giovedì 06 Novembre 2025

Gianluigi Goi parla della Palestina e caffè in risposta al racconto dell’Osservatore Romano “Una volta al posto del muro c’erano gli ulivi”

Considerazioni non banali del viaggiatore protagonista del “Racconto del Sabato” dell’Osservatore Romano “Una volta al posto del muro c’erano gli ulivi” a firma di Pino Petruzzelli (1962), inedito pubblicato lo scorso 13 settembre. Allievo del grande Andrea Camilleri, Petruzzelli è poliedrica figura di drammaturgo, regista, attore ed autore. Proveniente da Betlemme dove ha incontrato una dottoressa, medico, che l’ha messo di fronte alla dura e straniante realtà dei “muri fisici” che dividono gli ebrei dai palestinesi, il nostro viaggiatore sullo sherut che l’ha portato davanti al checkpoint militare conosce un artigiano palestinese, musulmano, specializzato nella produzione e vendita di oggettistica sacra cristiana, che lo gela dicendogli

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Gianluigi Goi è un nostro lettore nonché giornalista di fama riconosciuta; è affezionato a queste pagine alle quali, con la sua lunghissima esperienza e il suo punto di vista, ha contribuito diverse volte proponendo contenuti sempre intriganti.

Questa volta Goi parla della Palestina, ulivi e caffè, ispirato dall’illustrazione di Nicolò Turbesi e dal Racconto del Sabato “Una volta al posto del muro c’erano gli ulivi” a firma di Pino Petruzzelli (1962), inedito pubblicato lo scorso 13 settembre per l’Osservatore Romano.

Palestina, ulivi e caffè

di Gianluigi Goi

MILANO – “Stringe il cuore la costatazione, in questi tempi così angoscianti, che “una volta al posto del muro c’erano gli ulivi”. <Un uliveto va osservato tutto: dal cielo alla terra> asserisce con convinzione la poetessa Letizia D. e io, che “vorrei scrivere di olivi: / Di foglie argentate e impolverate. / Di tronchi torti, di ombre / con sprazzi di luce” non esito a confessare di soffrire: <Di un pianto, di un loro pianto.>.

Oggi soffro come tutti gli uomini di buona volontà perché, ci ricorda di certo non casualmente il poeta palestinese (probabilmente il loro più famoso), Mahmoud Darwish: <Il ritratto, per l’olivo, non è né verde né argento. / L’olivo è il colore della pace, se la pace avesse bisogno / di un colore.>.

Non bastasse, oggi ho assaggiato – con Letizia D. – l’olio nuovo, / aveva l’aspro e il dolce dell’anno trascorso, / con i nostri pensieri e con l’amore>.

Un viaggiatore attento e risoluto, forse un pellegrino alla ricerca di sé stesso, sbarca in Israele nel vecchio porto di Jaffa, quello famoso, ai tempi, per gli omonimi pompelmi coltivati con tecniche irrigue di precisione che hanno fatto epoca.

Allora, Israele era un faro di civiltà e un giardino di democrazia. “Una cinquantina di chilometri e sono a Gerusalemme dove trovo alloggio a pochi passi dall’Orto degli Ulivi. Qui, più che altrove, l’ulivo non è solo un albero, ma reliquia che unisce cuore e spirito. Prosperità e pace. O almeno, così dovrebbe”.

Considerazioni non banali del viaggiatore protagonista del “Racconto del Sabato” dell’Osservatore Romano “Una volta al posto del muro c’erano gli ulivi” a firma di Pino Petruzzelli (1962), inedito pubblicato lo scorso 13 settembre. Allievo del grande Andrea Camilleri, Petruzzelli è poliedrica figura di drammaturgo, regista, attore ed autore.

Proveniente da Betlemme dove ha incontrato una dottoressa, medico, che l’ha messo di fronte alla dura e straniante realtà dei “muri fisici” che dividono gli ebrei dai palestinesi, il nostro viaggiatore sullo sherut che l’ha portato davanti al checkpoint militare conosce un artigiano palestinese, musulmano, specializzato nella produzione e vendita di oggettistica sacra cristiana, che lo gela dicendogli.

<Qui le nostre strade si dividono. Ingressi diversi>. <Allora ci vediamo dall’altra parte>, dice lui fiducioso di poter continuare a scambiare qualche parola. <Le offro un caffè> e lui, di rimando e con espressione tra il dubbioso e il perplesso: <Se ha tempo!…>. Il Nostro, documenti alla mano, passa senza problemi e appena varcato il blocco militare osserva l‘amico’: “lo vedo, inghiottito in una lunga, lunghissima gabbia di forti sbarre e filo spinato.

Con lui decine, centinaia di altri palestinesi … non persone, ma un indistinto ammasso … sembra di essere davanti a una porcilaia industriale di un qualche allevamento intensivo”. Dato il contesto un’annotazione, questa, semplicemente dirompente. A un tratto risuona un richiamo vagamente lamentoso: <Vuole un caffè?> urla il barista dall’altro lato della strada.

Sconfortante l’osservazione del Nostro: “il numero di tavolini e sedie è superiore al numero di cose che vi si possono acquistare. <Aspetto una persona che è ancora in coda>. <Palestinese?>. <Sì!>. <Allora mi dia retta, il caffè lo prenda>. Il Nostro: <C’è molto da aspettare?>: <Se sei palestinese dipende: a volte mezz’ora, a volte un’ora, a volte due, tre. Aiuta a non farsi intrappolare dalla frenetica vita moderna. Gli israeliani, il checkpoint, l’hanno messo per la nostra salute. … Dove ve ne andate così di corsa?> … Il barista fa una pausa e sorride: <Bisogna prenderla a ridere se vuoi arrivare al giorno dopo>.

A questo punto si lascia andare: “Non c’è alternativa, dobbiamo capire che siamo tutti nella stessa situazione. Io sono nato qui, vivo qui da quarant’anni e non ho mai conosciuto davvero un israeliano. Gli unici con cui ho parlato sono quelli del checkpoint”. Toccanti e al tempo stesso graffianti le conclusioni del viaggiatore: “Muovo due passi verso il muro e mi fermo a guardarlo. E’ immenso. Più di dieci metri di altezza in cemento armato. Un muro capace di umiliare lo spazio. Un ghetto. E’ coperto di graffiti, unica ribellione concessa. … In basso vicino al terreno, leggo alcuni versi del poeta palestinese Mahmoud Darwish …<non dimenticare coloro che chiedono la pace; mentre stai per tornare a casa, la tua casa, pensa agli altri; mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso, / dicendo: magari fossi una candela in mezzo al buio>“.

Agghiacciante la conclusione del Nostro: “questi versi sono l’unico segno di civiltà che porta con sé il muro. Poi, è solo un lungo monologo del deserto”. A questo punto lo sguardo di chi scrive ritorna a posarsi sul colorato disegno dell’illustratore Nicolò Turbesi, molto significativo ed evocativo. In primo piano colpisce la tazzina biancolatte accogliente come un turgido ventre materno, colmata di caffè nero-nero, sta adagiata su un nido di rametti d’ulivo intrecciati con eleganza: è a sua volta appoggiata su una branca d’ ulivo che esibisce rigogliose foglie verdi.

Due dolci colombe di bianco vestite incrociano i loro becchi come a scambiarsi e confidarsi sottovoce segreti, preoccupazioni e speranze. Tante speranze che, forse, dopo gli avvenimenti di segno positivo di queste ultime ore, inducono a un cauto ottimismo. Chiudendo gli occhi anche chi scrive, che aderisce alla grande schiera degli uomini di buona volontà, sogna in controluce che, il più presto possibile, il disegnatore sia richiamato ad inserire nel becco delle sue due colombe un rametto d’olivo. Sigillo di pace.

Se così fosse, ma tutti siamo chiamati ad impegnarci affinchè questo accada, lo scuro e conturbante muro sbrecciato che incombe sinistro sullo sfondo del disegno, verrà finalmente consegnato alla storia. E si potrà finalmente brindare alla pace con il caffè, il Vino d’Arabia”.

                                                                                                           Gianluigi Goi

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