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Alessandro Galtieri, campione di caffetteria, scrittore di apprezzati manuali per baristi e coffee lover, giudice e trainer, si esprime sullo stato precario del bar in Italia e la crisi che ne sta cambiando l’identità. Leggiamo di seguito la sua opinione.
Negli ultimi dieci anni in Italia hanno chiuso più di 21.000 bar. Ma è davvero una sorpresa?
di Alessandro Galtieri
Galtieri: “Negli ultimi dieci anni in Italia hanno chiuso oltre 21.000 bar, secondo i dati Fipe. Un numero che colpisce, ma sembra sorprendere alcuni. Una meraviglia miope, di fronte a una tendenza che non è un incidente, ma la conseguenza inevitabile di un modello che non regge più: la vera sorpresa in realtà è che i bar riescano ancora a rimanere aperti.
Non serve la sfera di cristallo per capire cosa stia succedendo: il bar come lo abbiamo ereditato non è più compatibile con i costi attuali, con i ritmi di vita contemporanei, con un fisco più pesante e con costi del personale diventati ingestibili in un modello di business ormai sorpassato.
Questi dati sono il segnale tangibile che si sta spegnendo una visione idealizzata del bar, che abbiamo continuato a tenere in vita ad oltranza in una sorta di accanimento terapeutico. Anzi, peggio: non c’è stata nemmeno una terapia.
Abbiamo continuato a raccontarci che il bar potesse vivere della sua immagine romantica, mentre la realtà economica lo erodeva pezzo per pezzo nell’indifferenza generale.
I conti non tornano… e nessuno vuole vederlo
Continuare a credere che un bar possa sopravvivere con uno scontrino medio da 4–5 euro, mentre nell’ultimo decennio l’inflazione è cresciuta di circa il 30%, la TARI è esplosa in molte città, gli affitti non conoscono tregua e i costi del personale si mangiano fette sempre più grandi del fatturato, non è ottimismo: è rimozione collettiva.
Basta un semplice esempio in una microazienda dove ogni margine è vitale, aumentare di 10 centesimi una tazzina di espresso può generare giorni interi di dubbi e ansie. Eppure basta leggere i commenti sotto qualsiasi articolo online per vedere imprenditori chiamati “ladri” per un +0,10 o +0,20.
Un clima surreale, che impedisce perfino di adeguare i prezzi al costo reale. A complicare tutto, una concorrenza interna senza limiti: la Legge Bersani, abolendo le distanze minime tra esercizi della stessa tipologia, ha prodotto un eccesso di offerta che spesso degenera in una guerra fra poveri per quei dieci centesimi.
Il risultato è evidente: un modello già precario oggi è, per molti, semplicemente impossibile da sostenere.
Dignità: il bar non può offrirla se non la garantisce a chi ci lavora
Una delle voci più onerose per l’economia di un bar — che vive quasi interamente di servizio — è il costo del personale.
Con un costo orario reale di 19–20 € per addetto qualificato e 3–4 persone a turno necessarie per fornire un buon servizio in un bar impegnato, il costo diretto è 65–70 € l’ora.
In un’azienda sana il costo del personale non dovrebbe superare il 30% del fatturato: significa che servono almeno 200 € l’ora di incasso.
Con uno scontrino medio intorno ai 4,60 €, sono circa 43 scontrini all’ora, uno ogni 100 secondi Tutte le ore. Tutti i giorni. Auguri. Questo non significa che i baristi debbano essere pagati meno; anzi.
L’ospitalità richiede persone degne e dignitose, che possano sostenere i costi di una vita normale. E lo stesso vale per i titolari: un modello che regge solo se chi lo gestisce sacrifica salute, tempo e famiglia non è un modello, è una lotta per la sopravvivenza.
Un locale dove chi lavora è stanco, frustrato o sottopagato non può essere un luogo accogliente: né per i collaboratori, né per chi lo guida, né tantomeno per i clienti.
Un’occasione mancata — e la distorsione che stiamo creando
Quando un modello non si sostiene, la pressione economica mette le persone davanti a scelte difficili.
Con l’acqua alla gola è naturale cercare un appiglio per non affondare. Ma in un sistema fragile questi appigli generano una dinamica perversa: chi ha più scrupoli fatica di più, mentre chi ne ha meno diventa paradossalmente più competitivo. È una selezione distorta che premia comportamenti poco auspicabili e penalizza chi vorrebbe lavorare in modo lineare, trasparente e dignitoso.
Ed è qui che la politica continua a non inquadrare appieno la portata della questione.
Perché ciò che per l’imprenditore è un costo enorme — l’elevato numero di addetti necessari — per le politiche sociali è, in realtà, un’enorme opportunità. I bar sono fabbriche di occupazione.
Sono scuole di vita: insegnano gentilezza sotto pressione, attenzione verso il prossimo, collaborazione, temperanza.
Sono generatori di capitale umano come pochi altri luoghi nella società. Mi chiedo: con la fine del Reddito di Cittadinanza si sarà pure risparmiato qualcosa; perché, allora, non utilizzare quei fondi per incentivare la creazione di reddito vero, proprio nei settori che possono generarlo?
Si otterrebbe un doppio vantaggio: sostenere il welfare e sostenere il settore. Per farlo bisogna abbattere in modo massiccio il cuneo fiscale sul costo del personale nei settori dove supera la soglia di sostenibilità.
Non sarebbe un sussidio: sarebbe una compensazione per il welfare che lo Stato dovrebbe comunque sostenere se erogasse un reddito di cittadinanza.
Questa semplice diversa destinazione è solo uno dei modi possibili per alleggerire il carico ma potrebbe davvero essere un sostegno concreto per rilanciare il settore.
Mettere sul tavolo proposte concrete per il Governo, sarebbe compito delle Associazioni che, talvolta invece, sembrano limitarsi a diramare dati negativi come tristi bollettini di guerra a cose ormai fatte”.
Alessandro Galtieri



















