domenica 14 Aprile 2024
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Panico alla Camera, blitz alla buvette: stanati i deputati scrocconi

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ROMA – A dirla tutta il giubileo della legalità, alla Buvette, era stato celebrato già nel 2006 con l’introduzione dello scontrino obbligatorio (e propedeutico al consumo: orrore!).

Dieci anni dopo il bar di Montecitorio, passato nel frattempo in mano a gestori privati, non ha fatto altro che perfezionare i meccanismi “anti-taccheggio”.

Adesso, all’uscita del ristoro del Transatlantico, c’è del personale addetto al controllo delle consumazioni. Uomini in livrea stanno attenti a che tutti paghino regolarmente il conto prima di andare.

Ma, soprattutto, che dichiarino quello che realmente hanno mangiato, senza “amnesie” (al Senato, invece, vale ancora la regola dell’autocertificazione).

Ma chiariamo: fregare un caffè alla Buvette, al giorno d’oggi, è un concentrato di sfacciataggine e destrezza. Lo scroccone può far leva sul pudore del banconista nel chiedere il rispetto della legge a uno che, le leggi, sta lì per scriverle.

O approfittare dei momenti di caos, quando un’improvvisa votazione fa svuotare il bar in un secondo. E allora ciao: valli a recuperare uno per uno, i portoghesi! Eppure i “furti” succedono più di quanto si pensi, visto che la società appaltatrice del servizio di ristorazione denuncia una falla nella contabilità.

La soluzione allora è la repressione: far sentire il fiato sul collo agli onorevoli che soffrono di disturbi della memoria non appena vedono un registratore di cassa.

Ma è uno scandalo, si indigna Pasquale Laurito denunciando il caso sulla Velina Rossa: «Ci sono guardie “naziste” che chiedono ai consumatori gli scontrini quando escono dalla Buvette».

Laurito, che è il decano della stampa parlamentare, sa bene che le cose in passato andavano diversamente. C’è stato un tempo in cui il bar dei parlamentari era assoggettabile più al concetto di circolo che a quello di esercizio commerciale. Pagare le consumazioni era un gesto di generosità più che un obbligo.

Nessuno ti rincorreva con il conto in mano. I deputati con un po’ di legislature alle spalle ricordano che, prima dell’introduzione dello scontrino obbligatorio, alla Buvette non c’erano barriere di fronte alla fame. Quelle odiose vetrine. All you can eat: frutta, panini, pizze, frittini e quiches. L’onorevole si serviva da solo e, al momento di pagare, andava sottraendo. Prendo tre, pago uno.

I supplì erano uncountable: un deputato di Caserta una volta si vantò di averne mangiati otto di fila, pagandone uno. Un altro suo collega democristiano fece fuori 26 panini, omettendone venticinque al cassiere.

Casi di gastroenterite o di etilismo erano all’ordine del giorno. Un vice presidente della Camera era solito ordinare il primo Negroni della giornata alle 11 del mattino. Il primo di una lunga serie. Sicché i turni dei lavori d’Aula erano organizzati in maniera tale che non capitasse mai a lui di presiedere le sedute pomeridiane.

D’altronde con quei prezzi: un long drink alla Buvette costava due euro, un calice di rosso un euro. Per una porzione di frutta bastavano cinquanta centesimi, stesso prezzo per una rosetta col prosciutto.

Possibile? Sì, perché almeno fino a un certo punto la Camera si accollava la spesa dei generi alimentari, dei cuochi e del personale di servizio. Il prezzo di vendita del prodotto finale era più che altro simbolico. Poi…

Poi è cominciata la stagione della razionalizzazione delle spese. Il terrore. L’oscurantismo. La Buvette della Camera dei deputati ha preso a praticare gli stessi prezzi dei bar che si trovano nei paraggi del Parlamento. L’onorevole ha smesso di sentirsi coccolato dall’istituzione.

Tanto che spesso preferisce farsi quattro passi fuori dal Palazzo. Anche perché, esternalizzando il servizio, la qualità non sembra essere migliorata. Anzi. È emblematico il caso dell’onorevole Luciano Cimmino, di Scelta Civica, che, insoddisfatto dell’espresso servito alla Buvette, ha comprato di tasca sua (è il paTron dei marchi Yamamay e Carpisa) cinque diverse miscele derivanti da altrettanti chicchi pregiati, «tutti provenienti da Napoli». Ne ha regalato un’intera fornitura alla Camera: «Ora sì che il caffè è buono». Almeno quello.

Salvatore Dama

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