giovedì 18 Aprile 2024
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A Napoli non solo tazzulella e Margherita: anche il cioccolato ha la sua storia

Le prime fabbriche napoletane che producevano solo cioccolato: le difficoltà della produzione. Il cioccolato veniva prodotto anche dai pasticcieri: quelli napoletani erano, in genere, più corretti dei pasticcieri di altre regioni italiane. La svolta segnata dalla “Belle ‘Epoque”

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NAPOLI – Quando si pensa a Napoli tutti ricordano principalmente a due cose: pizza e caffè. Due riti rappresentativi della città, al punto da esser stati portati di fronte all’Unesco come patrimoni culturali. Non molti però sanno che nello stesso luogo, esiste una tradizione che riguarda un altro prodotto goloso: il cioccolato. Leggiamo un po’ di questa storia dal sito ilmediano.com.

Cioccolato: un tesoro partenopeo

Dai verbali dell’Amministrazione Provinciale di Napoli risulta che nel 1872 in città solo due “fabbriche” producevano “esclusivamente” cioccolato: la “fabbrica” del francese Aleonard e quella di Jesu. L’officina Aleonard, fondata nel 1844, si trovava al confine tra Napoli e Barra, possedeva una sola macchina per la lavorazione del cacao, dava lavoro a cinque operai, vendeva la sua produzione solo in città, e, come dice uno storico del tempo, produceva cioccolato “di pregiatissima qualità”. Soprattutto perché, “ad evitare le possibili frodi le quali si consumano in Dogana nell’acquisto del cacao – frodi facilissime per le molte qualità di questo coloniale – l’Aleonard lo fa venire direttamente da Marsiglia e da Bordeaux.”.

Il prezzo di questo cioccolato era alto: 300 grammi potevano costare fino a lire 2,80, “mentre altrove lo si può ottenere anche a 60 cent.”. Conviene ricordare che nel 1870 un Kg. di maccheroni di fiore di saragolla costava 48 centesimi, un chilo di pane bianco costava intorno ai 40 cent., e, dunque, per comprare insieme un chilogrammo di maccheroni di saragolla e un chilogrammo di pane bianco un bracciante avrebbe speso un terzo del suo salario giornaliero.

L’officina del sig. Jesu, aperta nel quartiere Porto nel 1867, impiegava le macchine più moderne e esportava il cioccolato anche nell’Italia centrale

Avrebbe potuto produrre quantità di cioccolato ancora più grandi, ma lo sconsigliò la concorrenza dei molti pasticcieri napoletani che fabbricavano cioccolato “anche con metodi primitivi nello schiacciare la mandorla di cacao e nel mescolare la pasta: il tutto si esegue a braccia d’uomo”.

I cronisti dell’epoca descrivono minuziosamente le diavolerie escogitate dai pasticcieri del resto d’Italia che cercavano di produrre cioccolato al minimo prezzo: non si contavano gli interventi delle autorità che tentavano di impedire gli imbrogli, spesso dannosi per la salute dei consumatori: si usava di tutto: farine, fecole, bucce di cacao, fichi secchi. In quegli stessi anni non c’era Comune che non ricordasse nei suoi “Regolamenti” che “per abbellire le confetture non sarà fatto uso di alcun metallo, eccettuato l’oro e l’argento in foglie. Si vieta pure l’uso degli acidi minerali per la preparazione dei gelati e delle limonate.

Sarà proibita la vendita delle paste, dolci, bomboni, zuccherini e confetture se colorati con le sostanze vegetali di azione nociva (giallo di gomma gutta, rosso di filolacca ed azzurro di acconito napello) e molto più se la loro colorazione proceda da composti minerali, quali il verde di Vienna, il verde di vita, e altri consimili minerali di azione venefica”. Nel 1868 era stato arrestato, a Napoli, l’amministratore dell’Albergo dei Poveri, che nella lavorazione del pane faceva adoperare, invece del sale, “l’acqua di mare che si prelevava alla Marinella”.

Ma torniamo al cioccolato

E diciamo che, secondo le relazioni dell’Amministrazione provinciale, tra il 1870 e il 1872, i pasticcieri napoletani nel produrre il cioccolato non usavano le “impure miscele” adoperate dai loro colleghi nel resto d’Italia, anche perché, per adoperarle, erano in ogni caso necessari “congegni meccanici”, anche costosi.

Tutt’al più usavano dosi eccessive di farina e il cacao di seconda scelta. Ma tra il 1885 e il 1890 la situazione cambiò di colpo: i dazi sul cacao divennero molto più leggeri, vennero costruiti congegni meccanici più efficienti, più maneggevoli, meno costosi, e, soprattutto, il cioccolato divenne uno dei simboli della “Belle Epoque”.

Tutte le pasticcerie più importanti di Napoli produssero il “proprio” cioccolato e ne affidarono la pubblicità ai giornali, ai poeti, alle signore dell’alta società, ai dandy.

Ricordiamo qualcuna di queste pasticcerie che nel 1903 “fabbricavano cioccolatta”

“I fratelli Ascione”, al Molo Piccolo; “Caflish” a Via Roma e a Chiaia; “Errico Ciaburri” che teneva stabilimento a Poggioreale e magazzino a Piazza Mercato; “Gay F. &C.ia di Torino”, a piazza Carolina; “Odin I.”, in via Nuova Pizzofalcone; “Alberto Pons”, in via Roma: le sue specialità erano i “cioccolatini Fantasia e gianduia” e il “torrone al cioccolato”; la “Ditta Sgambati” in piazza Tribunali; “Van Bol& Feste”, “fornitori della Real Casa”, con sede principale e laboratorio in via S. Anna di Palazzo e con magazzino in Piazza San Ferdinando.

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