domenica 14 Aprile 2024
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Come la scelta di una confezione di caffè passa dalla percezione del brand che più ci emoziona

Vendere un prodotto significa vendere storie, emozioni condivise come paura, gioia, solidarietà, empatia. Ad esempio gli spot natalizi di grandi brand come John Lewis, CocaCola o Erste Group puntano su una narrazione totalmente emotiva volta sulla nostalgia, sugli affetti familiari, sui ricordi, sull’amicizia. Emozioni che la maggior parte di noi condivide e sente proprie (anche per il particolare momento dell'anno) immedesimandosi nello storytelling

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MILANO – Vi siete mai chiesti come mai preferite un marchio rispetto a un altro per lo stesso prodotto? Caffè Borbone o Kimbo? Caffè Vergnano o Costadoro? A volte è semplicemente questione di gusti e si preferisce una soluzione all’altra seguendo, nel caso del caffè, i sensi e il gusto. Ma tante altre si tratta di una buona campagna di comunicazione del brand, che attirano i consumatori più da una parte che dall’altra. Leggiamo su questo tema, dall’articolo di Urania Frattaroli su ninjamarketing.it.

Brand: come si orientano le preferenze

Siamo abituati a pensare che le decisioni che portano a compiere l’acquisto di un prodotto siano il frutto di scelte razionali. E se invece a scegliere fossero le emozioni?

Il processo decisionale non segue un percorso lineare, non è totalmente il risultato di ricerche e analisi di mercato fondate sulla funzionalità del prodotto e sulla semplice necessità personale. O almeno, non è più così.

Il marketing è da sempre concentrato sullo studio dei consumatori, sui loro desideri e sulla percezione che questi hanno nei confronti dei brand. Negli ultimi anni la guerra dei marchi per differenziarsi dalla moltitudine è diventata spietata con i nuovi canali di comunicazione. Il problema fondamentale rimane quello di catturare l’attenzione, farsi ricordare, diventare un modello e infine entrare nelle nostre case. Costruire e mantenere la propria awareness è il compito più difficile per i brand.

La rivoluzione dei consumatori

Noi consumatori, del resto, siamo diventatati più furbi e più pretenziosi rispetto alle nostre esigenze. Non ci accontentiamo più dei messaggi unidirezionali, abbiamo spodestato il brand dal suo trono e lo abbiamo voluto mettere al nostro pari. Tempestati per anni da loghi, messaggi e immagini abbiamo ormai affinato le nostre preferenze e i nostri valori, imponendo le nostre personalità.

Ovviamente, in questa evoluzione le aziende hanno dovuto rivalutare le loro certezze, i loro studi ed anche le loro teorie economiche

Le ricerche di mercato di tipo quantitativo trovano ormai uno spazio molto ristretto per intuire i comportamenti di acquisto. A muovere le preferenze sono le scelte personali legate al legame emotivo con il brand attraverso la condivisione dei valori, della sua storia e alla manifestazione che l’azienda ha rispetto ai cambiamenti sociali e alle evoluzioni culturali.

Basti pensare a Gucci con le sue modelle lontane dagli stereotipi di bellezza, a Dove con le sue testimonial rispecchianti la vera società fatta di donne normalmente “imperfette”. Come anche Nike: ricordiamo i manichini plus size o i diversi spot contro gli stereotipi o a favore dell’inclusività.

Scelte razionali di cuore del brand

Nel 1975 la Pepsi Company decise di avviare una ricerca di mercato per provare a spodestare la Coca-Cola dal primato dei soft drink. L’esperimento prevedeva l’offerta di due bicchieri anonimi di bevande (uno contenente Pepsi e l’altro Coca-Cola) a qualsiasi cliente dei supermercati di tutto il mondo, chiedendo quale bevanda fosse migliore. La raccolta dei dati fece ipoteticamente ben sperare in vendite superiori per Pepsi. Ma non andò così. Perché?

Nel 2003 il direttore dello Human Neuroimaging Lab di Houston riprese lo studio ma cambiando la modalità di raccolta dati. Decise di utilizzare su diverse persone l’fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale) macchinario in grado di guardare all’interno del cervello umano, illuminandosi esattamente dove si verifica l’attività cerebrale in risposta ad uno stimolo. Durante la prima somministrazione di bevande anonime, il dottor Montague confermò le preferenze per Pepsi. Ma alla seconda somministrazione, dichiarando prima i nomi dei brand, il 75% delle preferenze andò invece a Coca-Cola. L’attività cerebrale “accesa” indicava la predominanza del pensiero emozionale.

L’esperimento di neuromarketing ha osservato come, sebbene il gusto più gradevole a livello inconscio fosse quello della Pepsi, le emozioni suscitate da Coca-Cola prevalevano sulla preferenza.

Da qui, le tecniche delle neuroscienze (come l’fMRI) sono state ampiamente usate nel marketing e nella comunicazione per osservare la percezione di un prodotto o l’efficacia di una campagna pubblicitaria.

Le emozioni scavalcano il prodotto veicolato dal brand

L’esperimento Pepsi-Coca-Cola ha dimostrato come la percezione di un brand possa influenzare inesorabilmente le nostre preferenze.

Un marchio che ci coinvolge emotivamente attraverso i suoi aspetti, che siano i colori, i ricordi suscitati, la musica, l’immedesimazione, sarà quella spinta invisibile, anzi irrazionale, che ci farà allungare la mano verso quel determinato prodotto. Ce lo ricordano ad esempio Harley-Davidson o P&G.

La leva è sì quella delle emozioni, ma da ricercare anche (e soprattutto) nella sfera sociale ed individuale. E questo, le aziende e il marketing lo hanno ben capito, trasformando la loro comunicazione verticale in una alla pari, vicino ai pensieri, a ciò che provano gli individui.

Da qualche anno assistiamo ad un cambiamento di ruolo dei brand, volto a supportare le persone nell’espressione della propria identità, composta da un lato dall’appartenenza ad una comunità o ad uno stile di vita, dall’altro da una sfera prettamente personale in cui affermare la propria individualità. Dal canto loro anche i brand definiscono la loro identity manifestando i loro valori per acquisire fiducia e fidelizzazione di uno specifico pubblico che si riconosce in essi.

Acquistare un brand oggi significa acquistare la storia, i valori e tutti gli elementi dello stesso. Una sorta di amicizia tra marca e individuo in cui ritrovarsi a vicenda, affidare le insicurezze per sentirsi meno vulnerabili. Si capisce che la relazione è di tipo emotivo, in cui la funzionalità del prodotto passa in secondo piano rispetto alla condivisione, rispetto alla persona.

Scegliamo noi stessi

Vendere un prodotto significa dunque vendere storie, emozioni condivise come paura, gioia, solidarietà, empatia. Ad esempio gli spot natalizi di grandi brand come John Lewis, CocaCola o Erste Group puntano su una narrazione totalmente emotiva volta sulla nostalgia, sugli affetti familiari, sui ricordi, sull’amicizia. Emozioni che la maggior parte di noi condivide e sente proprie (anche per il particolare momento dell’anno) immedesimandosi nello storytelling.

Il prodotto non è il protagonista

Il messaggio emotivo si sviluppa insieme al racconto in cui si rivela alla fine con la realizzazione di un desiderio o di un bisogno grazie al prodotto. IKEA, ad esempio, fa emergere i sentimenti di nostalgia attraverso i ricordi. Momenti felici vissuti su una poltrona e che continueranno ad esistere dopo generazioni (grazie anche alla resistenza della poltrona).Un ulteriore esempio sono stati gli spot durante la prima ondata di Covid-19.

Tutto il mondo era coinvolto, le strade deserte, il silenzio delle città interrotto dalle sirene delle ambulanze. Le nostre emozioni erano negative, di paura, di solitudine. I brand si sono immedesimati con le nostre emozioni restituendoci spot che raccontavano di infermieri, corrieri, operai, persone sole in casa senza compagnia: raccontavano del vissuto delle persone. Ci hanno incoraggiato, hanno fatto sentire la loro presenza, hanno manifestato empatia.

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