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CASTEL GOFFREDO (Mantova) – Albino Ferri, titolare e coordinatore di Accademia dell’azienda di famiglia Ferri dal 1905, condivide la sua esperienza professionale frutto di diversi anni sul campo, spingendo un prodotto che in Italia ancora è poco conosciuto attraverso delle vie trasversali come il coinvolgimento di personaggi importanti del food&beverage.
Ferri, partiamo però dal principio: in 120 anni di attività quando vi siete concentrati su una bevanda che in Italia ancora oggi non è così tanto diffusa?

“Ferri non si è concentrata sin da subito sul tè, anzi, il primo prodotto da cui è partita l’azienda è stato il tè il sono stati i vegetali secchi, mentre il resto è stato integrato da una una sessantina d’anni. Tutto è iniziato partire dal mio bisnonno che si era distinto in Paese come produttore eclettico, quasi un outsider, distaccatosi dalla famiglia per coltivare nel suo terreno degli ortaggi che poi vendeva direttamente nel mercato locale.
Si è affermato su tutti i suoi concorrenti, sperimentando e riuscendo ad anticipare o a ritardare la disponibilità di diversi prodotti che gli altri non avevano in vendita. Poi sono arrivate le prime importazioni di derrate dal Sud e gradualmente anche le erbe aromatiche, le spezie e infine il tè che ora è proprio diventato il cuore di Ferri.
Sessant’anni fa ci è sembrata un po’ una scelta naturale, dato che le spezie e il tè che importavamo dall’Oriente venivano sottoposti a procedure simili. Abbiamo iniziato con i primi lotti, poi abbiamo sviluppato questo settore che ha appassionato me e mio padre, sino a diventare produttori di prima fascia.
Negli ultimi 40 anni abbiamo investito parecchie energie, forti del fatto che il mercato stesso è cresciuto tantissimo (partiva da zero, quindi l’evoluzione si è avvertita molto, a differenza di altri Paesi europei dove in epoca coloniale questa bevanda e materia prima era già in auge).
In Italia lo spazio è stato sempre occupato dal caffè, siamo il Paese dell’espresso, mentre nei pasti la bevanda di accompagnamento per eccellenza resta il vino. Mancava un po’ la strada per l’ingresso del tè a colazione o in altri contesti.”
Cosa è cambiato allora?
Ferri: “Secondo me sono stati due gli elementi trainanti: il primo è quello salutistico. Dagli anni ’90 in poi, quando è emerso il potere di anti-invecchiamento del tè sul piano scientifico, questa bevanda ha vissuto un momento mediatico di gloria. Questo ha determinato la prima evoluzione del mercato.
Il secondo fattore è dato dalla globalizzazione, che ha portato a una maggiore apertura verso altri Paesi legati al tè. Poi esistono altri aspetti, certo: nell’horeca ad esempio, un’azienda che tra tutte si è affermata l’Eraclea, è stata in grado di portare avanti una gamma amplissima di tè con una forza comunicativa che ha dato il via alla diffusione più massiccia su questo canale.
Un’altra tendenza di questi ultimi tempi infine è il no-low alcol, che sta coinvolgendo il pubblico più giovane che consuma meno alcolici durante le uscite e quindi si orienta sempre più verso soluzioni come il tè.
Lavorando per strutture super premium, anche la ristorazione che di solito è rimasta un po’ indietro rispetto alla caffetteria, sta richiedendo i nostri servizi di consulenza per strutturare i pairing.
Le caffetterie hanno un potenziale enorme, tuttavia espresso malissimo per mancanza di formazione: il livello medio degli operatori è alto nei locali ben gestiti, ma sul tè c’è sempre pochissima conoscenza. C’è tanta incompetenza, sana ignoranza, frutto di una serie di passaggi: il primo fra tutti è l’industria.
È un’osservazione semplice: chi gestisce imprese di grandi volumi, non ha interesse nel fatto che il tè di qualità venga riconosciuto nei bar. I grossi movimenti economici non hanno vantaggi nell’educazione del pubblico. Secondo motivo: le scuole abilitate, dagli alberghieri ai professionali, dagli istituti privati allo stesso AIS, non prevedono un piano di studi dedicato al tè e quando questo viene citato, si tratta comunque della trasmissione di nozioni scandalosamente di scarsa rilevanza.
Infine esistono ragioni culturali: l’Italia associa molto la bevanda calda all’espresso, sempre in quantità ridotte, tutto il contrario degli infusi e dei tè. “
Tè in bustina VS tè in foglie: come vi ponete rispetto a questi due prodotti?

“Premessa: il mondo della tea bags sta vincendo su quello delle foglie. Questo perché tendenzialmente siamo consumatori pigri e la preparazione del tè in foglie non si sposa con la velocità di consumo occidentale. Da Nespresso in poi, ci siamo abituati ad ottenere la nostra tazza in maniera comoda e a qualsiasi prezzo.
Il filtro dunque sta conquistando il mercato e al suo interno esistono tre famiglie: c’è il filtro basico in carta, con la polvere generata dalle foglie fresche finemente sminuzzate, di tipo industriale, in cui la materia prima già in piantagione viene concepita e lavorata in maniera differente – la sigla che è CTC, per indicare il processo totalmente automatizzato -.
Il vantaggio è la facilità di meccanizzazione, il costo minore, mentre lo svantaggio è quello di realizzare un prodotto standardizzato, accettabile, ma non di alta qualità. Con questi risultati ci si rivolge ad un pubblico abituato a quel sapore specifico, che non è neppure interessato ad esplorare altre tipologie.
La seconda famiglia, sono le tea bags piramidali, evoluzione del processo industriale e prodotte sempre in maniera automatica, con l’uso di materia prima sminuzzata: si lavora già alla fonte in maniera più curata ma comunque viene poi rotta per poterla inserire nelle piramidi. Quindi in tazza si riscontrano più cariche aromatiche, anche quelle amare. Sono nate per proporre una soluzione forte quanto il caffè a colazione, che ha portato alla tradizione dell’aggiunta di latte all’inglese.
Infine, la terza famiglia dei filtri artigianali, che sono quelli usati da Ferri. Cuciti o legati a mano, permettono di usare qualsiasi granulometria. Le foglie sono le stesse che si userebbero in infusione, sono solo porzionate. Abbiamo studiato questi packaging e le vendiamo al pubblico tra gli 80 centesimi ed un euro e mezzo (quelli piramidali costano circa la metà, quelli industriali si aggirano attorno ai 10-15 centesimi a filtro).
I nostri filtri sono soluzioni vincenti per standardizzare o semplificare il momento del servizio del tè, garantendo però una bevanda d’altissimo profilo. Consentono di proporre grandi monorigini o miscele, pur basandosi su un personale con poche competenze sulla somministrazione di questa bevanda.”
Quindi i filtri targati Ferri possono essere un buon modo per penetrare l’horeca?
“Sì, anche se ci sono altri modi per entrare in questi contesti, come gli hotel e le spa di lusso: innanzitutto è fondamentale proporre un servizio di consulenza, in modo da intercettare le esigenze di ciascuna struttura. Ecco che entra in gioco l’esperienza e la preparazione di un professionista del tè, che guida al raggiungimento degli obiettivi di impresa.
Queste strutture chiedono di solito di creare delle esperienze complesse per gli ospiti e questo porta di conseguenza ad un aumento della marginalità. Di solito queste due cose vanno di pari passo. Quello che riusciamo a costruire sono delle occasioni di storytelling, di degustazione, di eventi di racconto.”
Ci racconta il progetto Tea Tour 2025?
Albino Ferri: “In modo simpatico e semplice, questo progetto nasce dall’Accademia Ferri come una delle 4 rubriche partite nel 2025 e abbraccia tutto il mondo del fine dining.
Mostriamo un pairing basandoci sul piatto spesso salato studiato da uno chef, e insieme scegliamo un blend abbinabile. Questo incontro serve a incuriosire il mercato e a fare cultura sul tè. Abbiamo pensato ad una tappa al mese, con un contenuto diverso. Il riscontro fin qui è molto buono ed è stato anche rilanciato su diverse riviste di settore, oltre che sui social, al punto che oggi qualche ristorante si è avvicinato in autonomia a Ferri per inserire dei pairing nella propria offerta.
È stata una bella rivelazione, perché inizialmente avevo il timore che gli chef avessero già delle competenze approfondite su questa bevanda e sui possibili abbinamenti. Invece, ho riscontrato come ci fosse un vuoto incredibile da colmare: è stato positivo che queste strutture siano altamente ricettive alle novità. Abbiamo formato diverse equipe nella ristorazione e portiamo avanti lavori di consulenza. La reazione degli chef fin qui è stata: sì, subito. Senza reticenza.
Ho trovato molta collaborazione, grande curiosità, apertura verso il progetto. Parlando del caffè, in queste stesse strutture manca anche in questo caso la cura, la formazione, la possibilità di scegliere su una carta dedicata. Nei locali che sto curando, vedo la voglia di portare poi questo esperimento direttamente sul menù. Molti chiedono di inserire il tè nella carta delle bevande.”
Ferri, lei vede una strada di crescita parallela tra tè e specialty coffee in Italia?
“Assolutamente sì. Tant’è che le caffetterie che offrono servizi di specialty in estrazioni alternative, sono più portate ad offrire una carta dei tè più ricercata. In questi ambiente è più facile inserirsi, anche se sono mercati ancora di nicchia e a livello numerico fanno meno coperti rispetto alle classiche pasticcerie che registrano volumi più alti e avrebbero più possibilità per fare cultura.
L’abbinamento con il banco dei dolci, il momento di relax per un pairing, sarebbero condizioni ottimali e non ci sarebbe neppure una contrapposizione rispetto al caffè che di solito vive il suo picco durante le colazioni. C’è un’apertura, seppure ancora molto timida: la pasticceria è estremamente concentrata sul laboratorio, sulla promozione del food e trascura la parte del tè e della caffetteria. Probabilmente, proprio il fatto che il mercato sopravvive già bene con il trainer principale, ovvero il dolce, non crea la necessità di dare più importanza anche alla parte del tè.
In questi contesti raramente si trova un pairing strutturato: la moporzione ricercata come elemento distintivo di un’attività, dovrebbe essere accompagnata in maniera guidata da una figura dedicata che aiuti il consumatore nella scelta di abbinamento.
Sarebbe interessante avere un professionista che curi una volta ogni tanto il menù studiato in base alla combinazione di due elementi. In un ristorante di solito si assume il sommelier che gestisce tutta la parte legata al vino: nella caffetteria non è indispensabile, ma potrebbe comunque essere una fonte di reddito in più se pensata come un’esperienza esclusiva.”
Infusi e tè: ci sono delle differenze in termini di acquisto e consumi?
“In termini di volumi del mercato siamo al 50 e 50. Nel mondo degli infusi, ci sono delle possibilità per proporre prodotti di fascia molto alta, come alcuni monorigine lavorati bene e interessanti.
Nel nostro Paese è una soluzione che sta prendendo grosse fette di mercato proprio per la ricerca di qualcosa senza teina, ma credo che ci si manterrà su questa parità per molto tempo. Non credo che prenderà il sopravvento sul tè, che attualmente si sta cercando di portare verso le lavorazioni asiatiche, meno cariche.
Il tè poi ha alle spalle più di duemila anni di storia che si basa su una specifica botanica come la Camelia Sinensis, che ha creato un prodotto di culto. “
Etichette del tè: quanto sono complete?
“Non c’è obbligatorietà, a parte quella di indicare gli ingredienti, sulle denominazioni di origine. Noi cerchiamo di arrivare ai consumatori finali con tutti i dettagli del caso: per esempio noi indichiamo anche quando l’aroma è naturale, seppure non sia obbligatorio farlo.”
Ferri infine ha due rubriche con obiettivo di incentivare i tè nei locali
“La prima è Colazioni speciali, il racconto di una specialità di questo primo pasto negli hotel, con un piatto in abbinamento teorico. La seconda è Storie di pasticceria: la narrazione di un locale, di un dolce tradizionale, di un gestore che si traduce sempre in un’idea di pairing.”