venerdì 12 Aprile 2024
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Tesi di laurea: la tradizione del caffè a Trieste e le grandi famiglie Settima parte 4, la famiglia Hesse, l’intervista ad Alberto Hesse

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MILANO – Questa rubrica di Comunicaffè è aperta a tutti i lettori che possono coinvolgere collaboratori o parenti con i loro testi: la pubblicazione delle sintesi delle tesi di laurea con argomento caffè. Attendiamo le vostre segnalazioni.

Parla Alberto Hesse

Quando e da dove parte l’attività della famiglia Hesse?

La storia della mia famiglia inizia con l’arrivo di mio nonno Francesco Hesse, direttore di banca, nel 1887, dal Banato, regione tra Ungheria e Romania.

Nell’1887 nasce mio padre, Alberto Hesse. Tra i vari figli egli sarà quello che otterrà maggior successo, “inventandosi” broker di caffé in tempi in cui a Trieste, e nel territorio circostante, c’era ancora un traffico del prodotto abbastanza limitato.

L’attività della ditta Hesse, (fondata nel 1910 da Alberto Hesse, alle anagrafe Analberto) è stata sempre il brokeraggio, l’attività cioè di mediazione.

Le torrefazioni all’epoca erano pochissime e la più importante era la Hausbrandt. I crudisti a Trieste erano: Kugy (padrino di cresima di Alberto Hesse), Castelli, Kern, Arnstein. Di brocker ce n’erano pochi.

Mio padre Alberto ha iniziato l’attività per poi interromperla e partecipare alla Prima Guerra mondiale, tornando come capitano dell’Esercito, nella divisione sabotatori. Dopo la prima guerra mondiale, Trieste con il trattato di Versailles è divenuta italiana.

Il caffé che era sempre stato appannaggio delle famiglie di origine tedesca o ebraica, dopo la prima guerra mondiale è divenuto di importanza sempre maggiore per nuove famiglie italiane a danno delle vecchie famiglie facenti parte dell’Impero Austro – Ungarico.

La mia famiglia non ebbe problemi, mio padre non volle né dovette mai cambiare il cognome.

Posso tranquillamente affermare che né mio padre né la mia famiglia subirono mai alcuna persecuzione o costrizione, neanche dopo l’affermazione su larga scala del regime fascista. Mio padre svolse dopo la prima guerra mondiale un incarico per conto di alcuni vecchi commercianti triestini che gli chiesero di salvare in qualche modo i loro patrimoni.

La fine della Prima Guerra mondiale infatti creò una forte depressione economica in città e molte ditte furono costrette alla chiusura. Mio padre si recò negli Stati Uniti e ce la fece.

Quando ritornò in Italia, riconsegnò questi capitali e si mise quindi in luce nel mondo degli affari, e fu premiato dai vari importatori crudisti e dalla famiglia Hausbrandt, che lo coinvolsero nei loro affari come mediatore.

E’ celebre la vecchia pubblicità della Hausbrandt di due anziani che bevono una tazza di cioccolata calda, uno è Hermann Hausbrandt e l’altro è Alberto Hesse, mio padre.

In gioventù grazie alle amicizie di mio padre ebbi la possibilità di conoscere sia Hermann Hausbrandt che il capostipite di un’altra famiglia che poi diverrà importantissima: Francesco Illy, padre di Ernesto.

Il caffé all’epoca arrivava da molte origini: Brasile, centro America, Etiopia. Quest’ultimo paese infatti, soprattutto prima degli anni Trenta era stato conquistato dall’Italia, ed il governo italiano privilegiava l’importazione del caffé di quella provenienza.

All’epoca si consumava molto Gimma e Harar (Etiopia, entrambi Arabica). Quindi in quegli anni quasi tutte le origini arrivavano o dal Brasile o dall’Etiopia. Le cose in seguito cambiarono.

Come nasce la sua esperienza di pilota dell’aviazione nella seconda guerra mondiale?

Avvicinandosi oscure e minacciose nubi sulla scena internazionale, venni chiamato alle armi compiuta l’età di diciotto anni. Durante le visite mediche per l’arruolamento, alla domanda se sapessi nuotare, orgoglioso della mia provenienza da una grande città di mare risposi logicamente in maniera affermativa.

Fui prontamente arruolato nella leva di mare, che durava all’epoca ventiquattro mesi, anziché i diciotto mesi dell’aeronautica ed i dodici dell’esercito.

Una volta arruolati non si poteva in alcun modo cambiare corpo, se non passando alla leva dell’aria. Per farlo bisognava avere il brevetto di aliantista o di pilota civile che si svolgeva a Gorizia e Ronchi.

Andai allora da mio padre per chiedergli 3600 lire dell’epoca, la stessa in cui c’era la canzone “Se potessi avere mille lire al mese”! Era chiaramente una cifra molto grande, come sei mesi di stipendio di una persona normale.

Mio padre, preoccupato che suo figlio avesse contratto dei debiti, chiese maggiori precisazioni che io spiegai manifestando un puro e giovanile desiderio di imparare a volare e andarmene dalla leva di mare.

Il padre con piglio austro – ungarico mi disse: “Aeronautica? Ma lo sai che in quel corpo ci va la gente che non ha più in cosa sperare? Tu avrai l’azienda da portare avanti, io vedo per il tuo futuro altre cose. Non avrai da me neanche una lira!”.

Fortunatamente però, ero molto abile negli studi, ed iniziai a guadagnare facendo ripetizioni e scrivendo dispense per i miei colleghi. Inoltre all’epoca c’era il Guf (Gruppo Universitario Fascista), ed anch’io come gli altri studenti, ne facevo parte.

Arrivò in quel periodo come segretario del gruppo, Aldo Vidussoni, medaglia d’oro della guerra di Spagna, che nella stessa aveva perso un braccio. L’aiuto di questa valente persona mi permise di ottenere una borsa di pilotaggio, lavorando per il Guf e creando la sezione degli studenti stranieri.

Alla fine entrai in aeronautica, ottenendo successivamente il diploma di pilota civile e ottenendo il trasferimento dalla leva di mare a quella d’aria. Le vicende storiche del 1943, mi fecero passare nell’aviazione britannica nella quale prestai servizio fino alla fine del conflitto.

Tornato in luglio del ‘45 a Trieste e trovando una gran desolazione in tutti gli aspetti, compreso il commercio del caffé, decisi consultando mio padre di continuare il servizio d’aviazione nell’Aeronautica Italiana aspettando tempi migliori nella base di Lecce.

Nel settembre del ’46 infine entrai nella società di mio padre. Alla sua morte, nel ’58, mi resi conto che per come era impostata l’azienda non si poteva sperare in grossi margini di miglioramento e profitti.

Tutto ciò a causa della limitatezza della clientela, che si era resa ancora più acuta alla fine della seconda guerra mondiale e del declino economico di tanti nostri clienti.

Quali furono le sue strategie per fare il salto di qualità?

Decisi di iniziare ad allargare prima su tutta l’Italia per poi puntare coraggiosamente all’estero puntando in seguito su paesi come Svizzera, Germania, Austria. In questo modo feci aumentare i volumi dell’azienda portandola fino ad oggi.

Nel frattempo mi sposai con una donna già divorziata e con un figlio, Patrizio Brusoni, allevato da me. Il grande problema dopo la seconda guerra mondiale, era quello di ricostruire i contatti e trovare nuovi clienti in una situazione economica di stallo totale. La base era crearsi delle conoscenze e dei legami: il modo migliore era quello di viaggiare e farsi conoscere.

Ed è così che attraverso questa mia presenza a livello internazionale nelle fiere di settore e manifestazioni, mi sono fatto conoscere sempre di più.

Coronando questo importante e rapido percorso con la mia nomina a presidente dell’Associazione del caffé di Trieste, arricchito dal significato di essere il primo brocker eletto in questo fondamentale ruolo.

Una cosa importante è che l’Assocaffè, fondata nel 1891, (mio padre divenuto socio nel 1907) aveva come regola che la presidenza spettava alternativamente ad un crudista o ad un torrefattore. Dopo 70 anni divenni il primo presidente con ruolo diverso: il primo presidente broker.

Sono stato quasi una ventina d’anni alla guida dell’Associazione (1974 – 1991).

Ad un certo momento mi resi conto che la vita poteva portare anche amare sorprese, come ad esempio la scomparsa del mio vice presidente Scarioli (brocker). Decisi allora di chiudere la mia presidenza. Dopo di me salì alla presidenza Alberto Gattegno.

Nel mercato di oggi i “crudisti” hanno ancora bisogno di voi “brokers”?

Come grossi crudisti a Trieste abbiamo la Sandalj, Cogeco, Imperial, Tropical. Tutti questi crudisti si comprano i vari caffé da diverse località a seconda delle richieste del mercato. La scelta se la fanno loro, Sandalj ha parecchi contatti.

Altri crudisti preferiscono rivolgersi a brokers come me, che possiedo varie relazioni in loco. Il broker non ha rischi, non finanzia.

È un lavoro anomalo, perché il crudista non è tanto un commerciante di caffé che compra un container di caffé e lo distribuisce, quanto un banchiere. Anticipa il valore di questa merce, che un volta sbarcata a Trieste avrà bisogno di otto – dieci mesi prima di essere rivenduta.

Quindi fa il banchiere e finanzia il caffè che vende al piccolo medio torrefattore a credito con pagamento a novanta o centoventi giorni.

Questa è la parte malsana dell’attività, malsana da parte dei crudisti, malsana anche a causa dei torrefattori, che si combattono tra loro per cercare di accaparrarsi i bar, finanziandoli attraverso una gamma di operazioni.

Essi infatti forniscono le macchine per l’espresso, le tazzine con il logo dell’azienda, effettuano prestiti economici.

Quindi il lavoro del caffè in Italia non è chiaro né sano. E’ inficiato da tutta una serie di operazioni finanziarie che si completano a lungo termine, ad intervalli sfasati.

Oggi il ruolo del broker va scomparendo a causa del boom dell’informatica che ha stravolto il mercato, creando il contatto diretto tra crudisti e produttori.

Resiste una tradizione come la stessa azienda Hesse ed altre che forniscono una precisione ed un rigore nel modo di lavorare.

Qual è il futuro del caffé? Quali sono i maggiori pericoli che gravano sulla qualità del prodotto?

Il mercato ha la tendenza ad abbassarsi in termini qualitativi a causa della concorrenza tra torrefattori.

Oggi il gestore del bar non ha capacità di riconoscere la qualità più o meno buona del caffè.

Oggi il gestore guarda esclusivamente ai profitti, sbagliando: minore è il costo del caffè torrefatto, maggiore è il mio ricavo.

Questo discorso è sbagliato alla radice, perché il cliente ritorna in un bar nel momento in cui ricorda il retrogusto piacevole che il caffè gli ha lasciato la volta prima.

Quando il caffè è cattivo, perché fatto con miscele di qualità bassa, lascia un cattivo retrogusto ed il cliente non è invogliato a ritornare.

Il mercato sta avendo un regresso in termini qualitativi a causa di nuovi paesi produttori come ad esempio il Vietnam, che in dieci anni è passato da una produzione di mezzo milione di sacchi a quasi sedici milioni, di qualità Robusta.

Tra i caffé di questa qualità, il Vietnam è il più a buon mercato e quindi è anche il peggiore, perché ha più gusto legnoso, terroso, di umido.

Chi va a cercare miscele a basso prezzo, finisce poi per deludere i clienti.

Come è nato il suo rapporto con il Camerun?

Nel 1960, tutte le ex colonie francesi dell’Africa sono divenute indipendenti, ed hanno avvertito quindi la necessità di farsi conoscere all’estero.

Il caso vuole che Costa d’Avorio, Camerun, Gabon, vennero alla Fiera di Trieste per esibire i loro prodotti.

La delegazione del Camerun si mise alla ricerca attraverso la Camera di Commercio di Trieste di una persona del luogo che potesse aiutarlo ad allargare i contatti durante la Fiera.

Il Presidente della Camera che era all’epoca Caidassi, mi chiese di prendermi questo incarico. Per la mia attività, perdere quindici giorni di Fiera rappresentava una perdita cospicua di guadagni, ma fui “quasi costretto”.

Dopo un anno il Camerun si ripresentò mettendomi a disposizione una decina di milioni, che all’epoca era una cifra importante. Questa cifra era a mia disposizione per promuovere e far fare una bella figura alla rappresentanza del Camerun.

Ottenni ottimi risultati ed il rappresentante africano volle in qualche modo sdebitarsi.

Tuttavia gli feci capire che se volevano sdebitasi non erano sufficienti dieci milioni, per cui il mio gesto doveva considerarlo di simpatia verso una nazione nuova ed indipendente.

Questo fece un’impressione molto positiva sulla delegazione che mi premiò con una decorazione.

Il Camerun tornò per dodici anni consecutivi alla Fiera, fino al 1972. Nel 1959 il Camerun esportava cinque tonnellate di qualità Robusta, nel 1963 ne esportava 6000 tonnellate.

Questo fu la ragione per cui aprirono un consolato, affidandomelo.”

Alberto Hesse è stato nominato dall’International Coffee Organization nel 1992, “Uomo dell’anno”, prestigiosa carica conferita annualmente ad una persona che si è distinta nel mondo del caffé.

Alberto Hesse è morto il 17 giugno 2008.

Matteo Apollonio * Matteo Apollonio lavora oggi preso la società Mokint di Trieste (uno degli azionisti è Mokarabia) che si dedica all’export verso i Paesi dell’ Est Europa.

Settima parte (le parti precedenti sono state pubblicate il 10, 17, 24 ottobre e 7, 21 e 28 novembre).

(Segue il prossimo martedì 12 dicembre).

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