giovedì 18 Aprile 2024
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CASO REPORTER – Noi, che siamo devoti alla liturgia del caffè napoletano Che errore intellettualizzare la tazzina… La felicità è una questione di proporzioni

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di LUIGI PINGITORE di Parallelo 41

Chi scrive qui non è mai stato particolarmente indulgente verso gli stereotipi auto-consolatori tipici della napoletanità, però con questa storia che a Napoli il caffè in fondo non è così buono si è superato il limite. E allora una vampa di calore, simile al manico della tazzina estratta dall’acqua bollente, mi risale lungo la schiena.

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Siccome in città è venuto Andrej Godina, responsabile per l’Italia della “Coffe Education di Scae” (Speciality Coffee Association of Europe), e siccome questa persona ha così detto: “È rancido, legnoso e terroso gli do tre e mezzo” noi che dovremmo fare? Buttare quelle sacrosante 4-5 tazzine al giorno a mare con tutti i panni?

Probabilmente questo signor Godina si è accomodato per qualche secondo in un bar o due, si è divertito a guardarsi attorno, a qualcuno avrà pure sussurrato cosa fa nella vita, gonfiando un minimo il petto per cotanto ruolo, e poi si è preso il suo caffè. Insomma ha intellettualizzato il problema. Errore madornale, dal momento che il caffè – almeno il caffè per grazia di Dio – è tutt’altro che una questione intellettuale. Il caffè ha a che fare col piacere di vivere, è una pausa lussuriosa nel mezzo della stanchezza della realtà, è una scossa di piacere simile all’orgasmo, è una vibrazione che rimette in moto tutti i sensi. Il tatto – perché la tazzina è rigorosamente bollente. L’olfatto – perché il caffè a Napoli si beve innanzitutto col naso prima che con la bocca – e quindi subito dopo il gusto. E qui che ve lo dico a fare? Se uno sente il legno invece della bellezza sarà pure un problema suo. Poi la vista ovviamente, e qui mi commuovo particolarmente perché a Napoli il caffè è una questione di equilibrio, di misura, di grazia. Il caffè napoletano rispetta le proporzioni, come i Greci, nostri progenitori mediterranei, ci avevano insegnato a fare. Perché la felicità è una questione di proporzioni. Noi mediterranei avevamo il Partenone, mica l’Empire State Building. Noi volevamo rimanere stupiti ma non schiacciati. E allora vuoi mettere quella giusta quantità sul fondo della tazzina con i beveroni americani! Ok, ma l’udito, direte voi?

Ma dopo una-due tazzine, il mondo si riassesta su una melodia più accettabile. Persino il caos vocale che abbiamo attorno in quegli istanti in cui sorseggiamo il delicato nettare nerastro assomiglia a una sinfonia di significati che possiamo finalmente intercettare.

D’altronde il signor Godina è un tipico rappresentante di questo tempo così povero di scosse, un mondo dominato da chef, da assaggiatori che se ne vanno in giro per il mondo a degustare, sorseggiare, cucinare, mastercheffare, riducendo la questione cibo e affini a uno schema grossolano.

Lasciatecelo dire a questo signor Godina che sulle capacità edonistiche della città bisogna che il mondo impari. Napoli può aver perso tutti i propri primati, ma quello dell’elargizione gratuita di brevi momenti di felicità – epifanie le chiamano quelli che sanno usare le parole – no, su questo Napoli resta il posto più struggente al mondo.

E una tazza di caffè, in piedi, o seduti a uno dei mille tavolini accomodati in faccia al sole, resta uno dei piaceri più alti che si possano consumare. Ci dispiace se il signor Godina non abbia colto questa poesia del piacere; certo che se ha educato il proprio naso alle torbiere inglese servite in acqua tiepida, ai beveroni bruciacchiati della Francia e del nord Italia, se nelle sue narici e nella sua gola si è insinuata suo malgrado un po’ di frigidità, non è colpa sua.

Si prenda qualche giorno in più e se ne vada in giro per Napoli a sciacquarsi i sensi e a purificarli. E poi torni a prendere dopo tre giorni di astinenza dalle brodaglie bevute per tanto tempo il caffè napoletano. Vediamo se lo sente ancora “… rancido”.

E se non vuole credere a me che in fondo come tutti i napoletani sono un devoto ossesso alla liturgia del caffè, può dare un’occhiata a un delizioso scritto di un mio caro amico spagnolo, José Vicente Quirante Rives, che ha vissuto a Napoli abbastanza per voler scrivere:

“A Napoli il caffè è affar serio. È il carburante indispensabile per sopportare i ritmi di una città frenetica nella quale è difficile orientarsi. I Mexico sparsi per la città sono oasi nelle quali rifugiarsi quando Napoli opprime (e Napoli spesso opprime) alla ricerca di un po’ di calore, di comprensione, di un sorriso, di forza per poter andare avanti. Di simpatia, nel senso nobile e greco della comunione di sentimenti”

Io spesso penso a Vicente e mi piacerebbe potergli dire come facevamo a Napoli “dai, ci vediamo tra cinque minuti per un caffè”.

Fonte: http://www.paralleloquarantuno.it/articoli/noi-che-siamo-devoti-alla-liturgia-del-caffe-napoletano.html

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