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Fipe: “Il Dl dignità conferma approccio sbagliato sul lavoro a tempo determinato”

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ROMA – “Il termine “dignità” dovrebbe riguardare non solo i lavoratori dipendenti, ma anche  gli imprenditori. Che meritano lo stesso rispetto e considerazione. Favorendoli nello svolgimento di attività spesso caratterizzate da difficoltà; economiche ed organizzative che la crisi ha aggravato.

Il provvedimento sul lavoro, purtroppo, non va in questa direzione. Perché introduce elementi di contrasto alle formule contrattuali di flessibilità. Di cui le imprese hanno bisogno”.

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Questo il commento del Presidente di Fipe – Federazione Italiana Pubblici Esercizi Lino Enrico Stoppani al via libera al Dl Dignità ricevuto dal Consiglio dei Ministri.

Il lavoro a tempo determinato non coincide con la cattiva occupazione

“Il lavoro a tempo determinato non può essere confuso con la cattiva occupazione. Perché molte attività sono (per fortuna) caratterizzate da fisiologici picchi di incremento; che non possono essere diversamente gestiti. Anche riproporre la causale riporta la disciplina dei contratti a termine al passato, – prosegue Stoppani -. Comprendiamo la necessità di tutelare i giovani dal precariato, ma paradossalmente si rischia di crearne di nuovo. Inoltre decretare così nel dettaglio queste materie svuota di significato la contrattazione settoriale. Si impone un abito uguale a settori differenti con esigenze fortemente disomogenee”.

Scelte penalizzanti

“Ridurre la durata massima da 36 a 24 mesi, crea ulteriore rigidità, ed elimina le causali legate alla stagionalità. Questo rappresenta un fattore estremamente penalizzante per le imprese del nostro settore che operano nel campo turistico. Così facendo si impone una disciplina del lavoro più rigida. Creando problemi di natura organizzativa e favorendo la concorrenza internazionale”.

Il decreto sui rider

“Un altro rischio riguarda la nuova definizione di lavoratore subordinato. Che è riportata nell’articolo 1 della bozza del Decreto sui rider. Secondo la quale sarebbe considerato tale chiunque si obblighi, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa. Prestando il proprio lavoro, manuale o intellettuale, alle dipendenze e secondo le direttive, almeno di massima, dell’imprenditore. Anche senza predeterminazione dell’orario di lavoro, se vi sia la destinazione al datore di lavoro del risultato. E se l’organizzazione alla quale viene destinata la prestazione non sia propria ma del datore di lavoro”.

“Si tratta di un’accezione ampia e di rischiosa interpretazione – conclude Stoppani. Che fa venire meno la certezza del diritto. E pone rischi giurisprudenziali di cui non c’è assolutamente necessità”. 

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