mercoledì 10 Aprile 2024
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Il Cavaliere Massimo Renda, presidente e fondatore di Caffè Borbone, dal Trieste Coffee Experts: “È necessario essere sostenibili a costo di pagare di più tutti i prodotti”

Il presidente e fondatore di Caffè Borbone: "Ad oggi, il 65% della nostra produzione, grazie alle cialde, in termini di volume è riciclabile; stiamo lavorando alacremente per arrivare al 100%, il che è fattibile a patto che si abbiano le idee chiare sugli obiettivi comuni: non vorremmo fare un lavoro esagerato per ottenere l’industrial compost e poi ritrovarci qualcuno dall’alto che lo archivia e dice che da domani bisogna avere l’home compost. Bisogna sempre comprendere che siamo aziende con strutture che devono pensare e costruire per evolvere. La domanda che ci facciamo è: è possibile migliorare ancora andando oltre questo sviluppo circolare?"

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Massimo Renda, presidente e fondatore di Caffè Borbone, ha partecipato al convegno Trieste Coffee Experts organizzato dai Fratelli Franco e Mauro Bazzara con un intervento focalizzato sull’importanza dell’economia circolare e dell’innovazione per dare vita a nuovi materiali nel rispetto dell’ambiente. Riportiamo di seguito le considerazioni di Renda ricordando che questa è una trascrizione di un intervento effettuato a voce e non si tratta di un articolo scritto da lui.

L’economia circolare nella filiera del caffè

di Massimo Renda

TRIESTE – “Borbone sente molto, per dovere etico e di business, la volontà di evolvere con processi di ricerca e sviluppo al fine di essere sempre più compliant con le tematiche ESG (Environmental, Social e Governance).

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Per darvi la misura della nostra sensibilità al tema, considerate che tutti i nostri Consigli di Amministrazione a cadenza trimestrale si aprono proprio con i passi in avanti e gli sviluppi fatti dall’azienda in termini di ESG. La nostra determinazione da questo punto di vista è veramente molto spinta.

Nel 2010 si incominciano a toccare in ambito europeo temi volti alla sostenibilità del business produttivo, di tutti i prodotti, non solo chiaramente del caffè. Si iniziano a gettare le prime linee in maniera abbastanza vaga; si trattava più che altro di una manifestazione di orientamento, di interesse e di volontà.

Oggi siamo nel 2023, e ci sentiamo addirittura un po’ minacciati da queste leggi che sembra ci vengano calate addosso in modo un po’ dispotico. Ma sappiamo che nel 2050 dovremo arrivare, per quanto più possibile, a emissioni di carbonio zero.

È un progetto davvero molto ambizioso, che tra le altre cose ci verrà imposto. Ricordo a questo proposito che noi rispondiamo alla Comunità Europea, che è innanzitutto un organismo politico, che quindi è in parte alla ricerca della soluzione e del superamento delle criticità, e in parte alla ricerca del consenso politico.

Si tratta di meccanismi che conosciamo tutti quanti. Noi aziende, purtroppo, ci ritroviamo in mezzo a tutto ciò: dobbiamo produrre e portare a casa risultati, sì di sostenibilità, ma anche economici, e tutto ciò crea ogni tanto delle ansie e dei motivi di confronto importanti, come il confronto che stiamo avendo qui al Trieste Coffee Experts.

Stiamo via via maturando il concetto di avere un doppio bilancio: quello economico tradizionale e il bilancio di sostenibilità. Dove, come in ogni bilancio, si prepara un consuntivo e poi si pensa a quello che si dovrà fare nell’anno succcessivo. Per avere le idee chiare, per avere dei progetti sui quali far lavorare i team e spingere la creatività dell’azienda, che non è più rivolta soltanto a creare prodotti nuovi ma anche packaging più sostenibili.

Caffè Borbone ha una grande responsabilità in quanto immette volumi veramente importanti di caffè monodose in capsule sul mercato. Sentiamo di avere un impatto significativo come azienda, e tra capsule, cialde e imballaggi, ci dobbiamo preoccupare di ciò che facciamo.

Vorrei partire da un presupposto molto importante. Normalmente l’Italia sembra sempre il fanalino di coda di quella che è la realtà europea. Veniamo sempre dopo molte nazioni che sembrano sempre più virtuose della nostra. Invece, in termini di riciclo degli imballaggi, l’Italia è decisamente più avanti di tutti quanti gli altri Paesi.

In termini di numeri, ricicliamo l’83% dei materiali da imballaggio rispetto a una media europea del 52%. Per ogni milione di prodotto, produciamo 46 tonnellate di rifiuti rispetto alle 78 tonnellate di rifiuti della media europea.

Abbiamo un tasso di riuso della materia circolare molto più elevato della media europea. Ciò significa che siamo decisamente avanti in questo campo. Spero che riusciremo come italiani a far tesoro nostre tecnologie e la nostra sensibilità in materia a livello europeo.

L’Europa sarà il drive di questo sviluppo sostenibile che è giusto che ci sia perché se riusciamo a migliorare il mondo, ci ritroviamo anche noi in un pianeta migliore.

Finora, la popolazione italiana ha visto le elezioni europee come qualcosa di lontano. Abbiamo sempre avuto un grande trasporto per quanto riguarda le elezioni regionali, o le nostre amministrative e le politiche, ma quando si entra nell’ordine europeo, è come se i partiti minori andassero al Parlamento europeo come fosse un ripiego. Tuttavia è in Europa si fanno i giochi del futuro.

Quindi dobbiamo innanzitutto individuare le persone giuste che ci rappresentino in Europa, non in un’ottica di difesa delle proprie posizioni nazionali ma di costruttività seria che ci porti verso il futuro. Perché dopo l’Europa c’è il mondo.

E quando sento parlare di sostenibilità, oltre che relativamente al packaging ma anche alla filiera di produzione, sento che c’è da creare il giusto mix. Che se da una parte si va a sostenere i Paesi coltivatori e a lavorare sul carbon footprint della logistica, è importante anche sostenere la competitività delle aziende europee a livello mondiale.

Borbone ha fatto uno sforzo enorme per avviare un lavoro fatto come si deve negli Stati Uniti, dove così come in Italia siamo fortemente declinati sulla produzione del monodose. Non si può approdare al mercato statunitense senza il formato monodose per eccellenza utilizzato in America.

È stato uno sforzo enorme per arrivare con una capsula prodotta completamente in Italia, compostabile, che garantisca un buon caffè. La computabilità e la sostenibilità non possono andare a discapito della qualità in tazza.

Il mercato statunitense ha scarsissima sensibilità nei confronti della parola “compostabile”, le persone non sanno neanche di che cosa si tratti. E per quelli che lo sanno questo concetto vale molto poco.

Questo per dire che, se discostiamo la nostra realtà da quella del mondo, rischiamo di diventare aziende che si collocano fuori dal mondo.

I cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, l’inquinamento di mari e oceani sono tuttavia un problema concreto, quindi occorre ridurre le immissioni sul mercato di materiali non necessari, come il packaging ridondante. Mi rivolgo con questo ai nostri fornitori di impianti. Chiedendo: riuscite a rendere il più essenziale possibile l’imballaggio che accompagna il prodotto, utilizzare materiali per quanto possibile riciclati e riciclabili, prodotti a una distanza il più breve possibile dalle nostre aziende, e progettare prodotti che siano davvero innovativi?

Va fatta la differenza tra le aziende virtuose e quelle meno virtuose, però c’è un punto centrale: siamo tutti quanti imprenditori.

Le aziende presenti al Trieste Coffee Experts spaziano da Lavazza all’azienda con la famosa torrefattrice da 5 kg, che hanno bisogno in ogni caso di avere le idee chiare su quali sono i paletti da rispettare, perché altrimenti continuiamo a brancolare nel buio.

Noi di Borbone, che produciamo un enorme volume di capsule, fino all’altro ieri eravamo molto spaventati perché sembrava che stessimo andando fuori business in quanto la plastica riciclabile doveva essere addirittura considerata alla stregua della capsula di derivazione petrolifera. Poi all’improvviso è cambiato tutto, come se fosse spuntato il sole, e siamo tutti bravi, buoni e belli, e andiamo in continuità.

Non si può fare impresa così, non si può fare sistema così; abbiamo bisogno di sapere dove andare, cosa fare, e tra le altre cose, di regole che per quanto possano essere ambiziose, abbiano i loro tempi di applicazione.

Uno degli esempi che porto sempre è l’evoluzione delle emissioni delle automobili: non si è detto “Tra 2 anni, tutti Euro 6”, ci sono stati Euro 1, Euro 2, Euro 3,… in una sfida anche imposta come legge che però ha dato la possibilità al mondo dell’automotive di adeguarsi e di svilupparsi. Perché quando parti con un obiettivo, non hai la sicurezza di avere già la soluzione vincente. Ci dev’essere uno stimolo, che è un fatto molto importante. Dobbiamo avere il tempo per esplorare le nuove tecnologie.

Va da sé che, in questa evoluzione, le aziende che sono riuscite ad allinearsi o che magari si sono mosse in anticipo vadano premiate perché alla fine siamo qui per portare un business a casa, per guadagnare; quindi, se l’essere virtuosi è premiato anche commercialmente, ciò costituisce sicuramente uno stimolo per fare ancora meglio. Perché oltre alla legge che lo impone e ai buoni intenti che si hanno nell’animo, poi tutto questo si riscontra positivamente a livello economico e ciò costituisce uno stimolo veramente determinante.

Ci vogliono regole chiare e una comunicazione altrettanto comprensibile per non correre il rischio di vanificare uno sforzo titanico di evoluzione tecnologica a causa del consumatore che ha un oggetto in mano, che sia una capsula di caffè, una lattina o una confezione di Tetrapak ad esempio, e che non sapendo come smaltirlo, lo getta nel contenitore sbagliato. Questa è una follia assoluta.

Per quanto l’Italia sia la nazione più evoluta nel riciclo, abbiamo quasi una normativa o dei limiti di riciclo su base regionale.

Dunque, uniformare le regole e fare in modo tale che ci sia una chiave di lettura chiara, a prova di chi è più distratto, è fondamentale.

E poi è fondamentale anche porsi degli obiettivi ambiziosi, perché le sfide sono quelle che hanno fatto crescere il mondo. Si dice che le guerre abbiano portato avanti lo sviluppo tecnologico semplicemente perché sono sfide serratissime che spingono tutti i cervelli sopraffini dei popoli ad andare avanti.

Caffè Borbone ha preso degli impegni con i suoi stakeholder, tanto che già da un po’ redige un bilancio di sostenibilità.

In Italmobiliare, che ha la proprietà del 60% della compagine sociale, abbiamo una grandissima sensibilità e molta determinazione in tal senso. E questa loro sensibilità, unita alla nostra, e al fatto che siamo un’azienda molto focalizzata e specializzata, ci ha permesso di stabilire dei paletti in termini qualitativi del prodotto che forniamo al consumatore.

Un esempio su tutti è che da tempo stiamo cercando di creare una capsula compatibile Nespresso e sostenibile. La capsula esiste, ma un top lid che tecnicamente è determinante sulla tazza di caffè erogato, che funzioni bene come il foglietto di alluminio originale di quel progetto ancora non esiste, allora moltissime aziende hanno il contenitore e continuano a trovare soluzioni che sembrano quelle giuste ma ben presto ci si accorge che purtroppo non è proprio così, e nessuno è disposto a mettere in discussione la qualità alla quale è abituato il suo consumatore, alta o bassa che sia, in virtù di una maggiore sostenibilità.

Tra le altre cose, come diceva prima Nicola Panzani di IMA, abbiamo ahimè la netta consapevolezza che “sostenibilità” è una parola bellissima ma che il consumatore a oggi ancora non è disposto a pagare.

Ad esempio, facciamo un prodotto che sul mercato costa circa 20€, e il medesimo prodotto in chiave sostenibile ne costa 21. Sembrerà strano che nonostante una differenza di prezzo irrisoria e la presentazione significativa dal punto di vista della compostabilità, di fatto, il consumatore continua a essere spinto a comprare il prodotto che costa di meno.

Finora, per cercare di essere il più ESG-compliant possibile, abbiamo condotto uno studio molto importante su come riutilizzare il silver skin, e siamo riusciti a recuperarlo tutto completamente.

Il silver skin è un sottoprodotto da tostatura, e 500 tonnellate l’anno, ossia il 100% del nostro silver skin, vanno in compost attraverso filiere certificate che possono trattare in ricezione e riutilizzare il silver skin prodotto da noi.

I sacchi di juta rappresentavano un’altra questione complicata; noi consumiamo circa 170/180 container di caffè al mese che arriva in sacchi di juta da 60 Kg.

Per noi era un enorme problema smaltire tutto questo materiale, non sapevamo cosa farne, e i sacchi erano un problema addirittura quando li trattavamo come rifiuto speciale, non solo per il costo e per il volume, ma anche perché mandavamo in crisi i centri di raccolta a causa dei quantitativi consegnati.

Anche in questo ambito abbiamo fatto uno studio incredibile, molto approfondito, partendo anche dalla fantasia dei nostri collaboratori. Alla fine, oggi, tutti i nostri sacchi di juta finiscono nel settore dell’agricoltura e servono per la pacciamatura, qualcosa di molto importante per l’attività agricola e che normalmente per gli agricoltori, visto che parliamo di superfici abbastanza ampie, rappresenta un costo, mentre grazie ai sacchi di juta, che sembra sposino abbastanza bene quel tipo di utilizzo, abbiamo due vantaggi: noi non li gettiamo e non li bruciamo, e l’agricoltore non dovendoli acquistare ha un elemento naturale affine all’utilizzo che ne deve fare.

Parliamo ora di carta e cartone. Noi non abbiamo inventato la cialda, anzi, siamo nella città dell’azienda che ha inventato la cialda, ed è un grande onore per noi. Tuttavia c’è un aspetto di cui andiamo orgogliosi: in tempi non sospetti, abbiamo stimolato e poi affiancato l’azienda che produce la carta filtro in maniera molto determinata facendo leva proprio sul fatto che essendo un grosso cliente, se non ci avessero seguiti nel progetto, ci saremmo rivolti a qualcun altro.

Lo studio per sostituire il polipropilene che serve per rendere saldante la carta filtro con il PLA, che oggi è più conosciuto e tecnologicamente evoluto, si è protratto per lungo tempo.

In passato, usando il PLA si ostruiva il filtro del portacialda; sembrava che questo materiale potesse funzionare ma di fatto non funzionava e causava anche un’erogazione incostante.

Dall’idea originaria siamo giunti alla carta filtro compostabile che oggi troviamo sul mercato.

A uno stadio avanzato del processo di sviluppo, abbiamo detto al nostro partner, per salvaguardare i nostri interessi e stimolarlo ulteriormente, che arrivati alla fine del progetto congiunto non avremmo voluto l’esclusiva ma solo un piccolo periodo di vantaggio, finito il quale il prodotto avrebbe potuto essere liberalizzato e fornito a qualsiasi azienda.

Si parlava di qualche miliardo di cialde immesse sul mercato, tutte quante compostabili, e dunque ciò rappresentava un grandissimo vantaggio per l’umanità.

La stessa cosa la faremo con la carta, perché oltre ad aver sviluppato la cialda come prodotto, in seguito abbiamo iniziato a ragionare anche sull’imballaggio. Abbiamo fatto impazzire l’IMA perché dovevamo fare in modo che le nostre macchine cialdatrici potessero lavorare quel tipo di elemento, che per una serie di motivi tecnici presenta criticità molto maggiori.

Alla fine ci siamo riusciti, l’IMA ha abbracciato il problema insieme a noi, e perfino oggi ho sentito IMA dire che le loro macchine, cialdatrici incluse, al giorno d’oggi vengono studiate per poter utilizzare prodotti di natura diversa.

Quando noi abbiamo iniziato questa evoluzione, le IMA, come tutte le altre macchine, erano pensate per funzionare con il prodotto originale che tutti quanti conosciamo, e che è il più facile da lavorare per una serie di motivi.

Gli scarti di alluminio ci hanno portato a stabilire un rapporto particolare con i fornitori, producendo noi una bella quantità di capsule compatibili Nespresso con top lid in alluminio.

Nei nostri tender di approvvigionamento abbiamo inserito una nuova voce; poiché ottenendo degli sfridi durante il lavoro, in quantità quasi pari al materiale utilizzato per l’imballaggio, abbiamo iniziato a dare un valore importante al ritiro degli sfridi da parte dei nostri fornitori per riutilizzare questo materiale, cosa che all’inizio nessuno voleva fare. Magari a causa del prezzo esiguo dell’alluminio a quel tempo, o per questioni logistiche.

Borbone ha iniziato a fare leva proprio su questo aspetto e a considerarlo in maniera significativa nella scelta del fornitore vincente del tender, creando così un enorme stimolo al miglioramento.

Oggi, tutto l’alluminio che prima non riuscivamo a riciclare, in quanto l’alluminio accoppiato alla lacca saldante non poteva essere immesso nel normale circuito di riciclo, viene ritirato completamente dai nostri fornitori che alla fine sono felici di aver fatto questo step, e che l’alluminio ce lo pagano pure.

Ad oggi, il 65% della nostra produzione, grazie alle cialde, in termini di volume è riciclabile; stiamo lavorando alacremente per arrivare al 100%.

Questo che è fattibile a patto che si abbiano le idee chiare sugli obiettivi comuni: non vorremmo fare un lavoro esagerato per ottenere l’industrial compost e poi ritrovarci qualcuno dall’alto che lo archivia e dice che da domani bisogna avere l’home compost.

Bisogna sempre comprendere che siamo aziende con strutture che devono pensare e costruire per evolvere. La domanda che ci facciamo è: è possibile migliorare ancora andando oltre questo sviluppo circolare?

La strategia ESG può essere qualcosa di relegato solo alle aziende più strutturate che hanno più capacità di sviluppo, o va trovato un modo per declinare tutti gli avanzamenti tecnologici a favore di tutte le aziende? Andando oltre la capacità competitiva, ci sono delle cose che devono necessariamente diventare di dominio pubblico, a mio parere, per il bene del pianeta.

È importante la condivisione di buone pratiche settoriali, come ad esempio la trasformazione del silver skin in fertilizzante, e per questo condivido gli spunti sentiti qui al Trieste Coffee Expert.

Perché Borbone tiene moltissimo alle iniziative che conduce sul territorio. Non siamo dunque rivolti solo ai farmer dall’altra parte del mondo, il cui futuro è anche il nostro futuro, ma pensiamo che sostenibilità sia anche fare delle attività nel territorio in cui ci si colloca. Perché la sostenibilità non riguarda solo ciò che produci ma anche l’ambiente in cui lavori.

Noi ci troviamo a Caivano, un luogo che al momento riceve attenzione per fatti molto negativi, e anche in questo contesto abbiamo cercato di creare una rete di imprese virtuose per cercare di avviare dei progetti che possono in qualche modo portare al miglioramento del territorio.

Inoltre, coinvolgiamo i nostri fornitori negli sviluppi, continuiamo a sfidarli e stimolarli, e siamo molto pressanti anche relativamente ai temi ESG; collaboriamo qualche volta con il mondo accademico e le Università in particolare per far certificare determinati processi e best practice, come quello di trasformazione del silver skin, in modo da essere in regola con le norme vigenti.

Ci piacerebbe poter raccontare anche al cliente che c’è un sistema di raccolta dei prodotti esausti che non possono essere compostabili per un motivo o per l’altro, e che il consumatore legga l’impegno dell’azienda in maniera proattiva e non passiva, percependolo con una maggior nettezza.

Infine, occorre iniziare a fare campagne condivise, non nel senso della spesa, ma perché il nostro consumatore ha bisogno di percepire qual è il nostro sforzo per dare origine a tutte queste evoluzioni, in termini di denaro, tempo, sforzo fisico, e anche deviazione del focus dal business. Prendo ad esempio la presentazione che ieri Michele Cannone di Lavazza ha fatto su ¡Tierra!, un progetto bellissimo e molto ambizioso, che ha riportato un Paese alla produzione di caffè e in modo sostenibile.

Tutto questo è magnifico. Però se non riusciamo a comunicarlo al consumatore, vanifichiamo l’expertise focalizzando un’azienda su iniziative che devono avere grip quando giungono sul mercato perché altrimenti potrebbero anche essere davvero poco motivanti. Le ultime due proposte che presento sono le seguenti.

La prima è prevedere nella Direttiva Greenwashing regole chiare per la chiara indicazione di riciclo, da riportare poi sul packaging.

Questo è fondamentale. Il consumatore è l’ultimo anello di un percorso che deve essere virtuoso fino alla fine. Faccio un esempio tratto dalla filiera del caffè e dal mondo horeca. Se prendo il miglior caffè del mondo, accarezzo il contadino e porto il figlio all’università, trasporto il caffè via veliero e faccio tutto ciò che è necessario in termini di sostenibilità, ma alla fine il barista che prepara quel caffè è un incapace o non è motivato, tutti gli sforzi vengono vanificati.

Il concetto di greenwashing

La stessa cosa vale per il riciclo: magari noi facciamo sforzi incredibili, utilizziamo delle tecnologie pazzesche e alla fine il consumatore getta il caffè nel generico invece che nell’umido. Bisogna fare in modo tale che il concetto di greenwashing venga trasmesso al consumatore in maniera coinvolgente, rendendolo consapevole del fatto che il suo comportamento è determinante per la riuscita del progetto sostenibilità.

L’ultima proposta è un’idea sfidante che però potrebbe stimolare tutti quanti: creare un sistema di rating relativo all’ecosostenibilità.

Cos’è l’ecosostenibilità? Sei ecosostenibile se fai la capsula compostabile? Sei ecosostenibile se da domani si scopre che tostando con l’elio piuttosto che col petrolio sei più ecosostenibile? Sei sostenibile se la tua logistica si basa su camion elettrici, o altro? È un concetto così ampio quella della sostenibilità… Sei sostenibile se sostieni i farmer dall’altra parte del mondo oppure se non deforesti?

L’ecosostenibilità comprende moltissimi aspetti che risulta difficile trasmettere al consumatore perché, facendo degli esempi, domani l’azienda Borbone dice di essere meritevole perché ha la capsula compostabile, Bazzara invece dice di essere sostenibile perché ha scelto di affiancare lo sviluppo di un territorio di coltivazione. Entrambe le aziende sono sostenibili.

Come si giudica il percorso migliore? Ci vuole un sistema di rating che prenda in considerazione a tutto tondo un sistema di misura e attribuzione di importanza delle attività eseguite da un’azienda e che tutti questi elementi, a noi chiari, si concretizzino in un voto e che quel voto sia visibile sul frontespizio del packaging, con un bollino colorato attribuente il virtuosismo in termini di ecosostenibilità a quella determinata azienda.

In tal modo, si evita di complicare la vita al consumatore e non ci si aspetta una specializzazione da parte sua sull’argomento, che oggi evidentemente non ha. E, se ha una sensibilità alla sostenibilità, il consumatore tenderà a comprare il prodotto col rating maggiore.

Grazie a ciò, il consumatore potrebbe iniziare a percepire che essere sostenibili ha un costo, accettando il fatto che volendo veramente fare la propria parte nel salvare il mondo, bisogna essere disposti a pagare necessariamente un po’ di più”.

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