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MILANO – Il post sull’account Instagram di Francesco Sanapo ha stimolato la riflessione attorno alla tradizione tutta italiana del caffè al banco: da mantenere in vita, sì o no? Quanto conviene al barista continuare con questa abitudine, soprattutto nel caso delle caffetterie specialty dove l’espresso al volo spesso diventa una barriera di comunicazione importante dello stesso prodotto e qualità della materia prima?
La discussione continua su queste pagine insieme a uno dei fondatori di Hygge, Matteo Salcito insieme a suo fratello Donato, a Milano una dei primi coffee shop specialty, aperto nel 2017, in un momento in cui si era ancora agli inizi di questo filone.
Hygge dal 2017 ha scelto di non servire il caffè al banco: come mai?
“All’inizio è stata un’operazione che non è stata ben compresa dai clienti. Tuttavia abbiamo pensato che trattando di specialty, la caffetteria dovesse essere curata anche nel servizio, che necessitava però di spazio e di tempo per comprendere adeguatamente la bevanda che avremmo proposto. Non volevamo far vivere il caffè come qualcosa di rapido, immediato, preso di fretta. Stare in piedi di fronte al barista fa creare la fila, fa andare via subito il consumatore. È un retaggio culturale che spesso rischia di mettere in ombra l’importanza dell’espresso.
Abbiamo quindi da subito scelto di escludere il caffè al banco.

Un altro motivo prioritario di questa strategia è quella di lasciare concentrato il barista nelle sue operazioni: la creazione di fila al banco determinano condizioni non ideali per il professionista che deve saper gestire il batch brew, l’espresso, diverse tipologie di ordini allo stesso tempo, per i quali è necessaria la massima attenzione. Il disordine, la calca, opprime completamente il lavoro del barista.
Da qui l’idea di livellare il servizio di caffetteria a tutte le altre comande da ristorazione.”
La caffetteria è un servizio di ristorazione a tutti gli effetti
“Dietro al caffè c’è un mondo come quello del vino: c’è ricerca, ci sono persone che selezionano la materia prima, la lavorano. Ci sono tipologie di chicchi che hanno una qualità incredibile. Superiamo l’altro luogo comune del prezzo fermo a un euro: se il servizio al banco è percepito come un po’ più cheap, anche il cliente sarà il primo a pensare di dare minor valore all’espresso. Invece recandosi al tavolo, l’operatore ha l’occasione di servirlo con un racconto, un approccio e una condizione psicologica più incentivante.”
Com’è andata?
“I primi due anni molti entravano e ci guardavano male. Ma è normale: chi da sempre è abituato a consumare in queste modalità, per forza si aspetta di trovarlo in caffetteria. Abbiamo sicuramente perso una bella fetta di clientela della zona e la possibilità di accogliere alcuni di loro che si sarebbero anche fermati a mangiare. Ma ripensandoci: il caffè necessita di 30-40 secondi per uscire, la barriera è per lo più psicologica.
Per arrivare a selezionare la nostra clientela ci abbiamo messo un po’ di tempo ed è stata una fase per noi delicata. Dal terzo anno in poi le cose si sono stabilizzate, le persone hanno iniziato a capire. C’è sempre qualcuno che deve iniziare a farlo, per azionare il circolo virtuoso.
L’incentivo parte da qualcuno e ora ho notato che il nostro vicino, Onest, spinge sul caffè servito al tavolo. Tra i locali che hanno una profilazione specialty, si sta consolidando gradualmente questa modalità alternativa.”
Ma la tradizione?
“Non credo che sia minata. Tradizione non vuol dire fare le cose come si è sempre fatto, ma significa rispettare la storia e renderla contemporanea. Il caffè in Italia nella maggioranza dei bar, si beve e prepara, male. Manca la ricerca dietro, ci siamo fregiati del nostro primato e ora questa cosa va ripensata.
La tradizione cambia, c’è sempre uno storico precedente che produce degli effetti consequenziali. Dobbiamo noi, senza arroganza, di apportare un nuovo concetto di tradizione, nel rispetto del caffè. E questo significa dedicare lo stesso tempo sia al caffè al banco che a quello servito al tavolo, creando anche connessione e empatia tra professionista e cliente. Si cambia insieme alle nuove generazioni, senza essere troppo nostalgici”.
E sulla differenza di prezzo tra il banco e il tavolo?

“Anche in questo caso tutto deriva da un tratto culturale. Ma il caffè al banco non costa poco perché si beve di fretta, ma in quanto è estratto male o è di materia prima scadente. Andando da Onest si paga la stessa cifra al tavolo e al banco per esempio, perché si paga la qualità di servizio e del caffè stesso.
Il prezzo non deve dipendere dalle tempistiche del cliente, ma dalla ricerca svolta dagli operatori. Il caffè al banco è sempre stato inoltre sinonimo di grandi consumi e invece sarebbe meglio berne meno ma migliori, e così la stessa bevanda acquisisce un significato differente.”