giovedì 11 Aprile 2024
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Mafia: «Il caffè non lo devi fare» e la macchina diventa sempre guasta

Messina, commercianti sotto la cappa del clan mafioso: nel quartiere di Santa Lucia sopra contesse il gruppo guidato da Raimondo Messina avrebbe imposto agli esercenti cosa vendere e chi assumere. Dalla pasticceria che per paura non fa più caffè al rivenditore di carne che si tira indietro per timore dei suoi concorrenti

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MILANO – Ben poco da dire su questo pezzo sulla mafia di Simona Arena e apparso sul bel portale www.meridionenews.it se non che andava proposto ai nostri lettori. Perché situazioni del genere sono esportate da anni in tutta Italia. Soprattutto al Nord. Da tenere a mente, sempre. Perché quello dei pubblci esercizi è un settore esposto.

MESSINA – «Un serio problema da risolvere». La vendita di caffè della pasticceria vicino al bar Veliero, base logistica del clan di Santa Lucia sopra Contesse, doveva essere risolto perché toglieva clienti all’attività legata al gruppo criminale che faceva capo al boss Giacomo Spartà, nonostante lo stesso sia in carcere dal 2003. E così è stato.

C’è anche questo nelle cento pagine dell’ordinanza di custodia cautelare siglata dal gip Maria Militelllo che cristallizza quattro anni di indagini condotte dai carabinieri e sfociate ieri nell’operazione Polena, che si è conclusa con l’arresto di otto persone.

La minaccia di Raimondo Messina

«Caffè non ne devi fare!», è la frase che Raimondo Messina, al vertice del clan secondo gli investigatori, rivolge al titolare della pasticceria mettendogli la mano sopra la spalla.

La conversazione viene ripresa dalle telecamere dei carabinieri il 17 aprile. Il 29 dello stesso mese i militari del comando provinciale entrano nella pasticceria e chiedono un caffè. Viene loro risposto che la macchinetta è guasta. I carabinieri tornano a distanza di giorni, ma la macchinetta è sempre guasta. L’intimidazione ha avuto l’effetto sperato.

A Santa Lucia sopra Contesse il controllo del territorio è asfissiante. Tra le persone vittime di estorsione c’è anche un imprenditore che opera nel settore della vendita di alimenti e non, proprietario e amministratore unico di diverse attività commerciali. Vittima di estorsione da parte dei soggetti appartenenti al gruppo di Raimondo Messina, ai quali chiedeva protezione, come già è emerso nel procedimento Matassa.

Tra i dipendenti infatti figurano sia Alfio Russo detto Massimo dal 2012 al 2015 – arrestato nell’ambito dell’operazione Segugio – sia il figlio Giovanni Russo, dal 2013 al 2015, entrambi addetti al reparto di macelleria. I rapporti tra l’imprenditore e Russo sono ampiamente delineati nei due verbali di interrogatorio in cui il professionista racconta dei contrasti con Russo, amico intimo di Antonio Cambria Scimone (pure lui arrestato ieri) e di Raimondo Messina.

Il caso della macelleria

Russo, infatti, da dipendente decide di mettersi in proprio e di aprire una macelleria proprio di fronte a una delle attività commerciali dell’imprenditore presso cui prima prestava lavoro. Ma, come per il caffè della pasticceria vicina al bar Veliero, anche in questo caso la concorrenza si deve eliminare alla base. Russo si rivolge quindi a Raimondo Messina per imporre lo stop alla vendita della carne. E così avviene. L’imprenditore racconta ai carabinieri «di aver desistito dal fornire la merce e dal fare concorrenza a Russo per il timore che gli incuteva la presenza del Messina di cui conosceva lo spessore criminale. Se non me lo avesse chiesto lui – precisa – non lo avrei fatto».

E c’è anche il prestito di denaro a tassi usurari

Alle attività del gruppo si aggiunge anche quella dei prestiti di denaro a tassi usurai, come dimostra la vicenda che vede vittima la titolare di una gioielleria messinese. La donna, in difficoltà economiche con le banche, decide di accettare le condizioni che proposte da Giuseppe Cambria (arrestato ieri).

Come si legge nell’ordinanza la gioielliera, che dopo un’inziale ritrosia racconta tutto ai carabinieri, afferma che lo stesso Cambria le mostra un foglietto con indicate somme e interessi da restituire. «A fronte di un capitale di quattromila euro – racconta ai carabinieri – pretendeva la restituzione, entro un mese di 5.500 euro.

Per un capitale di cinquemila euro pretendeva la restituzione, sempre entro un mese, di ottomila euro. A fronte di ottomila euro pretendeva lo restituzione, entro un mese, di 12mila euro. Da 10mila euro si saliva a 15mila». La spirale dell’usura porta la donna a pensare anche di suicidarsi. Solo per un caso fortuito desiste dal gesto e decide di rivolgersi ai carabinieri.

Simona Arena

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