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MILANO – Abbiamo incontrato Mattia Intorre nei panni di tostatore professionista, ma è anche Q Grader qualificato. Su queste pagine compare come produttore del cacao Bean to bar, con il suo progetto parallelo, avviato di recente, Ruvido.
Intorre, ma dal caffè al cacao: qual è stato il passaggio?
“Ho scoperto quest’altra filiera, assaggiando. Le similitudini con il caffè non mancavano e così è stato abbastanza naturale iniziare ad esplorare questa materia prima. Così come il vino, ci sono dei sentori diversi da quelli che di solito ci aspetteremmo.

Appassionandomi, ho voluto diventare assaggiatore di cioccolato con l’International Chocolate Academy. I corsi sono strutturati ricalcando un po’ il modello della SCA, su due livelli principali che ti permettono di certificarti professionalmente.
In seguito sono entrato in contatto con un rivenditore che si appoggiava a sua volta ad una crudista di fave e così ho acquistato i macchinari con cui ho iniziato a fare le prime prove a casa, nel 2024. Nel frattempo sono stato giudice agli European bar Awards per la categoria fondenti, insieme ad altri 10 professionisti. E assaggiando 200 campioni ho maturato un’idea più consapevole di cosa volessi trovare in una tavoletta del cacao.”
Tostature: cacao e caffè, sempre così simili?
“Per il cacao si parla di temperature diverse in tostatura rispetto a quelle del caffè: il secondo va dai 200 ai 220 gradi, mentre il primo tra i 110 e 160. Il cacao però ha ancora della strada da fare per quanto riguarda la calibrazione di questo processo, perché tanti produttori attualmente tostano il cacao per circa 45-50 minuti, perché in genere sono abituati alle tempistiche dettate dal settore pasticceria. Così facendo però si perde molto dell’acidità che è insita nelle fave.”
Quindi lei Intorre cosa usa per il suo Ruvido?
“Al momento non ho ancora la possibilità di tostare con una macchina a tamburo. Il posto a cui mi appoggio possiede solo forni ventilati – al momento standard nella piccola produzione bean to bar.
Spesso nelle fave tostate chiare, noto un sentore di crudo, un po’ di astringenza. Invece, per trasmettere il terroir, bisogna studiare bene il processo di cottura e di disgregazione, semplificando le molecole, sottolineando qualità già presenti nella materia prima. “
Ma perché preferirebbe avere una tostatrice a tamburo?
“Perché è uno strumento più preciso, può migliorare il processo con una termo copia in grado di leggere la temperatura delle fave, e consegnare un prodotto di diversa qualità.”
Dove avete lo stabilimento produttivo, quali sono le attrezzature necessarie per partire (quali avete scelto, costo?)
“Attualmente mi sto appoggiando ad altri piccoli chocolate maker. Per partire con un laboratorio proprio servirebbero tutti i macchinari: lo spazio in cui tostare, il macchinario per rompere e spellare le fave di cacao in fase post tostatura, delle raffinatrici per ridurre il particolato, le tostatrici, gli stampi.
Effettivamente parliamo di un lavoro molto complesso e lungo, ma l’idea che alla fine non c’è nessun altro che può rovinare il mio prodotto, vince su tutto. Ho il controllo al 100% della filiera sino alla tavoletta finita e questo vale lo sforzo.”
Da chi vi rifornite, come avete creato la vostra rete di contatto con i farmers, quali sono i problemi di logistica, trasporti?
“Mi piacerebbe poter lavorare direttamente con i contadini ma per il momento non siamo sufficientemente forti. Per ora mi appoggio a due/tre crudisti, principalmente Silva Cacao e Crafting Markets. Due realtà nelle quali lavorano persone che come me arrivano dal mondo dello specialty coffee, e con le quali proprio per questo background comune, riusciamo a parlare lo stesso linguaggio. “
Ma la selezione delle fave avviene come con gli specialty?
“Ci sono dei sistemi per trovare i difetti nelle fave: ci sono i piattoni, ovvero quelle non mature, si può controllare la muffa quando presente, il colore esterno. Il fenolico si sente invece nel sapore, come il rancido, il sovra fermentato, che sono sentori organolettici.
Seleziono le fave spedite in campioni di circa un chilo e con questi ne ricavo un chilo di cioccolato. In questo senso mi aiuta molto il fatto che lavoro solo al 75%.
Una scelta che ho applicato per seguire la mia idea di espressione del terroir della fava stessa. Per lo stesso motivo non uso il latte, ma solo il cacao e lo zucchero. Tra il 70 e l’80% è il migliore modo di esprimere la materia prima. La scelta del 75% è perché, lavorando solo con fave e zucchero, senza quindi l’aggiunta di burro di cacao come ingrediente tecnico, restare al 70% con alcune fave, fa diventare troppo difficile temperare.”
Ruvido è una creatura non soltanto di Mattia Intorre, ma anche della compagna Giulia Mandala
“Giusto. Mentre io mi occupo dello sviluppo prodotto, Giulia sviluppa tutta la parte di comunicazione del brand. A febbraio siamo partiti con tre referenze: abbiamo deciso di proporre solo limited edition per mantenerci legati alla stagionalità del cacao. Teniamo conto che, anche quando la provenienza è della stessa farm, la materia prima sarà sempre differente.
Ciascuna barretta è numerata. Al momento abbiamo avuto una produzione di circa 3000 barrette prima della pausa estiva. Non solo tavolette Ruvido però, ma anche Cubotti da 3 grammi dedicati ai ristoranti e B2B.”
Distribuzione, vendita: da Milano alla Svizzera, sino in Canada
“Il primo negozio estero è stato la Svizzera poi grazie all’inserimento nella Bean to bar world, piattaforma che mappa gli artigiani siamo arrivati in Canada. Adesso è in cantiere una subscription portoghese e vorremmo raggiungere tutta l’Europa e spingerci anche oltre.”
Ma facendo un passo indietro, Ruvido perché?

“Ruvido perché la nostra texture è più granulosa, raffiniamo meno, proprio per conservare al meglio le note aromatiche.
Certo, ci sono alcuni rivenditori che hanno qualcosa da ridire proprio sulla nostra ruvidità, perché reputano i nostri prodotti un po’ difficili da vendere ad un pubblico che è abituato alla scioglievolezza delle tavolette più commerciali.
Ma il nostro cioccolato è un business destinato per la degustazione e infatti si trova in luoghi particolari come le caffetterie specialty. Al cliente finale, la tavoletta da 50 grammi costa 12,50€, ed è un problema nonostante sia inserita in contesti dove il consumatore è più consapevole. La risposta per giustificare questo prezzo però è semplice: siamo piccoli produttori e usiamo fave di cacao vendute al doppio di quello del cioccolato che si trova al supermercato.
Tutte le nostre confezioni poi sono frutto di collaborazioni artistiche. Usiamo grafiche che fanno di Ruvido un progetto di curatela artistico. I colori delle nostre copertine non sono casuali, ma sono rappresentativi delle note gustative che si ritroveranno nelle tavolette stesse.”
Ma l’aumento importante dei prezzi del cacao ha avuto impatto anche su di voi?
Intorre: “I prezzi si sono alzati per tutti, anche per noi. Devo dire che per quanto riguarda il mondo dello specialty, la vedo come un’opportunità. L’approccio con il cliente finale anche per il cioccolato dovrebbe essere diverso, perché il consumatore spesso collega la qualità di un prodotto al suo prezzo.”
Origini: Ruvido da chi si rifornisce?
“A proposito di origini, un’altra cosa che succede spesso nel cacao e che noi non vogliamo fare, è che tanti procedono per grandi aree, senza dare informazioni su una piantagione, un numero di lotto specifico.
Noi lavorando solo con importatori che hanno relazioni in Sud America, Africa e Indonesia, non abbiamo origini fisse. Il mio preferito è il cacao peruviano – un crudo peruviano eccellente che prima costava 6/8 euro al chilo ora ne costa 18 -, perché è un po’ l’Etiopia per il caffè, con una diversità genetica importante.
Tendenzialmente acquistiamo un sacco di cacao per tipo quando si va in produzione: la prima produzione l’abbiamo fatta comprando due sacchi da 50, uno da 60 e uno da 30.”
Quindi Ruvido verso dove si vuole evolvere?
“Cercheremo di investire in Italia andando oltre le caffetterie specialty. Anche in botteghe che fanno qualità o nelle enoteche.
L’obiettivo per essere sostenibili è quello di raggiungere in termini di volumi circa 60mila barrette l’anno: a quel punto apriremo il laboratorio, magari condiviso con altri artigiani selezionati. Per avviarne uno, si deve considerare che serve un grosso investimento.
Basti solo pensare che possedere una raffinatrice da 60 chili in Europa costa 10-15mila euro e che una tostatrice a tamburo da 6 chili si paga 25mila euro. Quindi, allestire un buon laboratorio significa avere a disposizione 70mila euro.”