domenica 14 Aprile 2024
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Caffettometro: questa l’unità di misura del Fisco per monitorare il reddito di un bar di Lucca

Il poeta inglese Thomas Eliot disse di aver misurato la sua vita a cucchiaini di caffè. Ma lui non abitava in Italia, e non avrebbe mai immaginato che circa due-tre grammi di polvere avrebbero dato il via a un nuovo mostro del Fisco, il Caffettometro

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MILANO – Ritorna, stavolta a Lucca, un metodo molto discusso, e sempre condannato dalla Giustizia, per misurare la temperatura finanziaria degli imprenditori, adottato dall’Agenzia delle entrate nel tener d’occhio lo stato attuale in cui versa il settore della ristorazione. Stiamo parlando del Caffettometro, lo strumento su cui si basa il Fisco per comprendere a che punto sta un’attività. Una sistema noto ma non molto frequente, raccontata nell’articolo di Marco Lombardo su ilgiornale.it.

di Marco Lombardo

Il poeta inglese Thomas Eliot disse di aver misurato la sua vita a cucchiaini di caffè. Ma lui non abitava in Italia, e non avrebbe mai immaginato che circa due-tre grammi di polvere avrebbero dato il via a un nuovo mostro dell’ormai mitologico Fisco nostrano, ovvero il Caffettometro.

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Già: perché non bastava lo Spesometro o il Redditometro, ma anche dentro una semplice tazzina da bar arriva il naso dell’Agenzia delle entrate per monitorare l’attività di ristorazione. E il senso è sempre lo stesso: tu, contribuente, hai sbagliato. Per carità: c’è chi sbaglia apposta. Ma per provarlo, dice una sentenza della Cassazione del 2018, «la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa… è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate…». Ecco, in questo caso secondo il Fisco per una tazzina di caffè ci vogliono 8 grammi precisi di polvere, considerato che 2-3 appunto cadono a colpa dello sfrido, il residuo della lavorazione.

E il Caffettometro – vero mostro anche lessicale – non mente

Ancor più, poi, nel recentissimo caso di un bar di Lucca, il cui proprietario è stato accusato di aver omesso 122mila euro di incassi. Adducendo il fatto che i suoi dipendenti si ristoravano tra un momento di lavoro e l’altro con più di un caffè a turno. Impossibile, no? Per fortuna questa volta è intervenuta la Commissione tributaria locale dandogli ragione: «Non è fatto notorio – ha scritto – che nelle aziende sia consentita solo una pausa caffè. Il parametro adottato è privo della dignità logica». E il risultato è che l’Agenzia delle entrate è stata condannata a pagare 4mila euro di spese legali.

Però, state certi, sarà per un’altra volta, perché certi mostri in Italia non si arrendono mai. Al limite fanno giusto una pausa. Caffè.

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