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L’European Specialty Tea Association, David Veal: “Speriamo di aprire presto un capitolo anche in Italia”

David Veal: "Come Associazione, due anni fa abbiamo introdotto il concept di Tea Barista: la parola "barista" nel tempo è diventata equivalente alla parola "caffè", ma abbiamo pensato "perché un buon barista dovrebbe essere appassionato, abile e competente solo sul caffè e non sul tè?"

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MILANO – David Veal è stato direttore esecutivo della Speciality Coffee Association of Europe (SCAE) dal 2011 al 2018, ricoprendo anche il ruolo di ambasciatore esecutivo della SCA. Ora, il suo lavoro di comunicatore e promotore della qualità negli ultimi anni si è concentrato su un’altra filiera, che ha sempre punti di contatto con il chicco verde: il tè. Con lui si è parlato di questi temi, in qualità di direttore esecutivo dell’ESTA, European Speciality Tea Association.

Quando e con quali obiettivi è nata la European Specialty Tea Association (ESTA)?

“L’ESTA ha appena 5 anni e siamo una piccola organizzazione che sta ancora crescendo. Il mio background trova le sue radici nell’industria del caffè: quest’anno ho festeggiato 40 anni in questo settore e sono stato direttore esecutivo di SCAE fino al 2018.

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Quando me ne sono andato ho lavorato come consulente fino a quando ho partecipato ad un evento in cui si stava lanciando la European Specialty Tea Association (ESTA).

In quell’occasione hanno dichiarato apertamente di voler fare per specialty tea la stessa cosa che SCAE stava facendo per il caffè, così mi sono proposto di aiutarli a raggiungere l’obiettivo.

Dopo 5 anni ora contiamo circa 350 membri sparsi in 54 diversi Paesi del mondo, non solo in Europa ma anche in Brasile, Australia, Cina, India, Stati Uniti, Singapore, Sri Lanka.

Il mio impegno in questo progetto è decollato durante il Covid, perché tutte le mie attività di consulenza sul caffè che coinvolgevano i produttori alle origini, sono state interrotte. Così ho iniziato a lavorare con ESTA per aiutarli a crescere. Alcuni dei membri sono coltivatori di tè con sede nei Paesi produttori tradizionali, ma ce ne sono alcuni anche in Europa.

Speriamo di aprire presto un capitolo anche in Italia e di riunire produttori, negozi e distributori di tè per promuovere gli specialty tea.

Se da un lato ci sono molte differenze, dall’altro ci sono anche molte somiglianze tra queste due materie prime: il viaggio degli specialty tea sta iniziando ora ed è molto vicino a quello che gli specialty coffee hanno attraversato negli ultimi 30 anni.

Il potenziale degli specialty tea però potrebbe avere un impatto maggiore: ad esempio, se si va a parlarne a qualcuno in Cina o in Giappone, non capirà questa definizione perché ha già una lunga tradizione in questa bevanda e ogni tè che beve è già speciale.

Questo è molto importante per noi.

D’altra parte, c’è anche il tè della cultura occidentale, che è molto importante per il settore. Abbiamo anche notato un movimento al di fuori di questi due scenari, ovvero il settore più ampio dell’ospitalità, sempre più interessato a un tè migliore, a comprendere la provenienza della materia prima, ai concetti come quello di terroir.

Per questo motivo, come Associazione, due anni fa abbiamo introdotto il concept di Tea Barista: la parola “barista” nel tempo è diventata equivalente alla parola “caffè”, ma abbiamo pensato “perché un buon barista dovrebbe essere appassionato, abile e competente solo sul caffè e non sul tè?”.

Ecco perché vorremmo introdurre il tè anche nelle caffetterie specializzate e stiamo già spingendo questa iniziativa”.

È difficile dare una definizione di specialty tea: quale avete adottato e condiviso?

“Il settore del caffè e la stessa organizzazione non hanno ancora trovato un accordo su una definizione univoca: non c’è ancora neppure per il settore del tè.

La definizione americana di specialty coffee si basava sul sistema dei punteggi ed era diversa da quella europea, che si concentrava maggiormente sull’esperienza in tazza: si può avere un caffè con un punteggio di 95, ma poi si dovrebbe considerare che questo deve poi essere trasportato, tostato, macinato e infine preparato. In tutti questi processi, ciò che all’inizio era uno specialty, alla fine potrebbe essere completamente rovinato.

Succede qualcosa di simile nel tè, anche se la sua lavorazione avviene all’interno o vicino alla fattoria e quindi ci sono meno cose che possono andare storte. Il tè viene solo preparato.

Abbiamo quindi costituito un gruppo di esperti della bevanda e ci siamo resi conto subito che sarebbe stato molto difficile dare una definizione unica, dal momento che ci sono così tanti punti di vista diversi.

Per questo ne abbiamo data una più descrittiva con cui la maggior parte delle persone sarebbe stata d’accordo. Quindi per riassumere, si tratta di una domanda difficile e di un’altrettanto difficile risposta.

Parliamo di un problema più ampio, perché se non si riesce a definire il prodotto, non si può misurare il mercato. Purtroppo è una parte della questione, perché è molto soggettivo e personale dire qual è la differenza tra un tè cattivo e uno buono.

Dall’altra parte, certamente il sistema di classificazione del caffè, chiunque lo utilizzi (CQI, Cup of Excellence, SCA) è stato eccellente nell’aiutare gli specialty e soprattutto nel sostenere i produttori. Per quanto riguarda il tè però, non siamo ancora arrivati a questo punto, anche se ci sono già piccole iniziative ed esperimenti per cercare di introdurre un sistema di classificazione per gli specialty tea.

Siamo ancora troppo piccoli e giovani per farlo da soli, quindi stiamo collaborando con altri per studiare un sistema di classificazione adeguato che possa coinvolgere sia i coltivatori che i consumatori”.

L’intervista completa e in lingua originale, a questo link.

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