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Starbucks a Milano: «Quelle code che ricordano la dittatura perfetta di Huxley»

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MILANO — Il format Starbucks – non necessariamente quello del flagship milanese – continua a tenere banco nei commenti di editorialisti, analisti e blogger. E il dibattito sconfina in ambiti estranei alla caffetteria evocando categorie proprie della sociologia e dell’economia politica.

Starbucks insomma come simbolo della globalizzazione e dell’omologazione consumistica dei gusti.

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Ed emblema di un modello culturale ed economico drasticamente iniquo, di un pensiero economico totalitario, che precarizza il lavoro e annichilisce l’individualità della persona.

Parole grosse per quella che è pur sempre una semplice catena di caffetterie, che il consumatore è libero di frequentare o meno. E di cui sarà il consumatore stesso a decretare il successo o l’insuccesso.

Una proposta di analisi

Risulta sempre utile – comunque – leggere e analizzare riflessioni e punti di vista, per trarne eventuali spunti interessanti.

Ed è quanto vi suggeriamo di fare anche con questa analisi di Filippo Klement apparsa su elzeviro.eu, che vi proponiamo di seguito.

L’approdo della catena di Seattle nel nostro paese rappresenta il culmine del processo di imposizione di un differente modello gastronomico, ma soprattutto economico.

Potremmo disquisire per ore sull’evidente superiorità aromatica e sensoriale di un espresso, o di un macchiato in tazza piccola, servito in un tradizionale bar italiano, rispetto ad un beverone di plastica annacquato, dal gusto sbiadito e con una percentuale di caffè pressoché irrisoria.

Potremmo dissertare da qui fino al tramonto, perorando il culto della colazione al bancone con un cornetto appena sfornato (e la Gazzetta sotto tiro), o del pranzo a base di panini freschi e artigianali. E potremmo pontificare senza sosta, rifiutando categoricamente la logica da salotto del ristoro in una sorgente di Wi-Fi, con un’offerta alimentare omologata e di stampo industriale.

Sì, potremmo farlo, ma rimarremmo a gravitare inevitabilmente nel limbo del relativismo e della individualità. Per quanto il mercato, i media e persino la politica tentino di orientare ed ingabbiare le nostre preferenze e i nostri gusti infatti, si tratta pur sempre di tempo libero; un concetto originariamente sacro in ogni società preindustriale, e che nell’era del “produci, consuma, crepa” ha clamorosamente perso importanza e peso specifico all’interno delle nostre giornate. Un concetto che bisogna essere liberi di interpretare come si preferisce, indipendentemente dal giudizio deplorevole altrui, per salvaguardare quell’ultimo barlume di soggettività che ci è ancora concesso.

Una contaminazione gastronomica, ma soprattutto economica

L’aspetto allarmante dell’approdo di Starbucks in Italia (per ora limitato a Milano, capitale finanziaria del paese) riguarda perciò, non tanto la contaminazione culturale analizzata dal punto di vista gastronomico, quanto piuttosto nel suo ruolo strumentale ed economico: quello che concerne il raggiungimento di un liberismo sempre più soffocante, nonché di un ulteriore squilibrio nella distribuzione delle ricchezze e nei rapporti di forza.

Ed ancora più inquietante, se possibile, è il consenso popolare di cui la catena di Seattle gode all’interno del nostro paese. L’accoglienza riservata al colosso a stelle e strisce nel giorno del suo battesimo italiano, tra manifestazioni di giubilo e code chilometriche (iniziate in alcuni casi alle 4:30 di mattina), conferma come questo triste processo di indottrinamento funzionale sia ormai giunto a termine.

Negli ultimi 30 anni le istituzioni e la politica, piegandosi in maniera supina e sempre più silenziosa alle leggi di un certo tipo di mercato, hanno permesso ad una determinata vulgata di diventare dominante e priva di ogni sorta di contraddittorio. In modo da condurre il popolo ad accettare in modo passivo un modello culturale ed economico drasticamente iniquo (e che storicamente non ci appartiene). E anche, in alcuni casi, addirittura a desiderarlo.

PMI ed accentramento delle ricchezze

Il modello protagonista di questo contagio, porta ad un accentramento della produzione nelle mani delle grandi multinazionali -come Starbucks–. Ed annienta la possibile concorrenza. Una dottrina macroeconomica che volta completamente le spalle alla nostra tradizione. Che è fondata sull’eccellenza e sulla valorizzazione e delle piccole e medie imprese. Le quali, non possedendo i mezzi necessari per competere a certi livelli, devono ridimensionare le proprie pretese ed il proprio ruolo sul mercato.

Si tratta dello stesso processo che ha costretto molti rivenditori al dettaglio, un tempo parte della spina dorsale di questo paese, ad emigrare nei centri commerciali pur di tutelare la propria sopravvivenza, dovendo, di fatto, trasformarsi in poco più che semplici dipendenti.

Come si può notare, al summenzionato accentramento della produzione, corrisponde un consequenziale accentramento della ricchezza. E’ il naturale approdo verso il quale conduce il capitalismo più selvaggio ed indisciplinato. Facendo esso leva su una concorrenza aperta a tutti, ma incredibilmente falsata. Un terreno in cui si incita alla competitività, in cui valgono le stesse regole del gioco per tutti gli attori protagonisti. Ma in cui alcuni di essi possiedono i mezzi per soverchiare i rivali sin dai blocchi di partenza.

D’altronde negli Stati Uniti, orgogliosa patria dei pionieri di questo modello, la concentrazione delle risorse nelle mani dell’1% della popolazione ha quasi raggiunto la sbalorditiva soglia del 39%. A un livello di iniquità e squilibrio che non era riuscita ad avvicinare nemmeno la Francia prerivoluzionaria. Dove il 35% dei terreni (unità di misura della ricchezza dell’epoca) era detenuto appena -si fa per dire- dal 3% dei consociati. Alla faccia dell’oligarchia russa.

La complicità di uno stato acquiescente

Vediamo le parole del Professor Carlo Galli in una recente intervista rilasciala all’Huffington Post. “Il capitalismo, lasciato a se stesso, tende a distruggere la società. Compito della politica è costringerlo ad adattarsi alle esigenze della democrazia. Regolandolo, mettendo dei limiti, tutelando gli interessi dei suoi cittadini, lasciando che il conflitto sociale si manifesti”.

Purtroppo però, sebbene nel paradosso della nostra epoca alcuni stati siano più deboli delle grandi multinazionali. Spesso” prosegue Galli “nemmeno provano a scontrarsi con questi colossi. Cedono preventivamente. Anche se non è detto che siano sempre destinati a perdere il duello”.

E’ esattamente ciò che è accaduto in Italia. I nostri governanti si sono scansati, favorendo la formazione di un pensiero economico totalitario, che oggi non ammette repliche o alternative.

Un processo di erudizione, al termine del quale i giovani forgiati in questo humus bramano con veemenza -e con scoraggiante inconsapevolezza- i simboli di una società che li vuole sempre più precari e sempre più poveri.

In un certo senso, si può affermare che la spasmodica attesa notturna di fronte al nuovo e scintillante Starbucks meneghino, rappresenti in maniera drammaticamente fedele la profezia di Huxley sulle future generazioni: quelle che in una dittatura perfetta e senza lacrime, avrebbero amato la loro condizione di servi. E perché no, anche un caffè francamente imbevibile.

Filippo Klement

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