mercoledì 10 Aprile 2024
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REPORT – Adesso sappiamo come non rovinarci uno dei pochi piaceri che ci è rimasto: a Napoli, come in ogni altra città o paese

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Vincenzo Cito è un giornalista, napoletano, del quotidiano nazionale tra i più venduti e il più diffuso nei bar italiani: La Gazzetta dello Sport. Coincidenza non casuale La Gazzetta anche è il quotidiano più letto in Italia con quasi 4 milioni di lettori ogni giorno. A Cito, proprio per questa sua triplice veste, abbiamo chiesto di analizzare la trasmissione di lunedì sera.

di Vincenzo Cito*

 

Napoli, in questi giorni, si sente sotto attacco. Giuseppe Marotta, direttore generale della Juventus, l’accusa di provincialismo per aver salutato con eccessivo entusiasmo la vittoria sui bianconeri.

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Poi un servizio del TgUno, in margine al match tennistico Italia-Inghilterra di coppa Davis, sottolinea – non senza ricorrere a ormai logori luoghi comuni – le carenze di una città che forse farebbe bene a risolvere prima altri problemi.

Infine, l’assalto all’ultimo mito, quello del caffè. Nell’inchiesta di Report, trasmessa lunedì scorso su RaiTre, l’assaggiatore di professione Andrej Godina entra al Gambrinus, storico bar cittadino frequentato persino dal presidente della Repubblica, assaggia un espresso e lo stronca.

«Merita un 3. Un 3 meno». Apriti cielo: sul web – ancor prima a dire il vero, che il programma andasse in onda – si scatena il putiferio con polemiche, querele, richieste di danni. Tutto, ma non toccateci la tazzulella. Anche se non sono pochi i cittadini intervistati ad ammettere che il caffè preferiscono farselo in casa, piuttosto che bere quello degli esercizi pubblici.

Etichettare la bella inchiesta di «Report» come una guerra fra campanili è però riduttivo. Offende un lavoro di grande approfondimento, che rimette in discussione tante nostre certezze, e ci riguarda un po’ tutti.

L’assaggiatore Godjna non si limita a bocciare il caffè dei bar napoletani, visita locali di altre città e dispensa ulteriori insufficienze. Non si salva nessuno, neppure a Roma o Firenze.

Il problema è più complesso e va dalla scarsa qualità della materia prima importata alla professionalità di bar e baristi, dalle strategie delle torrefazioni – che con i bar preferiscono puntare sui servizi accessori e non sulla qualità del caffè, sino a trasformarsi addirittura in finanziarie – al rispetto delle più elementari norme igieniche.

E’ il solito vecchio problema nazionale, il distacco fra il legale e il reale, conosciamo le regole, spesso le insegnamo, poi noi stessi non le applichiamo.

Imbarazzante la dimostrazione effettuata dal responsabile Lazio dell’Associazione italiana baristi. Nello spiegare come va fatto un caffè non rispetta nessuna delle regole che insegna.

Non effettua il «purge» (l’acqua va fatta scorrere un’attimo prima di mettere il braccetto, altrimenti il caffè viene fatto con quella che ha pulito i fondi precedenti), non pulisce il filtro col pennello, pressa la miscela dal basso all’alto (e invece va fatto il contrario). La campana del macinino andrebbe poi pulita costantemente e non lo fa nessuno, il macinato non va tenuto a contatto con l’aria ma in frigo per conservarne più a lungo l’aroma.

Non sono regole formali, toccano anche la nostra salute.

Un medico infatti spiega che i residui di caffè ad alte temperature possono liberare sostanze cancerogene Il problema della qualità del caffè tocca poi le strategie delle grandi torrefazioni: troppo spesso la materia prima si compra quando il prezzo è basso e non quando serve, si preferisce la qualità «robusta» che costa meno di quella «arabica» e proviene da Vietnam (con aromi legnosi) e Africa (con aromi di terra) per non parlare dell’abuso di capsule in plastica inquinanti.

Insomma, non basta professarsi la città o il Paese del caffè: se proprio ci teniamo, cominciamo noi per primi a controllare quanto ci viene messo in tazza.

Per non rovinarci uno dei pochi piaceri che ci è rimasto. A Napoli, come in ogni altra città o paese.

*giornalista de La Gazzetta dello Sport

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