime. La tradizione del tinto, il caffè comunemente chiamato dai locali, era l’unica certezza che avevo in quel momento di essere in territorio colombiano; precisamente a La Hormiga, cittadina colombiana a pochi chilometri dalla frontiera.

Confine

Il confine di uno stato spesso lascia immaginare una realtà differente dall’altro lato, spesso è solo una linea tracciata su una cartina geografica. Disegnata da qualcuno che probabilmente era all’oscuro del clima, delle culture e delle tradizioni locali legate a quelle terre.

Concretamente questa linea è presidiata, il più delle volte, da poliziotti o militari in un gabbiotto. I quali esigono la validità della propria identità attraverso vari pezzi di carta certificati dal proprio stato di appartenenza; un libretto di lascia passare o di impedimento di transito, dipende, dal paese in cui sei nato.

I confini naturali, invece, sono più concreti e visibili

Le persone che vivono un luogo sono il risultato del clima e della conformazione geografica del posto; dell’alimentazione che conducono e della condizione di vita culturale e sociale vigente. Salta subito all’occhio la differenza tra le popolazioni dell’Amazzonia e quelle delle Ande.

Le popolazioni andine si individuano subito dal loro vestiario

In montagna la necessità di coprirsi è essenziale specialmente considerando le altezze delle montagne che superano i 1000 metri. Non è solo il clima il fattore caratterizzante la cultura di questi posti ma anche la loro storia passata e recente. Costituita da lotte sociali e politiche che i nativi portano avanti nei confronti dello sradicamento della propria identità;

contro l’espropriazione dei territori ancestrali a favore dello sfruttamento delle risorse naturali e di una cultura più moderna, occidentale sostenuta dall’installazione di multinazionali straniere; queste hanno importato il turismo di massa. Che nel giro di pochi anni ha stravolto la cultura del posto: i villaggi ora sembrano piccoli souvenir chiusi in una sfera di vetro che, quando agitata, stilla tutto l’esotismo fantasticato a distanza di chilometri.

San Augustín

San Augustín si trova proprio in quella via di mezzo tra Amazzonia e Ande, proprio dove l’Amazzonia smette di essere per cedere spazio al paesaggio andino, alle prime montagne ed a un clima più fresco, più montagnoso, pungente e non più appiccicoso. Sulle Ande i polmoni hanno la possibilità di incanalare aria pura, si aprono completamente; respirano, all’inizio con un po’ di affanno per l’elevata altitudine.

San Augustín è un paesino di case bianche con tetti in legno, ben mantenuto a causa del flusso turistico dal nord America e dall’Europa. Le case assomigliano alle casette di montagne delle dolomiti nel Nord Italia. Bianche con assi di legno alla vista e finestre incorniciate da infissi di legno dipinte di verde scuro.

La cittadina è abbracciata da valli splendide e rigogliose di una vegetazione florida, una terra fertile motivo per cui molti giovani colombiani e stranieri hanno deciso di stabilirvisi e condurre una vita rurale a pochi chilometri da San Augustín. A contatto con la natura. Le realtà che si possono visitare sono diverse dal turismo responsabile a livello di autoproduzione, pertanto San Augustín è un grande esempio del ritorno dei giovani alla terra e alla semplicità della vita condotta in campagna.

Piantagione di caffè

La piantagione che però sovrasta più di tutte è quella del caffè: è proprio qui infatti il centro nevralgico della produzione di caffè colombiano che poi viene esportato in Europa. Nelle vicine campagne di San Augustín la maggior parte degli abitanti lo coltiva; camminando dal paese verso fuori, osservando il paesaggio, si impara subito a riconoscere le piantagioni di caffè.

Sono in massa, ricoprono montagne e distese enormi di ettari ed ettari. L’economia di San Augustín si sviluppa intorno a questo piccolo chicco. Che prima di essere chicco subisce un lungo e faticoso processo di trasformazione e lavorazione. La grandezza del frutto è quella di una ciliegia o di un’oliva e quando è maturo per essere raccolto deve diventare rosso.

Un turista di passaggio non si accorge dell’enorme ingranaggio industriale di produzione cafetera che si sviluppa intorno a questo centro

Le montagne sono ricoperte di una vegetazione color verde scuro, colore che sa riconoscere bene chi è abituato a lavorare nelle piantagioni. Il turista è spesso ignaro delle reali dinamiche del posto. Infatti, le proposte turistiche locali offrono passeggiate in natura a cavallo, in bicicletta e al sito archeologico di San Augustín, attività che lo ingannano circa la vera quotidianità del posto.

Voglio raccogliere chicchi!

Una sera vidi un gruppo di ragazzi nella piazza del paese: chi aveva appena finito di lavorare, chi doveva ancora incominciare; oppure chi viveva nelle campagne ed era venuto per fare una chiacchiera e una spesa in città e chi era di passaggio. In sosta, diretto verso altri posti.

Noemi, una ragazza colombiana, mi raccontò di un ragazzo che aveva lavorato nella raccolta di caffè per tirare su qualche soldo. Così ero venuta a conoscenza della possibilità di lavorare come stagionale. La mia amica, mi parlò di un contadino che aveva piantagioni di caffè e cercava persone da assumere.

Il giorno dopo già mi incamminavo verso casa di Noemi decisa a partecipare alla raccolta

La sua casa si trova a pochi minuti dal paese. Appena uscita dal centro urbano, vidi le montagne spuntare maestose; l’acqua in forma di cascatelle precipitava da piccole insenature nella roccia giù a strapiombo tra le vallate con un movimento a rilento; mi guardavo intorno con occhi sorpresi e pensavo come fosse meraviglioso ed energetico un paesaggio così naturale. Con così tanto verde alla vista e l’attività della natura che percepivo viva. Attraverso i volatili che sfrecciavano nel cielo, le cascate e tutti gli alberi e la natura regnante intorno.

Arrivata dal contadino, purtroppo scopro che non aveva bisogno di persone per la raccolta

Ma mi aveva consigliato di andare dall’altra parte del paese in un’altra vallata e provare lì. Adoravo il passaparola che le persone mettevano in atto tra loro, chi meglio di un contadino poteva consigliare dove raccogliere il caffè; spesso sembravano informazioni imprecise e non affidabili: Specialmente agli occhi di un occidentale abituato a ricevere indicazioni dettagliate ed esatte.

Ma poi ci si fa esperienza e si impara a interpretare meglio i messaggi delle persone: “Vedi quella casa rossa laggiù?. (una vallata immensa si estende davanti alla mia vista e un puntino rosso in lontananza spunta fuori). “Dopo quella casa, vai sempre dritto per 10 minuti; dopo una cascata, c’è una strada sulla destra che sale su e dopo 20 minuti di camminata chiedi di Santiago”.

Bastava conoscere una persona e da lì il lungo rotolo di passaparola iniziava il suo lento processo di srotolamento, lento ma preciso. Bussare in una finca e dire di essere stati mandati dal contadino Ernesto, quello che vive sulla calle verso Mocoa, era una carta vincente per essere accolti.

Alla ricerca di una finca

Camminando dal paesino ci volevano pochi minuti per raggiungere le prime fincas di caffè. Lungo una strada pavimentata si affacciavano le entrate di tutti gli appezzamenti di terra, fincas, B&B e case con distese di piantagioni. Era Agosto, il tempo della raccolta era incominciato a luglio. Ma il caffè si raccoglie a più riprese.

In più il clima, il tempo di semina, le malattie delle piante erano vari fattori da cui dipendeva la raccolta. Bussando alle porte delle fincas chiedevo di poter raccogliere il caffè. Ero curiosa riguardo al processo di trasformazione. In fondo è un prodotto con cui sono cresciuta e la voglia di sapere come si facesse non mi lasciava arrendere, in più era un modo per entrare a contatto con la gente del posto.

La strada era lunga, ma era l’unica che percorreva quel lato della montagna

Per cui era facile strappare qualche passaggio a macchine, trattori, gip che passavano per di là. Altro che sharing economy, condividere i mezzi di trasporto o chiedere un passaggio in Sudamerica non è di certo una cosa nuova. Dopo tante porte bussate e tanti sguardi straniti nel vedere una ragazza bianca cercare lavoro nella raccolta; dopo tanti “no grazie non abbiamo bisogno di nessuno”, finalmente una famigliola mi aveva calorosamente invitato a fermarmi da loro per raccogliere il caffè.

Solo in seguito capisco che erano molto più interessati alla mia cultura e ai miei racconti, dove fosse il mio paese. Se si trovasse lavoro, perché stessi viaggiando da sola. Perché volessi raccogliere caffè e così via. Erano sorpresi di vedere spesso ragazze viaggiare da sole ed erano curiosissimi del tipo di vita che si svolge in Europa: Chiedevano spesso se fosse uguale al loro.

Il processo di lavorazione

Alla fine di caffè ne ho raccolto poco, ma è stata una famiglia molto accogliente. Ho avuto la possibilità di vedere come si lavora il caffè e mi sono resa conto che la raccolta è… solo l’inizio. Dopo che il caffè viene raccolto, viene messo in grandi vasche e despulpado; ossia si rimuove la parte esterna e viene lasciato riposare in enormi vasche d’acqua, il grano fermenta e successivamente viene lavato per eliminare tutte le impurità. In seguito messo in un secador, per diminuire il grado di umidità del grano e assicurare una conservazione più duratura.

Il secador è una sorta di capannone fatto con assi di legno e una copertura di plastica. Dove il caffè despulpado, fermentado e lavado veniva delicatamente steso per terra, poi esposto al sole.

Mi sorprendeva il fatto di scoprire che il chicco di caffè in realtà è verde e non marrone

Colore che deriva dalla torrefazione, ovvero dall’esposizione del chicco ad una fonte di calore del grano che tostato emana il suo aroma delizioso di caffè. Ogni contadino della zona portava il suo caffè in sacchi in un laboratorio. Dove il grano veniva esposto ad esami per essere classificato. I prezzi erano differenti in base alla qualità del prodotto portato dal contadino e non tutto il caffè veniva poi esportato in Europa. Dove la richiesta di sapore è diversa da quella locale, meno raffinata.

Chiacchierando con Julio, il contadino dove alloggiavo

Mi raccontava che coltivare il caffè è un grande impegno e ciò che si riceve in cambio economicamente non ne vale la candela per tutta la fatica impiegata nella lavorazione, ma conviene più di qualsiasi altro prodotto. Prima di assistere alla lavorazione, il processo sembrava semplice e lineare. Ma spostare il caffè in grandi quantità è un grande lavoro di pazienza e fatica.

In più, bisogna sperare che durante la lavorazione non si rovini, che durante la maturazione del frutto le malattie non abbiano assaltato la pianta, molto delicata. E assicurarsi che nel secador si asciughi bene. Evitando che si rovini a causa dell’umidità. Inoltre le cerezas, i frutti, non maturano insieme, per questo la raccolta si svolge a più riprese durante vari mesi in cui si ritorna a raccogliere i frutti maturi.

Laboratorio

Nel laboratorio osservavo i chicchi essere selezionati uno per uno; quelli spezzati o rovinati venivano gettati o valutati al prezzo più basso. Per ogni contadino, il laboratorio rappresenta il verdetto finale del proprio lavoro. Includendo anche la manutenzione della pianta durante tutto l’anno. Inoltre, dopo aver seminato, la pianta ha bisogno di 3 o 4 anni prima di tirar fuori i suoi frutti. Un po’ come la vite in cui nei primi anni viene potata e aspetta di rafforzarsi per dare i suoi primi frutti.

Cambi climatici

Julio mi raccontava che in passato la zona cafetera colombiana si trovava più a nord nel triangolo Manizales, Armenia e Salento. Oggi zona estremamente turistica grazie al caffè che poi però è stato rimpiazzato dal mercato del turismo. Questi tre poli sono mete di turisti che da tutto il mondo vengono a visitare il famoso eje cafetero colombiano.

Dove viene prodotto il caffè esportato in tutto il mondo, in realtà i locali essendosi arricchiti attraverso il turismo. Attività meno faticosa fisicamente di quella agricola, hanno abbandonato la coltivazione di caffè. Ed hanno aperto numerosi hotel, ristoranti per turisti. Come diceva Julio, loro sì che guadagnano!

Gli effetti della monocoltura

Oramai avevo imparato a distinguere le piantagioni di caffè e mi ero accorta tristemente che tutta la meravigliosa vegetazione che circondava San Augustín era fatta di piantagioni di caffè. Di mercato quindi, di monocultura che uccide la biodiversità e di conseguenza causa l’impoverimento del suolo. Deprivandolo di sostanze nutrienti e rigeneranti, poiché si coltiva sempre la stessa coltura sullo stesso terreno.

In fondo i contadini cercano il proprio benessere e il mercato li ammalia con la domanda di caffè. Il quale disgraziatamente passa attraverso intermediari ed imprese, lasciando al contadino un misero guadagno.

Questa, come tante altre, assomiglia alla storia della monocoltura di vigne in Veneto

Nella Valpolicella, le quali, per farsi spazio, hanno scacciato prepotentemente i ciliegi; dominando il paesaggio a 360 gradi per favorire il mercato del vino Valpolicella Ripasso o dell’Amarone-Assomiglia anche alla storia dei contadini di caffè e cacao nell’Amazzonia ecuadoriana. I quali combattono per avere più diritti e auto-rappresentarsi nel dialogo con le imprese. Per la commercializzazione del proprio prodotto.

E che dire dei delle piantagioni di frutta nel Centro America. Le cosiddette Repubbliche delle Banane, gestite dalla multinazionale svizzera United Fruit Company. Ora conosciuta con il marchio Chiquita.

I contadini, vittime del sistema industriale complesso e vertiginoso, tollerano le richieste del mercato internazionale

Per inseguire disperatamente una sicurezza alimentare. Ma il problema sembrerebbe essere, a livello globale, la mancata coscienza nei confronti della terra. Violentata ogni giorno per produrre sempre di più e per soddisfare le nostre esigenze effimere, di produzione di massa, e di mercato. Ma questa è la solita, triste, storia.

 

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