martedì 08 Luglio 2025

Bar is the name: a Busto Arsizio, gli specialty vanno nella mixology alcolica e non

Ferraro: “Dopo 14 anni nella ristorazione, senza però aver mai avuto un’esperienza vera e propria all’interno di un bar, ho deciso di coltivare questa passione. Sono partito come autodidatta e proprio questo fatto mi ha dato la spinta a studiare tantissimo. Volevo capire bene il valore del caffè e di tutto quello che riguarda la caffetteria, come il tè e il cacao, messi a confronto con il vino."

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BUSTO ARSIZIO (Varese) – Abbiamo già visto all’opera il bartender Ambrogio Ferraro, giovane fondatore di Bar is the name a Busto Arsizio in Viale Giuseppe Borri, 29, in occasione della masterclass di fine dining e caffè organizzata da Café El Mundo. Il suo locale ha fatto della mixology il suo cavallo di battaglia, in una rivisitazione del classico modo di miscelare i cocktail.

Nulla si spreca in Bar is the name, e tutto è curatissimo, compresa la proposta di caffè, usato appunto come ingrediente per dare vita a ricette diverse dal solito.

Ferraro, com’è venuto a contatto con il mondo del caffè e perché ha deciso di investirci?

“Dopo 14 anni nella ristorazione, senza però aver mai avuto un’esperienza vera e propria all’interno di un bar, ho deciso di coltivare questa passione. Sono partito come autodidatta e proprio questo fatto mi ha dato la spinta a studiare tantissimo. Volevo capire bene il valore del caffè e di tutto quello che riguarda la caffetteria, come il tè e il cacao, messi a confronto con il vino.

Avviando Bar is the name ho voluto dar vita ad un cocktail bar in cui vengono serviti prodotti insoliti: per questo abbiamo inserito gli specialty coffee e non solo nella miscelazione.

Il locale apre dalle 17 all’una e nel weekend sino anche alle due, ma in inverno il set up della merenda va dalle cinque alle sette e quando ci viene ordinato il caffè, proponiamo il cold brew in tutte le stagioni o in alternativa un hot brew in V60 o moka – entrambi funzionano molto -. Ma la cosa davvero che mi interessava esplorare, era l’abbinamento con altri elementi. Si potrebbe dire che da noi lo specialty funziona perché il cliente non è obbligato ad acquistare un caffè americano, ma può ritrovare un ottimo caffè anche nei cocktails.”

Per quanto riguarda lo specialty cosa avete scelto?

“Ci affidiamo a Café El Mundo in base alla loro produzione settimanale, ma in generale chiediamo il chicco più fresco. Solitamente le origini sono Hondurars, Etiopia e Santos. Non abbiamo tante miscele perché risultano al gusto meno aromatiche.”

Dunque Ferraro, arriva la domanda delle domande: il caffè ha spazio nella mixology?

“Totalmente sì. Penso che il futuro della miscelazione si esprimerà proprio attraverso l’uso di queste materie prime e lo stiamo già osservando. Ancora di più lo constateremo nel breve periodo.

Basta pensare all’ultima novità dei dazi imposti dal Presidente Trump, sui distillati sia americani che nella vicina Sud America, a causa della quale l’importazione della tequila subirà un rincaro e questo poi avrà delle ricadute anche su di noi, tra un paio di anni. Anche il caffè sta conoscendo lo stesso aumento e per riuscire a mantenere un prezzo di base coerente per il consumatore finale, si dovrà imparare ad utilizzarlo in più modi, abbattendo così i costi.”

Qual è la maggiore difficoltà nell’usarlo nella miscelazione?

“La caffeina. Effettivamente è la principale preoccupazione al fine di vendita per i nostri clienti. Non è facile proporre un cocktail a mezzanotte che contenga il caffè e per questo motivo abbiamo scelto di usare anche opzioni decaffeinate. Lo spieghiamo sempre al cliente finale.

Abbiamo anche realizzato un nuovo menù a forma di mappamondo, dotato di una leggenda in cui viene indicato il tenore alcolico e nel caso del caffè, i livelli ipotetici di caffeina e teina. Nel cocktail che ho creato per esempio, Acero, con dentro Arabica dall’Etiopia, l’intensità è bassa per via di un’infusione base acqua con il chicco intero e non macinato. L’estrazione è più che altro aromatica.”

Tè o caffè nei cocktail, quale secondo lei funziona meglio?

“Direi il tè, perché è in generale è più delicato, al contrario del caffè che può risultare prepotente e in alcuni abbinamenti, come ad un fiore, ne coprirebbe il sapore. Ci sono dei casi in cui per abbassare l’aromaticità del caffè, utilizzo la tecnica del Milk washing: quindi si aggiunge una piccola dose di latte (noi scegliamo la bevanda a base di soia), si fa cagliare il liquido e in questo modo si eliminano i grassi e le particelle più aggressive del caffè. Quello che resta è soltanto un sentore, che poi è quello che vogliamo mantenere nella ricetta.”

L’Espresso Martini, grande classico, lei come lo aggiornerebbe?

“Ovviamente ogni bartender ha la sua cifra e le sue ricette. L’Espresso Martini è il classico cocktail che deve essere modificato al fine di ingentilirlo. La provincia è chiaramente diversa da Milano, che impazzisce per questo drink, mentre a mezzanotte in un posto come Busto Arsizio non viene ordinato: a questo punto ho dovuto inventare qualcosa di simile che potesse portarlo verso la stessa esperienza gustativa, depotenziandone però la carica caffeinica.

Utilizzo molto spume e sifoni per ricrearne la texture e la sensazione al palato. Di recente ho anche abbinato un Rooibos tostato, messo in infusione con bevanda a base di soia: così abbiamo ricreato questa parte un po’ affumicata dell’Espresso Martini, mentre la base alcolica resta la vodka neutra con caffè del Santos rimasto in infusione per tre ore. Questo abbinamento ci ha permesso di riproporre la ricetta con delle sfaccettature e intensità inferiori.

Esiste anche l’esempio dell’Irish coffee: in questo caso basta sostituire il doppio espresso super concentrato con un caffè americano più soft e un 100% Arabica. Ricordiamoci che siamo noi baristi, operatori, camerieri, che abbiamo il potere di agire, reinventare ed educare per cambiare i sistemi e renderli duraturi nel tempo.”

Ora un locale che si basa sulla mixology come il suo, come affronterà le nuove norme sul tasso alcolico e la guida?

“Penso che si stia diffondendo una generale informazione scorretta. Bisogna capire meglio cosa non si può fare: non si tratta di non bere del tutto. Bar is the name è già un bar riconosciuto per un’ottima offerta di analcolici. Un 50% degli ordini, il sabato sera derivava già da quello.

La provincia cavalcava da un po’ di tempo il trend del no-low alcool. Serviamo entrambe le varianti nella stessa maniera e bicchieri e oltre a questo, il tenore alcolico viene sempre indicato chiaramente, per informare ed educare i consumatori anche dal punto di vista della digestione. Il distillato è il top player per essere assorbito più facilmente ad esempio, quindi molto meglio del vino. Questo aiuta anche a comprendere una maggiore o minore presenza nel sangue dell’alcol: il nostro organismo smaltisce più semplicemente certe molecole rispetto ad altre.”

Bevande vegetali: altro punto particolare di Bar is the name, dato che per sua confessione, lei è intollerante al lattosio e nel suo locale si usano solo le alternative. Questo quanto incide sulla preparazione dei drink e sul loro costo finale?

“Sì, hanno un costo maggiore, ma basta saperle dosare nella maniera più efficiente per rientrare dalla differenza. Anche in questo caso penso che non siano gli 80 centesimi sul litro a incidere su un drink cost ben studiato. Si tratta sempre di non sprecare. A seconda della stagione prediligiamo un’opzione rispetto all’altra: d’inverno la nocciola e la mandorla, d’autunno l’avena, tutto l’anno proponiamo la soia, che ci piace molto a livello di caratteristiche sensoriali e aromatiche.”

E a proposito di costo: Ferraro ha affermato che non concepisce un cocktail che superi i 10 euro. Ci può far capire perché e soprattutto come rientrare in questa cifra restando economicamente sostenibili?

“Basta conoscere la materia prima che si utilizza per tirarne fuori tutte le sue potenzialità. Pensando a un ristorante che sceglie un tonno che costa 150 euro ad esempio, ne si utilizza ogni aspetto, senza minimi scarti. È così che si creano più piatti e più introiti. Stesso discorso vale per i cocktail: tutti gli ingredienti vanno usati e poi riutilizzati.

L’old fashioned alla banana che abbiamo servito per un periodo, veniva realizzato soltanto con la buccia, mentre la polpa diventava un’addensante per un’altra ricetta. Adottando queste piccole pratiche, sono gradualmente entrato nel mondo dell’economia circolare e da lì abbiamo pensato come sfruttare tutto.

Grazie al caffè ad esempio ho eliminato la spesa dell’anti zanzare: infatti impieghiamo i fondi di caffè, derivati da qualsiasi chicco di caffè utilizzato per infusione o macerazione di un cocktail, di un’estrazione in hot o cold brew, per gli incensi. Sembrerà banale, ma sono sessanta euro mensili risparmiati e anche qualcosa di più. Inoltre si possono creare delle essenze di caffè per infusione idroalcolica che poi si possono spruzzare con dei nebulizzatori. Stessa cosa con la menta.”

Il miglior cocktail riuscito secondo te con il caffè? Ed è alcolico o analcolico?

“Acero per me rappresenta il top di tutti quelli creati a base caffè fin qui. Un bellissimo connubio che costa 10 euro. Sicuramente il caffè si esprime meglio nell’analcolico, questo perché la molecola dell’alcol incrementa in generale gli aromi e il caffè non ne ha bisogno, ne ha già uno molto spiccato in autonomia.”

Ferraro, lei ora ha pensato ad un angolo di degustazione tra più diverse materie prime

“E’ partita proprio ora una stanza che si chiama Speak Loud, proprio il contrario dello Speak Easy. È una che non è segreta: il primo capitolo e degustazione è dedicato ai 4 elementi, caffè tè tabacco e cacao.

Spieghiamo i trend, discutiamo dei costi, rendiamo consapevoli i nostri clienti di cosa sta succedendo nel mondo e facciamo divulgazione sui giusti prezzi da pagare. I 5 cocktail: un welcome drink con il Pu’Er, poi l’abbinamento tè e cacao, cacao e tabacco, tabacco e caffè, concludendo con caffè e tè. Su 5 ricette, tre sono analcoliche.”

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