mercoledì 10 Aprile 2024
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Sbraga, Fipe: “Nel 2022 sono 190mila i dipendenti e nel trimestre luglio-settembre registrati 67mila posti vacanti”

Il vice presidente: "Le aziende avevano previsto entrate per circa 208mila lavoratori, non trovandone però circa il 32%. Questo è un problema che si mostrerà un po’ meno probabilmente nei mesi tra ottobre e dicembre, perché le attività subiscono un calo in termini di intensità.”

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MILANO – La carenza di personale qualificato all’interno dei pubblici esercizi è uno dei tanti punti critici che stanno influenzando un settore già messo a dura prova dallo scoppio della pandemia e della guerra ucraino-russa: i rincari di materia prima e utenze non fanno altro che peggiorare un fenomeno che è presente da anni e che ora si sta cronicizzando. Abbiamo fatto il punto sulla questione con Luciano Sbraga, vice direttore Fipe e direttore del Centro studi Fipe.

Sbraga, parliamo un po’ di numeri sul tema della mancanza di forza lavoro qualificata nei pubblici esercizi

“Abbiamo perso 243mila dipendenti nel 2020, recuperandone circa 50mila nel 2021. Oggi siamo ancora sotto i livelli pre Covid, per un totale di circa 190mila unità. Parlare di posti vacanti è improprio: questi ultimi sarebbero le posizioni cercate dalle aziende che non riescono però a riempire. La domanda è: di quanti lavoratori avrebbero bisogno le imprese oggi? Potranno avere la necessità di 67mila posti vacanti (lavoratori che si cercano e non si trovano). Questo è il dato emerso in riferimento al trimestre luglio-settembre: le aziende avevano previsto entrate per circa 208mila lavoratori, non trovandone per mancanza di candidati, però circa il 32%. Questo è un problema che si mostrerà un po’ meno probabilmente nei mesi tra ottobre e dicembre, perché le attività subiscono un calo in termini di intensità.”

La situazione è la medesima su tutto il territorio nazionale o ci sono delle aree maggiormente interessate? Se sì, perché?

“Il fenomeno della mancanza di personale è diffuso un po’ ovunque. Chiaramente si fa sentire di più in quelle destinazioni legate ad una maggiore stagionalità e al turismo. Al Nord si pensa alle spiagge, iesolano, l’Alto Adriatico, la Liguria e la Versilia. Si avverte di meno il problema dove invece non c’è una componente stagionale significativa rispetto all’estate. Tra nord e sud più o meno l’intensità è la stessa. Probabilmente al meridione esiste una maggiore disponibilità di lavoratori e quindi potrebbe esser un problema meno esteso.”

I problemi di questo fenomeno possono essere considerati la contrattazione pirata e il lavoro nero e poi il grigio?

“Quando si assiste a fenomeni di questo tipo, i fattori che incidono sono tanti, ma quello scatenante è stato sicuramente quello dell’arrivo della pandemia, che ha portato molte persone ad allontanarsi da questo settore. Ben 116mila lavoratori sono andati via pur avendo un contratto a tempo indeterminato. Il fatto che i pubblici esercizi fossero diventati fortemente instabili, ha portato chi ha potuto, a cercare altrove per non vivere nell’incertezza. Naturalmente, quando un settore perde 243mila lavoratori, è evidente che si assiste a un terremoto nel mercato del lavoro, si crea uno squilibrio che è difficile da recuperare.

Che ci fossero dei problemi di reperimento di personale qualificato, non è una novità, ma non si è mai verificata con questa intensità. Esistono certo degli elementi propri del settore che richiede impegno, sacrifici, lavoro nei giorni festivi, eccesso negli orari, il dover fare i conti con contratti numerosi e per la maggior parte a ribasso studiati dalle singole aziende: tutto questo complica ulteriormente la situazione e la rendono ancora più critica.
Naturalmente qualcuno imputa il peggioramento del contesto all’esistenza di alcuni sussidi e questo sicuramente esiste in certi casi: ma scambiarli per una fenomenologia, è sbagliato. Sarà capitato sicuramente che alcuni imprenditori durante i colloqui, abbiano perso candidati per via dei sussidi. Ma non spiegano un fenomeno così vasto e profondo.”

Attualmente esistono ben 30 contratti collettivi nazionali di lavoro per i pubblici esercizi: perché così tanti e non sarebbe d’aiuto ridurli?

“Sono tanti perché questo è un settore molto diffuso e frammentato. Non è composto da dieci grandi aziende, ma da 300mila. In un mercato così ampio, il fenomeno dell’ipertrofia contrattuale, oltre che nella ristorazione, è una tendenza che molti seguono. Il problema non è tanto nella riduzione del numero, ma nello svolgimento di controlli più serrati per verificare se essi sono applicati correttamente seguendo esempi come il nostro, che resta il più rappresentativo e, dal confronto che abbiamo svolto, è anche quello che garantisce maggiore tutela per i lavoratori. È chiaro che sono coinvolte le controparti sindacali, in una dialettica tra interessi. È un contratto tra imprenditori e lavoratori. Ci si dovrebbe porre come obiettivo, attraverso l’Inps, quello di comprendere quali contratti vengono applicati e organizzare in modo mirato i controlli. Si sta lavorando proprio ora su questo aspetto, adottando anche delle procedure di standardizzazione elettronica. È un processo in corso.”

Una via potrebbe esser data dalle stesse aziende nel proporre contratti in forme flessibili un po’ più tutelanti e lunghe nel tempo, tipo contratti mensili a monte ore garantito o in staff leasing?

“Tutto è possibile. Bisognerebbe però anche fare un ragionamento che parte dal modello produttivo. Non siamo davanti a un settore in cui ci sono grandi margini per le imprese e dall’altra, una condizione del lavoro molto precaria: il problema è che si tratta di un sistema produttivo estremamente oneroso. Si regge sulle piccole imprese, su di una grande mole di lavoro (1,3 milioni di persone impiegate prima del Covid) e che quindi fa fatica ad avere incrementi di produttività.

E però è proprio quest’ultima che consente di remunerare meglio, stimolando i fattori che concorrono al profitto. Quindi, quando si dice che bisogna rivedere il modello, è un discorso giusto, ma bisogna rivedere innanzitutto il livello dei prezzi. Perché se si vuole un tipo di servizio – cioè uno caratterizzato da prossimità, flessibilità degli orari (si consideri che un bar mediamente resta aperto in Italia 14 ore, che corrispondono a due turni di lavoro, e che per coprirli come minimo il gestore deve contare su 4 unità. La domanda è: il bar è in grado di pagarle?) – si devono alzare i prezzi. Il caffè a un euro e venti quindi non torna in questo calcolo. Qualcosa non funziona. Bisogna tenere in ordine i conti, perché un’apertura ampia, con flessibilità di orari, con una grande quantità di lavoro e costi fissi, va remunerata.

Qualcuno sta ripensando agli orari, per lavorare soltanto quando ha senso e non per restare aperti per facciata. È un ragionamento che deve fare la maggioranza degli imprenditori, per stimolare un meccanismo virtuoso. Il problema è a monte. È in gioco la capacità  manageriale di gestire un’impresa, che non significa solo saper preparare un buon caffè o un piatto, ma anche tenere bene i conti. “

Fipe come reagisce?

“Lavoriamo sull’emergenza sul tema inflazione ed energia. Come ad esempio con l’iniziativa di trasparenza e comunicazione delle bollette in vetrine, portata avanti anche per sostenere le richieste fatte al Governo per intervenire sul caro bollette. C’è da lavorare sul sistema delle regole e sulla formazione non solo rivolta ai dipendenti ma anche ai gestori. C’è bisogno che al settore sia riconosciuto il ruolo che gli spetta, in quanto strategico nella catena turistica. In corso inoltre, c’è il rinnovo del contratto scaduto nel dicembre 2021, e ora c’è l’apertura del tavolo di confronto: siamo ai preliminari e nei prossimi mesi ci potrebbero esser degli sviluppi. Non dipende solo da noi: in questi casi non è mai facile stabilire esattamente il quando. Questo è un momento molto delicato, soprattutto dopo gli anni del Covid.“

Il sentiment del settore com’è?

“Il clima di fiducia fino al secondo trimestre del 2022 era ancora buono. Ora abbiamo però tre ipoteche molto preoccupanti da considerare: il caro energia, l’inflazione che ormai viaggia oltre l’8%, non è più un problema di bollette e si trasferisce a tutte le merceologie con conseguente erosione del potere d’acquisto delle famiglie e l’impatto dei consumi, infine la politica monetaria meno espansiva con il rialzo del tasso di interesse e costa di più indebitarsi.

Abbiamo avuto una ripartenza nel 2022: un indice del fatturato della ristorazione che addirittura supera quello del 2019. Tornano i turisti stranieri, le persone propende a consumare. Ma è evidente che il secondo semestre e ancora più il prossimo anno, non sarà un periodo facile. Le bollette di un locale a luglio sono triplicate. In tempi normali questa voce influenzava del 3/4% il fatturato, ora ha raggiunto il 12%. Quando questo avviene, tutto il margine e l’utile – quando non si va in rosso – finisce a coprire spese. Il prestito in banca non viene concesso o viene fatto pagare di più.

Ammesso che i clienti restino, il fatturato non è l’unico fattore da considerare: la struttura dei costi è da tenere d’occhio. Ci sono imprenditori che dicono: non conviene in alcuni casi lavorare, perché più si lavora più si devono affrontare costi. Il rischio è di perdere pur restando aperti. Qualcuno pensa quindi di chiudere in alcuni momenti della giornata o della settimana.”

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