venerdì 29 Marzo 2024
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Sette motivi per cui lo sbarco di Starbucks in Italia NON è un’umiliazione

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Dalla Corte
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MILANO – Franceso Oggiano ha pubblicato sul suo blog su Vanity Fair un “prontuario” in sette punti, che smitizza il campionario di luoghi comuni emersi in questi mesi dopo l’annuncio dello sbarco nel nostro paese del colosso americano.

E analizza in modo disincantato e spassionato pro e contro dell’arrivo di Starbucks nella patria dell’espresso. Ve lo proponiamo di seguito.

Personalissimo prontuario per rispondere alle critiche dei vostri amici che considerano «un’umiliazione» lo sbarco di Starbucks in Italia.

1) «Starbucks non c’entra niente con l’Italia»

C’entra moltissimo invece, visto che qui è stato ideato. Nel 1983 Howard Schultz, attuale Ad della società, venne in viaggio a Milano. Mentre era al bancone di un bar, sentì un cliente ordinare un caffèlatte e lo imitò. Vide il barista fare un espresso, aggiungerci del latte con schiuma e un po’ di panna in cima. Lo assaggiò e concluse che quella era la «bevanda perfetta», da importare in America. Nacquero così il Frappuccino e Starbucks (che all’inizio venne chiamata Il Giornale). Per anni, Schultz ha risposto picche a chi gli chiedeva quando avrebbe aperto uno Starbucks in Italia: non aveva senso aprire in Italia un bar che si rifaceva ai bar italiani. I tempi sono cambiati.

2) «Starbucks è un luogo freddo»

Affatto. Schultz partorì l’idea proprio dopo essere rimasto incantato dal clima che trovò dentro i bar milanesi: atmosfera familiare, gente rilassata ai tavoli, baristi che scambiano chiacchiere con i clienti, ricordando il nome di ognuno. Il manager decise che i negozi Starbucks dovevano sì servire caffè, ma soprattutto ricreare al proprio interno quell’ambiente informale. L’usanza di ricordare i nomi degli avventori dei bar si è tramutata in Starbucks nell’abitudine di scrivere sui bicchieri il nome del cliente. Quella di leggere i giornali comodamente, nell’offerta di un wi-fi gratuito.

3) «E’ il trionfo del capitalismo»

Sarà che non ho mai capito cos’è, il «capitalismo trionfante», ma per me Starbucks rappresenta il trionfo di quello che molti bar italiani hanno smesso di rappresentare: un intelligente e comodo luogo di cazzeggio. Provate a sedervi in un bar milanese a sorseggiare un caffè. Sette volte su 10, dopo i primi 30 minuti verrete raggiunti da un cameriere che vi domanderà compulsivamente se volete ordinare qualcos’altro. Un modo elegante per chiedervi di andarvene e lasciare il tavolo ai prossimi avventori. Il design dei punti Starbucks è essenziale ma caldo. Il personale in media gentilissimo. I rapporti tutt’altro che impersonali. Al netto delle valutazioni economico-finanziarie-marxiste, Starbucks rappresenta un rifugio democratico e low cost. Se poi ci fa pure soldi che gli permettono di aprire altri punti vendita in giro per il mondo, chapeau.

4) «Il mondo ride dell’Italia»

Al massimo, il mondo ride in Italia. I turisti che verranno qui saranno forse sollevati dal poter trovare un comodo posto dove riposarsi tra una tappa e l’altra. Dove chiamare casa grazie al wi-fi gratuito, ordinare comodamente senza rischio di fregature (quelle sì, molto tradizionali e italiane), approfittare di un bagno quante volte vogliono e riposarsi senza essere pressati dal cameriere di turno.

5) «Starbucks ruba il lavoro ai bar italiani»

Un po’ come sostenere che McDonald’s avrebbe decretato la fine dei ristoranti. Starbucks creerà concorrenza, rappresentando un’alternativa valida e legittima ai tradizionali bar italiani. Saranno i clienti a decidere. E i clienti non sono mai rubati, soltanto guadagnati.

6) «Quello di Starbucks non è caffè italiano, non è lavoro italiano»

Vero. Ma Starbucks non ha mai avuto la presunzione di vendere «il» caffè. Come ha scritto Il Gambero Rosso in un eccellente articolo, «Starbucks è il primo touch point che milioni di persone hanno con il mondo del caffè. Queste persone, grazie a Starbucks (sia nei menù che negli scaffali dove i prodotti sono in vendita), scoprono che non esiste “il caffè”, ma esistono “i caffè” modulati in tante varietà, in tante miscele, in diverse origini. Apprendono il tema della sostenibilità. Vengono resi edotti sulle caratteristiche e sulle aree di produzione anche grazie a piccoli compendi formativi. Nessuno in un bar tradizionale italiano è in grado di insegnarti queste cose, il risultato è che quello italiano è forse il popolo che sa meno di caffè in occidente».

7) «Chissà quanti dei 350 posti di lavoro annunciati a Milano andranno a giovani italiani, e quanti a giovani immigrati»

Chi lo sa. Io mi auguro che vengano scelti e premiati i giovani (ma anche i vecchi, perché no) più meritevoli, indipendentemente dal luogo in cui sono stati creati. Un po’ come i bar.

Franceso Oggiano

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