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SENIGALLIA – Alberto assieme alla moglie Michela è il co-fondatore e chocolate maker di Chocolate For Family, impresa che produce cioccolato bean to bar, ovvero dalla fava alla tavoletta. Con lui, è stato possibile fare il punto della situazione rispetto al mercato.
Innanzitutto, il bean to bar esiste ancora o è diventata solo un’etichetta pubblicitaria?
“Originariamente il Bean to bar è stato un movimento in cui un artigiano si rende totalmente indipendente a livello produttivo, cioè è in grado di realizzare una tavoletta ad esempio, acquistando le fave di cacao. In genere si occupa di piccoli volumi, che si chiamano small o micro batch. Per operare in queste modalità, si devono affrontare due difficoltà principali: in primis, è fondamentale avere un’ottima conoscenza della materia prima, sapere da dove partire.
Ancora oggi c’è poca conoscenza del cioccolato nel mondo della pasticceria e non basta sapere cosa sia il prodotto finito, bisogna invece conoscere tutta la fase precedente, dalla genetica alla fermentazione e quindi essere degli esperti di cacao. Ci deve poi essere una buona conoscenza anche di tutto il processo di trasformazione dalla selezione della materia prima, alla tostatura, sino al concaggio.
Altra difficoltà arriva sul piano della comunicazione: di base questo prodotto ha un prezzo più alto e questo va spiegato adeguatamente al consumatore finale, che sia il retailer o il professionista. In questo senso, il progetto TOO BRAVE che abbiamo fatto partire (di cui è possibile leggere qui) è dedicato proprio agli addetti ai lavori che pongono attenzione al valore degli ingredienti.”
Capitolo attrezzature: un chocolate maker cosa deve avere nel suo laboratorio?
“Si parte dalla tostatura, che spesso viene svolta impiegando dei macchinari simili a quelli usati per il caffè, poi si passa alla decorticazione per separare la buccia del cotiledone dei semi, una pre raffinazione con un mulino a pioli o elicoidale, una seconda raffinazione a biglie o a cilindri e infine un terzo step che è il concaggio. Per ciascun passaggio, sono necessarie delle attrezzature dedicate.
Per esperienza però, vorrei dire che l’attrezzatura non fa la differenza: la genetica gioca il 25%, un altro 25% è dato dalla fermentazione e il 30% lo fa la tostatura.
Il resto è legato alla lavorazione successiva, ovvero il concaggio, il bilanciamento della ricetta, le tecnologie applicate.
L’industria ha focalizzato l’attenzione sulla tecnologia, ma nel bean to bar questa dà solo un valore aggiunto, senza essere l’elemento fondamentale. Se si parte da un cacao cattivo, è impossibile ottenere un ottimo cioccolato, nonostante gli strumenti a disposizione.”
E un buon cacao cos’è?
“Deve innanzitutto presentare delle note aromatiche molto gradevoli, come le floreali e fruttate, non dev’essere perciò amaro, astringente e non deve lasciare degli off flavours. Consideriamo che la maggior parte del cacao prodotto, essendo quotato in Borsa da moltissimi anni e dà poco reddito al coltivatore, da decenni ha fatto sì che vengano piantate genetiche con alta produttività e scarse qualità aromatiche.
Normalmente si tratta di cacao molto amari ed astringenti. Inoltre, la fermentazione viene fatta da ogni singolo agricoltore e se pensiamo che, in tutto il mondo, il 90% viene coltivato da piccole aziende a conduzione familiare di 1-5 ettari se non meno, ognuno procede con la propria fermentazione in modo autonomo e lo fa nei 3-6 mesi di raccolta.
Questo significa che in una tonnellata di cacao, ci possono essere anche 20 fermentazioni spontanee differenti. Si può immaginare quanto sia difficile gestire la qualità del cacao greggio. Specifichiamo poi che l’amarezza è un difetto, l’amaricante è un pregio: la prima è qualcosa che persiste e dà fastidio, la seconda è una parte amara piacevole che lascia subito il palato.
Tutti i nostri cioccolati nell’after taste lasciano la bocca pulita.
Circa il 60-65 % del cacao è impiegato per creare la polvere, che richiede un impegno minore in ricetta e, grazie all’alcalinizzazione, dà maggiore resa di colore e gusto e viene impiegata nelle creme da spalmare, gelati, biscotti, surrogati, dessert…”
Quanto deve costare oggi un buon cioccolato, una tavoletta?
“Una tavoletta da 70 grammi non può costare meno di 8-10 euro. Bisognerebbe collegare però il costo ad un discorso di qualità: dichiarare le origini del cacao, impostare la discussione sul piano della tracciabilità e della storia di un’azienda. Informarsi sull’impresa che produce, avere un contatto diretto con essa, permette di capirne le modalità di lavoro che determinano il prezzo finale. Invitiamo per questo, anche erogando formazione ai nostri rivenditori, a visitare i nostri laboratori per mostrare la nostra professionalità.
Attenzione poi alla degustazione: la tavoletta non deve presentare note sgradevoli e deve contenere degli ingredienti specifici, come massa di cacao, burro di cacao e zucchero. Se ci sono gli aromi o il cacao in polvere, è già una spia sulla qualità del prodotto.
La percentuale che molti guardano nel packaging, non dice molto del livello della materia prima e degli ingredienti usati.”
Qual è il prodotto che va di più adesso?
“Tutti i nostri monorigine. Ancora una volta è la cosa più conosciuta ed è la più facile da comunicare: ne lavoriamo in purezza una trentina e questo piace. Brave Beans, il nostro brand dedicato esclusivamente al monorigine in tavolette da 12 grammi, riscuote molto successo e tutti i clienti, più o meno preparati, hanno apprezzato.
Per ottenere questo risultato, abbiamo dovuto insistere molto sull’educazione: per dare un’idea sulla totale disinformazione, non saprei neppure bene indicare il numero esatto di bean to bar in Italia. Potrei azzardare a dire che sono una ventina, ma parliamo di un segmento in evoluzione e poco tracciato e, soprattutto, non regolamentato da alcuna legge/normativa/disciplinare che definisca questo genere di impresa.
Ad oggi, anche la grande industria si può etichettare come bean to bar.
La comunicazione poi è sempre una chiave importante per emergere. La qualità è un tema un po’ difficile: c’è quella estrinseca che è misurabile con un’analisi e poi quella individuale legata al background e al gusto del cliente. È una parola molto abusata.
Che effetti ha sul vostro mercato più di nicchia, l’aumento spropositato dei prezzi?
“Non siamo mai stati legati alle quotazioni di Borsa e abbiamo sempre pagato in passato già 7 volte di più la nostra materia prima, mentre ora “soltanto” un 50% in più: la differenza tra il cacao premium e quello commerciale si è assottigliata.
Vedo questo fenomeno come un’opportunità per noi piccoli artigiani, per due motivi: il primo è che si torna a parlare di cacao e si comprende che è un prodotto agricolo.
Aumentando il costo del cacao quotato in Borsa, anche i piccoli produttori che devono fronteggiare una grossa richiesta, hanno stabilito cifre più alte: noi siamo già in linea con i prezzi, subiamo meno il gap sulla spesa da sottoporre al consumatore finale. Rimane per noi un problema più legato alla disponibilità: sono in contatto con diverse cooperative che non sanno come fronteggiare la grossa domanda. La speculazione nasce così e colpisce un po’ tutti. Ora faccio fatica a trovare alcune origini.
È una situazione che secondo me durerà altri anni: l’industria sta perdendo grandi volumi e la sola cosa che si può fare al momento è diminuire ulteriormente la quantità di cacao nelle ricette, trovare dei sostituti alla polvere o addirittura cambiare commodities su cui investire. Sono rimasto molto colpito da come il mercato sia cambiato nel giro di un paio d’anni. L’opportunità sta nell’intercettare i consumatori che cercano prodotti particolari, piacevoli.”
Come vede il cacao e il cioccolato del futuro?
“Credo che seguirò il percorso di altri prodotti: se ne si consumerà di meno, ma di più buono. Ne è un esempio il vino che ha conosciuto un nuovo slancio diversi anni fa. Sono molto positivo su questo, in primis perché l’opinione pubblica ne parla di più e oggi tanti sono i clienti che arrivano da noi più preparati.”
Ma un’attività come la vostra, è sostenibile economicamente?
“Dall’inizio del 2021 a oggi siamo stati una startup, senza dipendenti a carico e portando parallelamente il mio lavoro da consulente. Dal 2023, siamo partiti come azienda vera e propria, diventando 4, esternalizzando la parte di grafica e comunicazione. Il cioccolato di qualità, intendiamoci, si può fare anche in grandi volumi: non sono le dimensioni il discrimine.
Facciamo il parallelo tra il vino e la birra: la seconda non la paga nessuno 50 euro. Il cioccolato fa fatica ancora a togliersi di dosso la questione del costo da giustificare. Il frutto di quello che stiamo seminando oggi lo vedranno probabilmente le prossime generazioni e la quotazione in Borsa accelererà questo processo.”
“Cosa cambierà nel nostro mondo?”
“Vedendo gli ultimi anni , la quotazione in Borsa è cambiata come non si verificava da trent’anni. Mi pongo invece un’altra domanda, cioè, cosa non cambierà per il nostro amato cioccolato? Che avrà un ruolo maggiore del vino, perché consola, dà energia, non ha controindicazioni o effetti sul corpo deleteri. Con una piccola quantità, il cioccolato appaga. Questo suo ruolo, di premio, di coccola, non tramonterà mai e per questo si legherà il prodotto molto di più alla porzione: meno, ma con più soddisfazione.
Ad oggi abbiamo la maggiorparte della clientela in Italia, ma l’idea è quella di entrare nei mercati esteri. Ho scoperto, parlando con dei colleghi in Olanda o in Francia, che i produttori bean to bar sono legati alle realtà locali. Quando entrano in Italia, scompaiono in poco tempo.
Diversi di loro fanno numeri molto buoni nella loro zona ma diversamente qui da noi, non riescono a sfondare. Probabilmente noi riusciremo a fare l’opposto grazie al fascino del made in Italy, penetrando in mercati anche contradditori come gli Stati Uniti, proprio lì dov’è nata l’onda del bean to bar.”