giovedì 11 Aprile 2024
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Ima, Vacchi: «Digitalizzazione può essere un’opportunità per le reti d’impresa»

L'imprenditore, che è a capo del colosso bolognese delle macchine automatiche, non crede che il Covid metterà fuorigioco il nostro export ma avverte sui rischi del cambiamento. Ecco il suo punto di vista su ciò che potrebbero essere le prospettive future

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MILANO – L’esplosione del Coronavirus a livello mondiale, ha scombinato i piani per molti imprenditori, medio-piccoli e anche grandi. Le difficoltà sono state tante e ancora non sembrano esser terminate: in gioco c’è la ripartenza dell’intera Italia, a cominciare da alcuni dei marchi che ne ha trainato sino ad oggi l’economia. Tra questi, Ima Group, capitanato da Alberto Vacchi: leggiamo la sua intervista per repubblica.it di Luca Piana.

Vacchi: il futuro è da conquistare

Tra le guerre commerciali degli ultimi anni e la pandemia che ha chiuso le frontiere, in questi mesi molti osservatori hanno affermato che la globalizzazione, così come l’abbiamo conosciuta, è finita. Per l’Italia, che nel 2019 era stata capace di esportare beni per 475 miliardi di euro e di certo non può reggersi sui consumi interni, uno scenario come questo potrebbe apparire un incubo, una mutazione in grado di travolgere quelle aziende nazionali che hanno imparato a cavalcare alla grande gli scambi internazionali delle merci.

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«No, non credo che ci sarà una nuova estinzione dei dinosauri. Il nostro sistema imprenditoriale è un sistema evolutivo, ci adatteremo al cambiamento».

Chi parla è Alberto Vacchi, presidente e amministratore delegato della Ima di Bologna

Un gruppo che nel 2019 ha realizzato all’estero il 90 per cento circa del suo giro di affari di 1,59 miliardi di euro. Progetta e produce macchine automatiche per il processo e il confezionamento di farmaci, cosmetici e alimentari, e racconta di «ascoltare con molto realismo» le visioni di chi descrive un mondo che starebbe smarrendo le dinamiche della globalizzazione: «Gli eccessi degli anni passati meritano critiche, e il tema dei migranti è forse il caso più epocale, ma pensare che tutto cambierà è certamente lontano dal vero. Ci saranno cambiamenti progressivi, che faranno vittime e nuovi ricchi. Ma la rete globale degli scambi resterà il fulcro del modello, basti pensare al flusso cresciuto insieme al progredire della digitalizzazione, del web».

Con la pandemia in corso molte aziende hanno accelerato i processi di digitalizzazione che avevano avviato.

È un rischio o può essere un’opportunità per il sistema produttivo italiano?

«Le racconto quello che è successo da noi. Tre anni fa avevamo lanciato un programma, chiamato Ima digital, per tracciare la nostra via all’industria 4.0. Abbiamo lavorato sui flussi delle informazioni, sui sensori di nuova generazione, sulle macchine connesse, ma anche sull’organizzazione aziendale, sulle reti interne e sulle relazioni con i clienti. Questo ci è servito nella fase del Covid-19. Abbiamo avuto oltre 500 persone da subito in smartworking e sperimentato un nuovo modo di interagire con i clienti, ad esempio nelle fasi di collaudo, senza che i nostri addetti dovessero viaggiare.

Il risultato è stato che i mesi di aprile e maggio per noi non sono stati molto diversi rispetto a un anno fa. Queste innovazioni lasceranno traccia, rappresenteranno un aspetto dell’evoluzione, ma dovranno porsi al servizio di un mondo globale più intelligente, solidale e rispettoso dei bisogni locali, altrimenti il partito dei contrari crescerà».

L’economista Patrizio Bianchi ha affermato che oggi “viaggiano i dati, non il ferro”. È una formula che si adatta anche a un gruppo come Ima?

Alberto Vacchi:«È un’osservazione che simboleggia l’evoluzione di cui parlavo. Viaggiano i dati certo, ed in una rete sempre più globale. Oggi con le innovazioni che abbiamo introdotto riusciamo a controllare da remoto le nostre macchine molto più di quanto accadesse in passato. Se ci sono aggiustamenti da fare, in alcuni casi possiamo intervenire senza spostarci da Bologna. Alla fine, però, si muove anche il ferro, perché le linee automatizzate che costruiamo partono dalle sedi produttive e vanno in tutti i continenti. Ripeto, vedremo una serie di cambiamenti, vincerà chi li guiderà e li anticiperà».

La chiusura delle frontiere ha messo in crisi le catene dei fornitori, sempre più distribuite in diversi Paesi. Questo cambierà?

«Non credo, perché le catene globali rappresentano uno dei fattori che più hanno contribuito al grande salto innovativo del sistema industriale negli ultimi vent’anni. Noi abbiamo una rete di decine e decine di fornitori, una quarantina dei quali sono strettamente connessi a noi e generano ormai 250 milioni di ricavi l’anno. Con circa mille addetti. Senza questo sistema non saremmo riusciti in poche settimane a progettare le 25 macchine per la fabbricazione di mascherine protettive monouso, che inizieremo a consegnare alla Protezione civile in questi giorni.

Certamente l’industria italiana ha delle caratteristiche che la rendono molto resistente, e che continueranno a valere anche in futuro. Il punto è diverso: dobbiamo chiederci se l’Italia nel suo complesso avrà le energie per affrontare i cambiamenti che l’aspettano, e qui è evidente che serviranno degli stimoli. Sono vent’anni che la nostra economia va male, per cui adesso saremo costretti a cambiare qualcosa. Penso alle piccole e medie imprese, che hanno l’opportunità storica di aprire il capitale e di crescere: ci sono stimoli economici molto importanti, e sui mercati la liquidità a cui si può accedere è già enorme così, e crescerà sempre più».

È stato detto che all’Italia non basta tornare come prima, perché l’aumento del debito pubblico ci obbliga a essere meglio di prima.

Alberto Vacchi, lei pensa che il Decreto rilancio possa aiutare il sistema produttivo italiano a cambiare passo?

«Gli strumenti offerti dal decreto sono utili ma la situazione è molto grave. Il vero cambio di passo deve farlo la pubblica amministrazione. La differenza rispetto agli altri Paesi, che hanno saputo mettere subito a disposizione delle imprese gli aiuti previsti, è una ferita profondissima.

È chiaro però che anche le aziende devono darsi da fare parecchio, investire in innovazione e aumentare la competitività. Le imprese più avanzate ci sono arrivate ormai da anni. Dobbiamo fare in modo che lo facciano anche quelle più piccole, perché per fronteggiare un mercato che si fa sempre più complesso ci vogliono dimensioni adeguate. In questo senso la digitalizzazione può essere un’opportunità, perché avvicina ulteriormente quelle reti di imprese che esistono già sul nostro territorio».

Il ministero dello Sviluppo economico ha appena varato il piano per la transizione 4.0, focalizzato sul credito d’imposta per gli investimenti in beni strumentali, per la ricerca e sviluppo, l’innovazione e il design, la formazione. Come lo giudica?

Ha nostalgia del vecchio piano Industria 4.0, che prevedeva una misura di successo come il superammortamento per gli investimenti?

Conclude Alberto Vacchi: «Ho un giudizio positivo, perché si colloca in continuità con il piano precedente e gli dà una dimensione più stabile. Per un po’ di tempo sarà fondamentale che lo Stato aiuti gli investimenti nel digitale».

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