venerdì 12 Aprile 2024
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Moretti Polegato: “L’espresso è italiano, ma il business lo fa Starbucks”

Il fondatore della Geox ribadisce l’importanza dei brevetti e della proprietà intellettuale nella complicata transizione italiana verso una nuova fase di sviluppo economico. Un paradigma da applicare anche alle specialità della più illustre tradizione alimentare italiana.

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MILANO – «Tu sarai il mio futuro cantiniere», disse un giorno d’agosto del 1952 Divo Moretti Polegato umettando con una goccia di vino le labbra del figlio Mario, batuffolo caldo appena nato fra le braccia della mamma Amalia.

Il passato che ormai è memoria, il presente duro da vivere e il futuro ancora da scrivere di una terra e di un Paese possono essere racchiusi in una singola – parziale e naturalmente caduca – biografia imprenditoriale.

In pochi lo sanno: Mario Moretti Polegato, il fondatore della Geox, è figlio di imprenditori agricoli di Crocetta del Montello, in provincia di Treviso.

La sua traiettoria rappresenta la mutazione verso il manifatturiero sperimentata, dagli anni Sessanta, dal Nord-Est.

Chi lo ha incontrato lo sa bene: ha una passione maniacale – con una loquacità tracimante da prete laico – per i brevetti e la protezione intellettuale.

Tanto da essere convinto che, nella complicata transizione italiana, una nuova fase di sviluppo potrebbe trarre origine dal ridefinirsi dei processi di valorizzazione dell’innovazione – di processo e di prodotto – che spesso il nostro capitalismo si è perso fra le dita, lasciando ad altri sistemi economici la possibilità di sfruttare specificità e invenzioni che sono state generate dalla nostra comunità, dal nostro Paese, dai nostri imprenditori.

«In qualche maniera – racconta Moretti Polegato – i destini mio e di mio fratello Giancarlo si sono invertiti. Io ho studiato agraria, con specializzazione in enologia.

Mio fratello si è diplomato ragioniere. Io avrei dovuto occuparmi del vino. Lui dei conti. Alla fine, l’attività di famiglia, che dura da quattro generazioni e che oggi conta su quaranta milioni di bottiglie all’anno, è rimasta suo appannaggio».

Alle sette di sera, nella saletta del terminal dell’aeroporto privato di Linate, Moretti Polegato rinuncia al caffè, lascia stare i tramezzini rattrappiti al salame e fontina e beve acqua gelida da una bottiglietta di plastica.

È arrivato da Torino. Ha un’ora di attesa. E poi ripartirà, in aereo, per Treviso. Domani volerà negli Stati Uniti.

A Torino ha incontrato 300 studenti del Politecnico. La settimana prima ha fatto lo stesso a Ca’ Foscari.

Il suo girovagare per le università italiane e straniere e il suo diffondere con foga ossessiva e quasi sacerdotale il verbo del “patent” – il brevetto – e del “brand” – il marchio – ha qualcosa di anomalo rispetto all’ortodossia italiana che da venticinque anni – con la fine del paradigma della grande impresa e la prevalenza della piccola azienda – da un lato è fondata su una innovazione non formalizzata e non tutelata e, dall’altro, sconta la sottovalutazione del potenziale economico della proprietà intellettuale.

«Servono un mutamento della mentalità e una nuova concezione dell’economia – sottolinea Moretti Polegato muovendosi agitato come una anguilla del Brenta nella poltrona della saletta riservata dell’aeroporto di Milano – ci vogliono meno fabbriche e più idee».

Suona strana l’invocazione a un numero minore di capannoni proferita da un imprenditore di Montebelluna, il cuore del distretto della calzatura e dello sport system, uno dei luoghi ricorrenti della letteratura fragile e dell’identità forte della Terza Italia.

Un modello che dai primi anni Novanta è stato sottoposto allo shock dell’ultima globalizzazione e che, adesso, deve trovare un suo spazio nelle mappe internazionali in via di rapida, tumultuosa e violenta rimodulazione.

Geox rappresenta una ipotesi di deviazione della specie. Non lavora sul Dna, non progetta l’auto elettrica e non studia le nuove forme di intelligenza artificiale.

Produce scarpe e si dedica all’abbigliamento.

Una cosa italianissima.

I 60 brevetti e il 2% del fatturato destinato alla R&S – a fronte di 4.671 addetti diretti e di 1.134 negozi, 451 a gestione diretta – fanno simbolicamente due cose: una cosa sul piano particolare e una cosa sul piano generale.

Sul piano particolare, provano a ridare smalto a un percorso di impresa che, dal fatturato di 340 milioni di euro dell’anno della quotazione alla Borsa di Milano – il 2004 – ha prima toccato nel 2008 l’apice di 892,5 milioni, ha subito negli esercizi successivi una riduzione per poi tornare, nel 2016, a 900 milioni.

Senza peraltro ancora recuperare la brillantezza reddituale che aveva fatto salire gli utili netti, fra il 2004 e il 2008, da 52,8 milioni a 123,4 milioni di euro.

Sul piano generale della lunga durata, i 60 brevetti e il 2% del fatturato in R&S sembrano dialogare con l’Italia del polipropilene di Giulio Natta alla Montecatini (anni Sessanta e Settanta) e con l’Italia dell’M24 alla Olivetti di Carlo De Benedetti (il personal computer più venduto al mondo nel 1984).

I brevetti applicati dalla Geox alle sue scarpe e ai suoi capi di abbigliamento hanno – naturalmente – una minora radicalità e una minore forza di rottura rispetto al Moplen e all’informatica distribuita.

Non importa, però: in ogni settore industriale il patrimonio di conoscenza va strutturato, sedimentato e alimentato dalle imprese.

Va definito, cristallizzato e tutelato con i brevetti. Va perimetrato, difeso e raccontato con i marchi e con l’aura che essi, qualche volta, riescono a promanare.

«In fondo – riflette- alzandosi e sedendosi dalla poltrona- Moretti Polegato – la prima legge sui brevetti venne istituita a Venezia per proteggere i maestri vetrai di Burano».

Il 19 marzo 1474, il Senato della Repubblica di Venezia approvò lo Statuto dei brevetti con 116 voti favorevoli, 10 contrari e 3 astenuti.

Il provvedimento, che è conservato nell’Archivio di Stato di Venezia, fa luce sugli «artificij et instrumenti», assimilabili agli odierni processi e prodotti sottoposti a protezione intellettuale.

E mostra il loro effetto – generativo di ricchezza e attrattivo di uomini di sapienza tecnica e imprenditoriale – sul tessuto economico e civile veneziano: «Abbiamo fra noi uomini di grande ingegno, atti ad inventare e scoprire dispositivi ingegnosi: ed è in vista della grandezza e della virtù della nostra città che cercheremo di fare arrivare qui sempre più uomini di tale specie ogni giorno».

L’Italia di oggi non è la Repubblica di Venezia. Secondo l’annual report 2016 dello European Patent Office, il nostro Paese conta su 67 brevetti ogni milione di abitanti, contro i 122 dell’Unione Europea a 28 Stati, i 311 della Germania e i 157 della Francia.

Fra le prime cinquanta imprese per numero di domande depositate all’Epo l’anno scorso, non una è italiana. La cinquantesima è la francese Sanofi – farmaceutica – con 375 domande di brevetto. La prima fra le italiane è la Ansaldo Energia, che ne ha 50.

Dunque, nella nostra prassi industriale, non ci siamo. Serve un lavoro approfondito per migliorare la sensibilità intorno alla cultura dell’innovazione formalizzata.

Occorre superare la retorica dell’autosufficienza dell’innovazione di prodotto e di processo. Secondo una sorta di circolarità storica, proprio in quella Venezia che ha sviluppato per prima il concetto di brevetto si terrà, all’Arsenale, lo European Inventor Award 2017, il premio dello Epo della cui giuria Moretti Polegato è presidente.

Peraltro, l’imprenditore della Geox è anche uno dei 20 membri dell’Advisory Board di Confindustria, organismo di pianificazione strategica introdotto dalla Riforma Pesenti: nel meccanismo di contaminazione fra impresa e università e conoscenza informale e sapere accademico, Confindustria è impegnata in una intensificazione degli apporti delle aziende alle scuole e alle accademie e viceversa.

«Il nostro sistema economico ha lasciato ad altri, negli ultimi trent’anni una serie di occasioni», nota Moretti Polegato.

Occasioni non soltanto legate alle imprese che abbiamo perso. Legate anche e soprattutto alle imprese che non abbiamo avuto. Il problema non è – o non è soltanto – il Novecento.

Il problema è soprattutto il Duemila.

Nel riassetto del capitalismo europeo e internazionale, alcuni prodotti simbolo della cultura popolare italiana sono diventati la fonte di energia imprenditoriale che ha portato alla edificazione di imperi economici.

«Siamo il Paese della pizza e del caffè espresso», ricorda Moretti Polegato. Eppure Starbucks e Pizza Hut sono americane. Si potrà disquisire, da puristi, se le loro pizze e i loro cappuccini ci piacciano o no.

«Ma il business non è italiano, diamine», quasi si inquieta Moretti Polegato.

Ci sono mille ragioni che potrebbero spiegare la nazionalità americana di queste catene e l’assenza di un grande gruppo italiano globale in grado di portare ai consumatori la pizza e il caffè: la forza intrinseca – logistica e finanziaria – connaturata a imprese americane abituate a confrontarsi con un mercato interno enorme e capaci di replicare all’estero i loro standard organizzativi, la magnitudo finanziaria incompatibile con le grandezze economiche italiane, i limiti del nostro modello del capitalismo familiare.

(È importante puntualizzare, rispetto a quanto sopra espresso, che un fondamentale percorso di tutela del caffè all’italiana è stato intrapreso dal Gruppo Italiano Torrefattori Caffè, con l’iniziativa volta a far risconoscere l’espresso come bene immateriale dell’umanità, ndr.)

Ma, per l’Italia, resta un tema di industrializzazione della creatività, di protezione intellettuale e di valorizzazione dei marchi.

Paolo Bricco

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