mercoledì 10 Aprile 2024
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Chicco amaro, la tazzina di Salgado

Negli scatti del grande fotografo il caffè prima del bar.Il libro e le fotografie e il testo di Sepùlveda sono tratti da "Profumo di sogno" di Sebastião Salgado (Contrasto, 320 pagine 59 euro). Il reportage è stato realizzato in dodici anni in dieci Paesi, dal Brasile alla Tanzania. Una selezione delle fotografie è in mostra all'Expo di Milano e a Venezia alla Fondazione Bevilacqua La Masa in collaborazione con illy.

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Demus Lab - Analisi, R&S, consulenza e formazione sul caffè

di Riccardo Staglianò*
Stava per cadere il Muro quando la catena rilevata da Howard Shultz convinse gli americani a spendere un dollaro e sessanta per la droga di elezione servita in ogni deli a poco meno di un terzo di quella cifra. Di fronte al miracolo gli analisti parlarono di “seconda ondata” nel consumo nazionale di caffeina.

Ora siamo nel mezzo della “terza”. Dominata da Blue Bottle, Stumptown, Intelligentsia e Counter Culture.

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Caffetterie che guardano agli ubiqui negozi con la sirenetta con lo stessa sufficienza che Prada potrebbe riservare a Zara.

Quattro-sette dollari a tazzina è “il nuovo nero”, l’ultima moda. E i bene informati hanno già avvistato avanguardie della nouvelle vague fatta di locali piccoli e esclusivi.

Le ère del caffè si avvicendano alla velocità di quelle del software. Le similitudini non finiscono qui. Chiedete ai venture capitalist.

L’anno scorso Google Ventures, Morgan Stanley e altri investitori hanno raccolto 26 milioni di dollari per Blue Bottle. E quando, mesi fa, l’azienda ha aperto il suo bar a Tokyo c’era gente in fila da tre ore, come se nelle tazze dispensassero iWatch.

Quando ti parlano della gentrificazione che, innescata dai traslochi dalla Silicon Valley, sta cambiando i connotati a San Francisco, il primo sintomo è quasi sempre la moltiplicazione dei caffè fighetti.

L’America è una repubblica fondata sull’arabica (qui finiscono un terzo dei chicchi del mondo e vengono scolate undici miliardi di tazze all’anno). Parliamo di un mercato da trenta miliardi di dollari.

Che distributori come il newyorchese Joyride vogliono ridisegnare, rieducando i palati delle aziende che riforniscono. Immaginate un enorme sforzo di marketing per sostituire l’ordinaria sbobba della macchinetta con un Salvadorian Geisha da cento dollari a libbra.

È come se le mense aziendali volessero rimpiazzare il Castellino con il Sassicaia. Difficile, ma non impossibile.

È già successo con la cioccolata (uno per tutti, i Mast Brothers di Brooklyn con barrette da minimo 8 dollari), con i succhi e con lo yogurt (quello greco è passato in sette anni dall’uno al 40 per cento del mercato Usa). Basta raccontarla molto bene.

Una spruzzata di epica. Una di solidarismo (i chicchi pagati il giusto aiutano remote fincas sudamericane). Una di perfezione filologica, testimoniata dall’ossessione per i single origin , i caffè che arrivano da una fattoria specifica, a un’altitudine specifica, raccolti in un momento specifico. La distinzione, per dirla con categorie care a Bourdieu, passerà anche da chi si accontenta di miscele generiche e chi no.

La liturgia della preparazione, con gli alambicchi di vetro Chemex che sgocciolano lentamente esaltando l’aroma, fa più tè che caffè. E agli occhi di un italiano fa anche un po’ ridere.

Ma se chiedi il doppio o il triplo di Starbucks devi fornire un’esperienza più ricca. Reinventare, almeno simbolicamente, la bevanda. Se lì hanno 55mila varianti (le avrebbero contate), da Blue Bottle ce n’è essenzialmente una, in una tazzina di ceramica, senza neanche il wifi gratis.

Siamo agli antipodi. Dichiara a Fast Company l’investitore Kevin Rose: «Una volta che provi questi caffè, non c’è modo di tornare indietro».

È uno dei tanti (ricchi) convertiti alla chiesa della Terza ondata. Aromi così buoni, giurano i caffeinomani rinati, che non c’è bisogno di latte e zucchero a camuffare la scarsa qualità dei beveroni standard.

Ora si può bere in purezza. Se qui hanno perfezionato lo storytelling per giustificare il salto di qualità, l’impazzimento non è solo statunitense.

In Colombia, terzo produttore dopo Brasile e Vietnam, si organizzano coffee-tour per turisti scarrozzati per fattorie come nella Napa Valley si è fatto per il vino e l’olio. Il catador , sommelier di caffè, è uno sbocco professionale.

Mentre saccopelisti neozelandesi vanno a fare la raccolta sulla Cordigliera come una volta la vendemmia in Francia. Se esperienza dev’essere, che sia totale.

Magari con la drammatica iconografia dei raccoglitori dalle mani nodose immortalati da Salgado.

Intanto, incurante di tutto, la natura fa il suo corso. L’anno scorso il prezzo del caffè è cresciuto più di tutte le materie prime (49 per cento) sull’anno precedente, con un andamento inversamente proporzionale a quello del petrolio.

C’entrava una protratta siccità in Brasile, e funghi che hanno infestato le varietà più pregiate. Gli analisti hanno tranquillizzato: sotto il 30 per cento di rincaro non ci saranno conseguenze sui consumi.

Anni fa, nella casa tra le nevi del Wisconsin di Giulio Tononi, il geniale scienziato che lavora sulla formula matematica della coscienza, fui sorpreso da una macchina da caffè professionale, totem incontrastato nella cucina, che costava come due salari da operaio.

Anticipava lo spirito del tempo. Intercettava, se non l’anima individuale, almeno quella del mondo.

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