domenica 24 Marzo 2024
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Scelte alimentari: amare l’amaro del caffè è questione di educazione o di genetica?

L'alimentazione e la preferenza di un gusto rispetto ad un altro, da cosa derivano? E' una questione strettamente legata al dna e alle scelte compiute dalla madre in gravidanza, oppure dipende da uno stile di vita appreso?

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Dalla Corte
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MILANO – Il tema delle scelte alimentari e dei determinanti che le guidano gode oggi di notevole popolarità. Del resto, uno dei quesiti più affascinanti per la ricerca è proprio la comprensione del rapporto tra percezione sensoriale e gusto, che ogni area del mondo declina a modo suo

AP&B, sito da cui riprendiamo l’analisi, fa il punto con Ella Pagliarini, che al Dipartimento di Scienze per gli Alimenti, la Nutrizione e l’Ambiente dell’Università degli Studi di Milano, guida uno dei gruppi di ricerca sulle scienze sensoriali più attivi a livello internazionale.

Riportiamo qui di seguito l’intervista molto accurata, firmata da Cecilia Ranza.

Scelte alimentari. Qual è il rapporto tra gusto e scelte alimentari?

“Nel cibo cerchiamo prima di tutto piacere. A prescindere da ogni
altra considerazione, dal contenuto di nutrienti. Fino, addirittura, al costo.

A guidare ogni scelta è quindi principalmente l’appetibilità dell’alimento. Un fattore che dipende dal rapporto complesso tra le sue caratteristiche sensoriali e la sensibilità gustativa individuale. Quest’ultima poi, a sua volta, è composta da una molteplicità di elementi. Soltanto in parte riconducibili alla genetica.

Molti studi scientifici hanno dimostrato che è soltanto quando siamo soddisfatti dal punto di vista del piacere che intervengono
altri fattori. Quali il contenuto di nutrienti, le caratteristiche di comodità d’uso o, infine, anche il prezzo del prodotto nelle decisioni di acquisto di un alimento.”

Come si sviluppano le preferenze individuali per gli alimenti?

“Fin dai tempi di Aristotele, dolce, acido, salato e amaro sono stati considerati i quattro gusti fondamentali. Oggi sappiamo che si può comprendere tra questi anche l’umami. Una parola che significa “saporito” in giapponese e per noi occidentali è rappresentato dal glutammato monosodico.

Il componente principale del dado da brodo, tipico in-
saporitore di molte delle nostre pietanze. Gli studiosi dei meccanismi a livello molecolare del gusto hanno infatti dimostrato che lo riconosciamo con lo stesso tipo di processo che ci fa percepire il dolce e l’amaro.

Oggi si sa che altri stimoli sensoriali, fino a poco tempo fa erroneamente considerati come gusti fondamentali, quali metallico, pungente e astringente, provengono in realtà da sensazioni olfattive e tattili. Spesso definite anche come “sensazioni al palato”.

Studi molto recenti, invece, sembrano dimostrare che tra i gusti fondamentali potrebbe essere incluso il gusto del grasso, o degli acidi grassi che lo costituiscono. Anche se il fenomeno non è ancora del tutto chiarito, i ricercatori hanno infatti rilevato che alcuni meccanismi del gusto sono dedicati al ricono-
scimento del grasso.

La preferenza per i cibi grassi

Così come per il sapore dolce, tanto forte soprattutto durante l’infanzia, sembra essere legata al fatto che, scegliendo cibi dolci e grassi, il nostro organismo ci spinge ad assumere una sufficiente quantità di calorie.

Nel corso l’evoluzione, infatti, le proprietà sensoriali dei grassi hanno rappresentato il segnale per il nostro corpo di un funzionale e necessario apporto di energia.

La capacità di percepire il dolce e il salato ha quindi un’utilità ancestrale. Proprio perché permetteva di orientare le scelte dei nostri lontanissimi progenitori verso cibi sicuri. In grado perciò di ripianare il calo di riserve energetiche; anche il salato era utile, per assumere un minerale (il sodio), indispensabile alla vita.

La repulsione invece che, generalmente, noi proviamo per il gusto amaro è probabilmente spiegabile come una strategia di sopravvivenza. Dato che la maggior parte dei veleni e delle sostanze nocive di origine vegetale sono amari.

In natura, molte piante producono tossine come difesa che, in effetti, sono per la maggior parte amare e i nostri antenati, pertanto, stavano ben attenti a non raccogliere cibi amari perché potenzialmente nocivi. Questa attitudine innata, ancora oggi, ci fa associare alimenti amari a cibi potenzialmente pericolosi e quindi da scartare.

Non è un caso che le risposte edonistiche ai gusti fondamentali, che hanno favorito la sopravvivenza, siano dimostrabili in tutti i neonati.

Le preferenze alimentari, invece, non sono elementi statici

E’ stato osservato, infatti, che un individuo modifica almeno in parte le proprie preferenze alimentari nel corso della vita. È intuibile come i fattori determinanti in questo caso siano il condizionamento ambientale; (cultura alimentare dell’area in cui si cresce, abitudini alimentari familiari; esperienze sensoriali nella vita fetale, esperienze della vita adulta).

Nonché le esperienze sensoriali correlate agli altri sensi, che stimolano l’individuo al consumo. (l’aroma del caffè, lo scricchiolio di  una patatina, il colore dei frutti maturi).

L’evoluzione del gusto, come educazione alla sperimentazione di nuovi elementi sensoriali, deve però superare l’avversione innata all’assaggio di alimenti nuovi.

Che cosa va detto in proposito?

“Nel 1990 il sociologo e antropologo francese Claude Fischler definì “paradosso dell’onnivoro”. Ovvero il conflitto tra adesione a regimi alimentari e proposte dietetiche a volte bizzarre e la parallela, innata diffidenza all’assaggio di alimenti mai provati,;nonostante l’uomo sia programmato per essere onnivoro.

La diffidenza ad assaggiare cibi mai provati prima, nota come neofobia, è in parte geneticamente determinata e si ritiene che entrasse nel bagaglio di precauzioni volte a evitare alimenti potenzialmente nocivi.

Nella realtà odierna assume invece connotati addirittura controproducenti: basti pensare alla difficoltà di educare i bambini al consumo delle verdure, molte delle quali più o meno decisamente amarognole, come broccoli, spinaci; carciofi, cavolini di Bruxelles e così via.

Oggi sappiamo che è possibile condizionare il gusto già nella vita fetale, facilitando così la successiva accettazione di alimenti di primo acchito poco graditi.

Poiché le molecole del sapore raggiungono il liquido amniotico e il latte materno, un oculato consumo di verdure e di estratti di verdure da parte delle future madri si traduce in un più rapido gradimento di questi alimenti.

Molti studi recenti hanno rilevato che la neofobia alimentare, sebbene dipenda in parte dal patrimonio genetico, è fortemente influenzata dalle abitudini alimentari dei genitori. Che i figli  poi imitano in modo netto nei primi anni di vita.

Per tentare di ridurre l’atteggiamento neofobico infantile, in particolare nei riguardi della frutta e della verdura, sono stati messi a punto vari programmi di educazione alimentare. Tutti si basano sull’imitazione e sull’esposizione ripetuta a tali alimenti, per influenzarne il gradimento.

Infatti, in uno studio condotto dal nostro gruppo di ricerca, abbiamo dimostrato che, anche dopo poche esposizioni (per un paio di settimane) il gradimento per frutta e verdura, anche mai assaggiate prima, aumentava.

Non c’è quindi dubbio che le abitudini si apprendono in famiglia. E che il comportamento dei genitori a tavola influenza quello dei figli. Questo concetto andrebbe spiegato bene ai genitori, per-
ché il loro quotidiano incoraggiamento al consumo, fin da piccoli, condizionerebbe positivamente la dieta della prole.”

Il gusto quindi si può educare anche in età adulta?

“La scoperta che l’individuo tende a modificare, almeno in parte, le proprie preferenze alimentari nel tempo segnala un’evoluzione, o un processo di adattamento del gusto. Entrambi rapportabili al bagaglio personale di esperienze gustative e sensoriali.

Abbiamo citato prima quanto, in generale, i cibi dolci, grassi, salati (e umami) rispetto a quelli acidi e amari siano più graditi; sebbene la nostra preferenza dipenderà anche da quello che ci attendiamo di trovare in un alimento, in base alle nostre esperienze precedenti, o ad altri fattori.

Per esempio dove lo consumiamo, o se lo mangiamo da soli o in compagnia. A titolo di esempio, pensiamo alla tazzina di caffè, bevanda notoriamente amara di per sé. Ognuno di noi ha una precisa quantità di zucchero che deve aggiungere tutte le volte che lo consuma per renderlo gradito; ovviamente, per chi lo preferisce amaro, un pizzico di zucchero sarebbe sufficiente
per renderlo sgradito.

Lo stesso discorso vale per la quantità di sale aggiunta a una pietanza. La saliva, infatti, contiene sodio, in concentrazioni diverse da individuo a individuo. Ecco perché un alimento viene giudicato salato solo se supera quella determinata concentrazione presente della saliva.

Le nostre preferenze nei riguardi di un cibo

Queste dipenderanno anche dall’insieme di più aromi, gusti e consistenze presenti contemporaneamente nel cibo stes-so, che agiranno in sinergia.

Pensiamo per esempio a un cibo che piace praticamente a tutti, il cioccolato. Si tratta di un prodotto a base di cacao, di per se stesso amaro, al quale vengono aggiunti zucchero (saccarosio di solito) e grasso (burro di cacao). Per ridurne il livello di amaro e modificarne la consistenza e le sensazioni in bocca, che tutti gli estimatori di tale prodotto ben conoscono.

Anche l’esposizione, come accennato prima, può modificare le preferenze alimentari innate e migliorare il gradimento anche di quelle verdure tanto salutari sebbene piuttosto amare.

Un fenomeno analogo si è osservato nei bevitori di vino. Infatti, chi si avvicina al vino per la prima volta tende a preferire vini più dolci; in seguito, a mano a mano che si comincia ad apprezzare la bevanda, si sviluppa una preferenza anche per tutti gli aromi e i flavour del vino. Compreso l’amaro e l’astringente.”

Che cosa si sa a proposito del coinvolgimento degli altri sensi nella determinazione delle preferenze alimentari?

“L’olfatto, insieme alla vista, come già accennato, è responsabile della nostra prima reazione nei confronti di un alimento. Dato che un cibo si distingue dall’altro più per l’insieme delle caratteristiche di gusto e odore che per il gusto in sé, si potrebbe pensare che la
sensibilità agli odori vari da individuo a individuo.

È noto che, al contrario di quelli del gusto, i recettori dell’olfatto sono molto più sensibili ai traumi. (un forte colpo alla testa, ma anche la sinusite cronica o un potente raffreddore). Questi infatti,  possono causare il distacco delle fibre nervose dai recettori olfattivi e di conseguenza provocare anosmia (totale perdita del
senso dell’olfatto).

Queste lesioni possono anche, talvolta, ripararsi da sole; spesso, però, ciò non avviene, privando l’individuo dell’olfatto e della
percezione dei molti flavour alimentari.

Il termine “flavour”, anglosassone, iden- tifica infatti quel gruppo complesso di sensazioni che includono gusto, olfatto e altre sensazioni termiche o irritanti, detto anche olfatto retro-nasale.

Anche l’invecchiamento provoca un indebolimento dell’olfatto, molto più che del gusto e, in particolare, sembra che  tale diminuzione sia più rapida dopo i settant’anni.

A tal proposito, in uno studio di qualche anno fa abbiamo rileva-
to che, in un gruppo di individui molto anziani e istituzionalizzati, il gradimento aumentava nettamente se venivano aggiunti esaltatori di sapidità, quali per esempio zucchero e spezie, ai diversi alimenti presentati nel menù settimanale.

Negli ultimi anni è stato dimostrato anche che la perdita di olfatto è certamente minore nelle donne rispetto agli uomini e che, probabilmente per differenze ormonali, le donne hanno più pro-
babilità di valutare poco piacevoli molti più odori degli uomini.

Per ogni età, in generale, le donne sono più sensibili agli
aromi degli individui di sesso maschile. Questo fenomeno sembra spiegato, in vari studi, ancora una volta dall’esposizione a una varietà di aromi alimentari, che per le donne è generalmente maggiore rispetto agli uomini.

Come già accennato nel caso del gusto, tale apprendimento migliora la capacità di distinguere e identificare gli odori.”

Che cosa si sta comprendendo infine rispetto al rapporto tra percezioni del gusto e obesità?

“Questo filone di ricerca è molto promettente. Torno al punto di partenza: le caratteristiche sensoriali del cibo, insieme alla percezione soggettiva delle stesse, ci guidano a preferire un alimento rispetto a un altro. Inoltre, noi mangiamo per sopravvivere, ma soprattutto perché ci dà piacere.

Estremizzando, quindi, potremmo affermare che il numero totale di calorie assunte da un individuo in una giornata è guidato dal  piacere che ricava dal cibo. Soddisfacendo il gusto personale.

Abbiamo per esempio dimostrato che esiste una differenza significativa nella soglia di percezione dei gusti fondamen-
tali tra adulti (uomini e donne) normo- peso oppure obesi.

Nei soggetti obesi, la soddisfazione associata alla percezione
di un determinato gusto necessita di quantità maggiori di quello stimolo. Il dato è intrigante soprattutto per quanto riguarda lo stimolo dolce, grasso e salato; perché la ridotta percezione potrebbe favorire un maggior consumo di alimenti ad alta densità energetica.

Dal punto di vista funzionale, abbiamo rilevato, sulla lingua di questi soggetti, un numero minore di papille fungiformi.

Bisogna però capire se l’alterata percezione è concausa dell’aumento ponderale (attraverso la maggiore assunzione di determinati alimenti), o ne è la conseguenza (attraverso un circolo vizioso che si automantiene).”

Quali sono gli sviluppi possibili di queste osservazioni iniziali?

“Il primo pensiero va agli studi che abbiamo iniziato a condurre su campioni di popolazione infantile. Per capire se il rapporto tra soglia percettiva e peso in quella fascia d’età segue un andamento simile a quello degli adulti.

Inoltre, si potrebbe ipotizzare un’applicazione tecnologica, per fornire formulazioni alimentari che riescano a mimare il gusto, in particolare quello dolce o lo stimolo grasso, senza fornire le calorie che ci si potrebbe aspettare.

 

 

 

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