martedì 02 Dicembre 2025
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Gabriella Lombardi, la prima certificata TAC Tea Sommelier in Europa: “Il tè, è la valida alternativa analcolica al vino”

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Gabriella Lombardi dentro il suo mondo di tè (foto concessa)
Gabriella Lombardi dentro il suo mondo di tè (foto concessa)

MILANO – Un amore senza confini quello tra Gabriella Lombardi e il tè puro in foglie, al punto da trasformarlo in professione: la sommelier del tè. Una bevanda che forse in Italia non conosce la stessa diffusione del caffè, ma che ha la stessa complessità celata dietro la tazza. Per esplorarne almeno una piccola parte, abbiamo parlato con l’esperta in materia.

Lombardi, ma lei come mai è diventata sommelier del tè?

Un lavoro che, ci anticipa lei, è difficile da svolgere in maniera esclusiva in Italia. All’estero è diverso, è una figura professionale molto richiesta e alla pari del sommelier del vino: non si ha bisogno di occuparsi anche di formazione o di avere una sala da tè per guadagnare, così com’è invece il caso di Gabriella Lombardi che è anche titolare di Chà Tea Atelier a Milano ed è tra le fondatrici della ProTea Academy.

Continua Lombardi: “Per questo motivo dico spesso di avere una doppia identità. A Milano possiedo un negozio specializzato con sala da tè, che dopo il Covid è stato dedicato completamente alla vendita, sia in Atelier sia online, e dove ora i tavoli sono riservati agli eventi e ai corsi di degustazione che normalmente organizzo il sabato.

In fiera (foto concessa)

Coerentemente con le premesse fatte prima, non sono soltanto sommelier e consulente, ma sono anche un’imprenditrice. In più, per conto dell’Associazione ProTea Academy che ho contribuito anche a fondare, tengo dei corsi di formazione professionale mirati al conseguimento della certificazione TAC Tea Sommelier. Questo percorso formativo è stato creato dalla Tea and Herbal Association of Canada (TAC), di cui ProTea Academy è partner esclusivo per l’Italia.

Sono stata la prima in Europa ad ottenere questa certificazione internazionale, nel 2015, seguendo un corso della durata di circa due anni: 8 moduli da 6 settimane ciascuno, online. Parliamo di un percorso come quello del vino, molto impegnativo. L’Associazione canadese che ha erogato le lezioni, mi ha chiesto in seguito di occuparmi per loro in Italia della parte di formazione. Nel 2013 avevo già scritto un libro, “Tea sommelier”, proprio su questo tema ero già una pioniera, ma ho voluto certificarmi ufficialmente e portare questa professione in Italia.”

Lombardi: “Credo che il tè sia l’alternativa analcolica al vino”

“Da bere e da abbinare in qualsiasi momento della giornata. Purtroppo attualmente sono pochi i gestori abbastanza illuminati che ne comprendono il vero potenziale al punto da rivalutarlo all’interno della loro offerta. Oggi spesso si arriva al paradosso che sono più numerosi i consumatori appassionati e informati sul tè, rispetto a chi li serve nei locali.

Tè verdi (foto concessa)

Un grande ostacolo nella sua diffusione rimane il fatto che il tè viene commercializzato sottolineandone soprattutto i benefici per l’organismo: certo esistono, in Cina se ne parlava già secoli fa e oggi le ricerche lo hanno confermato, ma non si può parlare del tè solo in termini medicinali. Questo è un limite per poter conquistare gli italiani, che vogliono invece bere qualcosa di piacevole ed esperienziale. Deve passare il messaggio che è una delle bevande più versatili in termini di abbinamenti e di orari, ancora più del caffè.

È più facile conquistare il neofita del tè se questo viene proposto in un determinato contesto, attraverso un percorso coinvolgente ed emozionante. Pensiamo, ad esempio, ai numerosi tè, oltre al celebre matcha, che possono essere utilizzati anche in cucina come ingredienti insoliti per delle esperienze gourmet”.

Ma un sommelier del tè che cosa deve sapere?

“Sicuramente deve conoscere il prodotto in modo poi da poter trasmettere la stessa esperienza ai clienti.

Deve almeno possedere una conoscenza di base delle bevande che mette in menù e poi bisogna saperle preparare adeguatamente. Per cui la formazione è essenziale: il tè non è qualcosa che si stappa e si versa in un bicchiere. Chi lo serve deve esser in grado di riconoscere l’acqua migliore per il tè, la temperatura corretta, il tempo di infusione, la scelta degli accessori. Spesso nei bar per esempio, l’acqua per preparare il tè è la stessa che esce dalla lancia a vapore utilizzata per montare il latte, con risultati facilmente immaginabili.

Essenziale anche la fase di selezione dei vari tipi di tè ed essere poi in grado di presentarli efficacemente. Spesso invece nel menù non c’è mai un racconto del prodotto e chi chiede un tè di solito legge soltanto il prezzo e poi a sorpresa gli viene portata al tavolo una scatola con delle bustine assortite, le stesse che passano da un cliente all’altro. Le indicazioni su cosa si trova in tazza, non sono sempre presenti, anzi.

Altro elemento che un sommelier deve curare è la descrizione sensoriale: spesso dietro il nome di fantasia usato per chiamare la materia prima, non si comprende di quale tè si parla, verde, bianco, se è aromatizzato o ci sono altri ingredienti, se invece è una tisana, in che momento è meglio berlo durante la giornata, con cosa magari è più appropriato accompagnarlo.”

Che cosa si può assaggiare in una tazza di tè? E come in base a ciò che si avverte, si possono studiare degli abbinamenti?

“Ci sono mille sfumature naturalmente. Partiamo dal fatto che ci sono grandi famiglie o macro categorie a cui riferirsi e a seconda delle lavorazioni che le foglie del tè hanno subito, si possono apprezzare diverse caratteristiche. Per quanto riguarda gli abbinamenti, le possibilità sono altrettanto infinite. Creando una carta del tè, oltre all’aroma e al gusto, bisogna pensare al corpo e alla struttura, per cercare di non sovrastare un piatto o, al contrario, di non riuscire a reggere il confronto con un cibo più complesso e dominante.

Quando si pensa al pairing, il principio è di procedere dal più chiaro allo scuro, dal leggero al forte. A volte ci sono tè verdi che sono più chiari dei bianchi per esempio, quindi bisogna guardare bene anche questo aspetto. In una selezione di diversi tè, si inizia da quello più delicato e sottile (di solito i bianchi, i verdi, gli wulong a bassa ossidazione) per poi arrivare a quelli più corposi (wulong ad alta ossidazione, neri o rossi ossidati e neri fermentati).

Specifico che noi chiamiamo comunemente il tè nero quello che in realtà sarebbe tè rosso ossidato. I verdi sono gli unici che non subiscono il processo di ossidazione; i bianchi e i gialli sono leggermente ossidati; gli wulong sono parzialmente ossidati. Per ottenere l’ossidazione, durante la lavorazione, le foglie vengono lasciate per diverse ore a contatto con l’aria, fino a quando non si sono parzialmente o completamente scurite.

Esiste poi anche la famiglia dei tè neri fermentati: una specialità cinese ora prodotta anche in altri Paesi. Con la fermentazione si ha una vera e propria stagionatura, non sono tè pronti subito, ma ci vogliono anni prima di arrivare alla maturazione completa.

In ogni caso, qualsiasi sia la bevanda di riferimento, si deve sempre considerare il momento della giornata che si vuole coprire così come le esigenze di chi lo beve. Se si vuole abbinare ad un certo tipo di pasto, ci vuole un tè che abbia un peso e una consistenza coerente.

Il pairing con il tè (foto concessa)

Un’idea semplice può essere l’accompagnare dei verdi giapponesi con il riso, crostacei, molluschi, sushi. Se si opta, invece, per il salmone, che risulta più pesante, si deve aumentare anche la struttura del tè e passare ad esempio ad a un tè di Ceylon. Per sgrassare invece l’ideale sarebbe un Darjeeling, che è più astringente e bilancia il fritto. Il gioco funziona quando un piatto e un tè trovano il giusto equilibrio senza che nessuno domini l’altro, oppure con i contrasti, che sono però più difficili da creare ma estremamente interessanti.”

In Italia quindi che cosa vede rispetto al tè?

Lombardi: “Come Associazione abbiamo contato dal 2016, più di 600 studenti per il percorso TAC Tea Sommelier e, mediamente, sono necessari circa due o tre anni per farsi un bagaglio di esperienze e competenze, comprendere la qualità di un tè e poterlo presentare correttamente.

A gennaio abbiamo lanciato un format più breve, orientato più sul servizio, chiamato Tea Barista PRO: la nostra massima aspirazione è quella di rivoluzionare il servizio del tè nell’horeca. Le caffetterie meritevoli sono poche, per questo vorremmo creare un network di professionisti certificati da ProTea Academy capaci di preparare e servire con competenza ed expertise anche i tè e gli Herbal Teas.

In 8 ore di formazione, online e dal vivo, partiamo proprio dagli errori commessi nella maggioranza dei bar, in modo da sistemare praticamente l’offerta. Inoltre, spieghiamo come creare un afternoon tea asiatico, inglese o rivisitato in stile italiano, magari abbinando i tè alle proposte del menu. Inoltre, un occhio di riguardo è riservato alle nuove tendenze. Per citarne solo alcune: matcha, chai latte, bubble tea, cheese tea…

Per il momento il riscontro è stato positivo: lo riproponiamo anche questo mese e siamo fiduciosi che gli iscritti saranno in tanti. Oltre alla preparazione classica del tè nei locali, cerchiamo di fornire dei consigli mirati alle esigenze specifiche di chi ha una propria attività. Per esempio, in un hotel si può dover gestire contemporaneamente un servizio del tè dentro la spa, uno dentro la lounge, ma anche la selezione nelle camere o nella colazione a buffet: noi dobbiamo sempre porci l’obiettivo di fornire una soluzione più funzionale in base al contesto, senza mai rinunciare alla qualità.

La mixology con il tè (foto concessa)

Come spiegavo, ci siamo concentrati sulle nuove tendenze: il pairing – in Italia siamo fortunati e potrebbe guadagnare la giusta visibilità che merita. Pensiamo solo alla ricchezza del territorio in termini di innumerevoli località turistiche, prodotti tipici e ricette territoriali – la mixology – abbiamo anche organizzato per tanti anni delle competizioni a livello nazionale e internazionale, la Tea Masters Cup, in cui abbiamo coinvolto tanti bartender che hanno realizzato ricette molto interessanti e il vincitore veniva poi portato alla finale mondiale per rappresentare in gara il nostro Paese – il cold brew e le preparazioni a freddo che funzionano molto bene e i sifoni per preparare il nitro e lo sparkling tea. Nel Tea Barista PRO insegniamo tutte queste possibili declinazioni. “

Lombardi, ma i consumatori quindi stanno cercando sempre più il tè in foglie?

“La richiesta da parte dei consumatori di un tè “diverso” in foglie, c’è. Una grossa fetta si avvicina ancora per questioni salutistiche, ed è certo un trend da cavalcare, senza però limitarci a questo aspetto. La sua versatilità invece premia molto e si deve insistere sul concetto che non esiste un orario preciso per poterlo bere: dipende molto dal suo contenuto di teina.

I giovani poi oggi viaggiano e stanno molto apprezzando il Bubble Tea, una versione che serve per avvicinare a questo mondo più complesso. Stesso discorso per il matcha che ultimamente spopola e può essere anche questo un canale per entrare nel circuito più ampio. La mia clientela ha avuto tante esperienze fuori dall’Italia, anche in America, che insieme al Canada ha registrato una crescita del 20% annuo di consumo del tè, mentre in Italia, abbiamo assistito ad un aumento di richieste per la formazione durante il lockdown da parte di professionisti e appassionati. Tanti sono passati allo smartworking e questo ha portato le persone ad acquistare online tè di alta qualità per poterselo preparare con calma a casa. “

Il tema del prezzo non esiste per il tè nei bar?

“Nei bar il problema è che la cattiva qualità assieme alla pessima preparazione fanno sì che il prezzo a cui di solito è venduto il tè sia troppo alto. Offrendo invece una buona materia prima e una corretta esecuzione, si potrebbe parlare di alzare i costi.

Capisco che il tè ha bisogno di un tempo di consumo più ampio e questo quindi tiene occupato il tavolo per maggior tempo e va monetizzato, ma all’estero non c’è così tanta differenza tra la voce di costo di un buon caffè e di un buon tè. Le persone pagano anche 4/5 euro un cappuccino così come fanno per un tè. In Italia quindi attualmente si paga tanto per avere un’offerta medio bassa.

Il prezzo forse è solo giustificato dall’investimento temporale che il gestore deve poter recuperare. Il tè-tisana – spesso messi insieme in una sola voce – è una bevanda che può costare sino ai 7/8 euro ma è per lo più un aumento legato a location esclusive , non certo per standard elevati del prodotto proposto o del modo in cui viene presentato. Risulta sempre un po’ abbandonato, senza un racconto che stimoli il consumatore ad ordinarlo.”

Ma la soluzione per cambiare questa dinamica quale sarebbe secondo lei?

“Quando pubblico la programmazione dei miei corsi, non solo quelli professionali ma anche le degustazioni guidate di 2/3 ore in Atelier, mi confronto con diverse persone che sono curiose. Quindi la clientela potenzialmente interessata c’è, bisogna saperla coltivare e fidelizzare. In Italia il tè, per diventare di moda, deve passare anche attraverso le caffetterie, le pasticcerie e i cocktail bar, simboli dell’italianità e della convivialità”.

Ci sono difficoltà a importare il tè?

Giappone -Sencha Coltivazione (foto concessa)

“È facile se arriva da altri Paesi europei. Diventa complesso importare piccoli lotti direttamente dai Paesi di produzione, per via dei controlli doganali giustamente molto rigidi: verificano se i tè rispettano i parametri specifici relativi alla presenza di pesticidi e gestiscono una serie di procedure costose che richiedono analisi di laboratorio. Per le importazioni dall’Oriente, è meglio affidarsi a spedizionieri e a importatori competenti in merito alle normative e alle pratiche burocratiche da gestire”.

Honduras: produzione in forte crescita, Italia terzo mercato di esportazione

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Usda Brasile
Il logo del dipartimento dell'agricoltura di Washington

MILANO – Vola la produzione di caffè dell’Honduras, che quest’anno crescerà del 20% raggiungendo i 7,2 milioni di sacchi, stando ai dati del nuovo report annuale del servizio informativo estero del dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti (Usda). Il report guarda con ancora maggiore ottimismo all’annata 2023/24, per la quale prevede un raccolto vicino agli 8 milioni di sacchi, che costituirebbe il massimo di sempre per la produzione onduregna di caffè.

L’Honduras è il massimo produttore centro americano ed è ormai un’origine chiave per il mercato mondiale dei caffè lavati. Rimane inoltre il massimo fornitore di caffè certificato delle borsa di New York, fatto questo che ne accresce ulteriormente l’importanza strategica.

A motivare le stime favorevoli di Usda, il buon andamento climatico e la minore incidenza della ruggine del caffè e di altre avversità. La ripresa della domanda e la maggiore disponibilità di manodopera, con la fine delle restrizioni legate alla pandemia, hanno sostenuto l’attività dei produttori, sebbene essi abbiano dovuto fare i conti con un rilevante aumento dei costi.

Ulteriori fattori favorevoli sono stati il ricorrere di un’annata positiva nel ciclo biennale degli arabica, le migliori pratiche agricole, l’espansione delle aree coltivate e l’entrata in produzione di nuovi arbusti di varietà resistenti.

Il raccolto 2022/23 dell’Honduras è ormai pressoché completato

Il caffè è coltivato in 15 dei 18 dipartimenti in cui è suddiviso il paese e in 210 comuni su 298.

La coltura avviene soprattutto in altitudine, con oltre il 60% delle farm concentrato nella fascia tra i 1.200 e i 1.600 metri. Il settore conta per il 30% del pil agricolo e per il 5% del pil complessivo del paese.

L’export per il 2022/23 è previsto in 5,5 milioni di sacchi, con un incremento dell’8% rispetto all’annata anteriore. Al 5 maggio, gli imbarchi risultavano pari a 3,2 milioni di sacchi: il 10% in più rispetto alla stessa data dell’anno scorso.

La Germania rimane la principale destinazione del caffè onduregno, con un volume per l’annata in corso previsto in 1,5 milioni di sacchi. Seguono il Belgio (635 mila sacchi) e l’Italia (318 mila).

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Cosimo Libardo, il treasurer Sca ha parlato del fatturato emotivo delle aziende al Trieste Coffee Experts

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cosimo libardo fatturato
Cosimo Libardo - treasurer del board internazionale Specialty Coffee Association all’Anteprima TCE 2023 durante la TriestEspresso Expo (immagine concessa)

Inizia il countdown per il Trieste Coffee Experts – TCE, il summit dedicato all’universo del caffè organizzato dalla Bazzara, storica torrefazione triestina a conduzione familiare, che farà il suo ritorno il 25 e 26  novembre 2023. L’evento è stato presentato in anteprima alla 10° edizione della TriestEspresso Expo. Riportiamo di seguito l’intervento di Cosimo Libardo, treasurer Sca, il quale ha espresso durante l’anticipazione del Trieste Coffee Experts la sua opinione su temi di fondamentale importanza come l’innovazione sociale e la sostenibilità economica.

“Fatturato emotivo, innovazione sociale e sostenibilità economica”

di Cosimo Libardo

“Ho la fortuna di essere l’ultimo a parlare e di aver ascoltato molti interventi importanti prima, che mi hanno dato degli spunti per riflettere; quindi, come al solito, la presentazione si andata modificando strada facendo nella mia testa, ascoltando quello che hanno detto gli altri.

Ringrazio la famiglia Bazzara perché è giusto farlo e perché sono persone veramente illuminate. Uno dei temi che andrò proprio a trattare è collegato molto a chi sono loro e perché lo fanno: diciamo che sono fonte d’ispirazione, tra quelle aziende che funzionano nel settore del caffè.

Io sono il tesoriere entrante della Specialty Coffee Association, la Sca. È un’associazione che ha più di 12mila membri in giro per il mondo, che vanno da aziende grandissime ad aziende piccolissime fino ai singoli soci baristi. Questo mi ha dato la fortuna di essere esposto ad un universo di realtà che molto spesso sono piccole, frammentate. Ci sono anche le grandi aziende, ma quelle sono poche rispetto al totale; ciò mi ha portato a riflettere su tanti aspetti del business del caffè collegati anche all’aspetto dimensionale delle piccole e medie imprese che poi sono quelle che popolano il tessuto italiano e di molti Paesi all’estero: sono un po’ gli atomi che compongono questo mondo del caffè in cui tutti noi operiamo.

Cosimo Libardo: una maggiore stabilità nel settore

Le prime considerazioni sono sul modello di business che adottano queste aziende: noi viviamo un settore dove, non parlo in Italia, ma all’estero, circa il 75% delle aziende chiudono, se parliamo di bar, nel primo anno di vita (sono dati che ho personalmente verificato in un Paese ricco come l’Australia ad esempio). La mortalità aumenta addirittura percentualmente nei primi 3 anni dal momento dell’apertura.

La verità è che il mondo del caffè ha barriere all’ingresso molto basse, ma anche barriere all’uscita sono altrettanto basse. Il nostro settore ha decisamente bisogno di maggiore stabilità, visto anche l’ambiente estremamente fluido che ci ruota intorno, in questo momento tra pandemie, guerre, crisi energetica e geopolitica che ha ufficialmente segnato la fine della globalizzazione.

La pandemia mi ha dato però tempo di riflettere e mettere a fuoco, identificando un concetto che è quello del fatturato emotivo: l’abilità di generare fatturato emotivo (il legame di lungo periodo che fa tornare da noi i nostri clienti per chi siamo e per quello che facciamo) è secondo me l’elemento che contraddistingue i business che funzionano rispetto a quelli che chiudono.

Ma facciamo un momentaneo passo indietro. Il processo che ho seguito potrebbe essere definito un’operazione di ingegnerizzazione inversa: cioè ho cercato di ragionare su cosa hanno in mano le piccole aziende che le grandi non hanno o per lo meno, che le grandi non riuscirebbero a fare altrettanto bene, in modo da rendere le piccole aziende più competitive.

Mi sono chiesto cosa è che, in fin dei conti, caratterizza il grande business rispetto piccola azienda. Alcune risposte sono ovvie e tra queste potremmo elencare: la massa critica, la capacità di attrarre talento, la capacità di organizzare la propria attività in modo migliore, maggiore accesso al denaro…

Ma c’è una risposta che mi sono dato che è molto meno ovvia di quelle qui sopra: la grande azienda ha la cultura dell’intento.

Quello che fa, lo fa con l’intenzione, lo fa disegnandolo. L’intenzione diviene disegno che viene poi applicato, implementato e misurato nella sua efficacia. Nelle grandi aziende moderne esiste il ruolo del CXO, il Chief Experience Officer, che ha il compito di generare e massimizzare il valore che viene ceduto al consumatore / cliente nell’atto di consumo / utilizzo del prodotto, servizio che l’azienda fa.

Le piccole aziende quest’attitudine all’intento, nella stragrande maggioranza dei casi, non l’hanno così sviluppata per un tema di cultura e del loro modo di andare sul mercato. In fin dei conti, non è poi così sbagliato pensare che le grandi aziende vincenti, sono la naturale evoluzione di piccole aziende cresciute bene, seguendo la teoria simil-darwiniana, dove le aziende che sopravvivono ai cambiamenti crescendo sono proprio quelle che hanno nel tempo creato una cultura dell’intento in quello che fanno.

La differenza tra la grande e piccola azienda

La risposta che mi sono dato, è certamente una risposta empirica che però molto spesso trova riscontri importanti sul mercato. Nel piccolo business domina l’istinto e l’esperienza del passato. Ho vissuto in diverse aziende, piccole e medie dove tante decisioni vengono fatte di pancia, anche decisioni che dovrebbero essere prese in un contesto strutturato di business.

Questa fondamentalmente è la differenza tra la grande e la piccola azienda, perché la grande azienda mette il disegno al centro di quello che fa come primo imprescindibile step, valutandone coerenza e conseguenze.

La piccola azienda ha spesso un percorso meno organizzato e ordinato, per cui mentre la grande azienda riesce a misurare lo scostamento da una direzione che si è data, la piccola azienda ha più difficoltà a farlo. Prendiamo ad esempio le piccole torrefazioni o i bar. Potremmo pensare onestamente anche ad aziende di più grandi dimensioni come i produttori di macchinario, dove non tutti i produttori hanno la stessa dimensione o capacità di organizzarsi. Sono situazioni molto più frequenti nel nostro settore, di quanto si potrebbe immaginare.

Parliamo poi dell’ambiente in cui stiamo vivendo oggi, un ambiente polarizzato socialmente e fratturato geograficamente: noi esiste più un mercato potenziale grande e trasversale come in passato; esistono dei cluster, dei grappoli di nicchie che hanno dei bisogni simili ma non uguali.

La scelta di un marchio o prodotto rispetto a un altro è guidata dai social beliefs (credenze) che a volte vedono un gruppo di consumatori in contrapposizione con altre categorie di consumatori. L’azienda e il prodotto vengono scelti per valori estrinsechi allo stesso, legati più al chi sei e perché fai quello che fai. I marchi divengono simbolo di vere e proprie divisioni sociali.

L’ideazione di un business plan e l’aspetto social

Il mercato insomma, si sta scindendo in tanti mercati più piccoli a causa di guerre sociali striscianti, con sempre più sanguinose guerre fisiche che generano guerre economiche di contrapposizione. In più, abbiamo una situazione fluida: dalla pandemia in poi siamo passati da una percezione del futuro prevedibile, alla cultura del “cosa succede adesso?” legata anche a fattori climatici e ambientali.

Se noi dovessimo immaginare di elaborare un business plan credibile, dai canonici 3 anni del passato diverrebbe già difficile ragionare su un anno intero poiché la situazione economica attuale e politica non ci permettono di programmare a lungo termine.

C’è poi l’aspetto social, cioè l’ambiente che circonda chi fa caffè, chi fa impresa nel mondo del caffè: è un ambiente che ha questo effetto di amplificazione e deformazione di quello che facciamo grazie ai social media, dove si riesce a relazionarsi con molta più gente e molto velocemente, però bisogna stare estremamente attenti a come si utilizzano questi canali. Il pubblico ha sviluppato una crisi di rigetto rispetto allo story telling fine a se stesso e l’intelligenza artificiale non ci da certo una mano.

Tutta la lista appena fatta complica la ricetta percorribile per le piccole imprese, che poi alla fine devono utilizzare percorsi reali e accessibili nei limiti delle loro possibilità. Le piccole imprese hanno scarsa possibilità di parlare con il consumatore rispetto a quelle grandi.

Io ho avuto la fortuna di lavorare in Suntory, grande gruppo quotato in borsa, operante nel settore beverage: il management aveva accesso a focus groups, all’interno del percorso di lancio di nuovi progetti e lì si intervistavano consumatori che spesso pensavano cose completamente diverse da quelle che pensavamo noi manager che eravamo i tecnici del caffè che lavoravano in azienda. In questo modo le nostre idee venivano filtrate e raffinate, rese più efficaci o abbandonate, acquisendo con metodo scientifico quello che il consumatore vuole.

Ma quando si è una piccola azienda e non si è organizzati, come si riesce ad affrontare il mercato?

La ricetta, l’unica secondo me possibile, è quella di partire dalle fondamenta, dalla creazione di un sistema di valori condiviso e chiaro all’interno dell’azienda seguendo il principio che I primi clienti dell’azienda sono i suoi dipendenti: cioè le idee che la azienda ha, quelle che propone al mercato, i primi clienti a cui devono essere vendute sono i dipendenti.

Creare un sistema valoriale, costruisce cultura che proietta verso l’esterno un’identità chiara che attrae una community che poi diventa il mercato di riferimento. Questa è un po’ la ricetta, quello che io chiamo il RIPPLE, cioè l’energia generata dall’interno verso l’esterno.

Oggi Lavazza diceva che il 90% dei giovani, tende ad acquistare da un marchio in cui si riconoscono anche eticamente perché ormai noi compriamo da aziende che non solo fanno un prodotto buono, ma che noi scegliamo perché ci piace chi sono, la loro etica, i loro valori.

Quindi, i sistemi valoriali sono diventati sempre più importanti ed è una possibilità per le piccole e medie imprese del settore caffè, lavorando in un certo modo con una certa mentalità. Tutto ciò è una questione di approccio e di metodo, perché c’è un metodo che viene applicato a questo.

Questo processo può apparire come un esercizio teorico scarsamente applicabile, è invece un metodo molto reale da me già usato in passato, che parte da una fase di ascolto in cui si fanno questionari, in cui si dialoga con i dipendenti e con la proprietà per creare un sistema valoriale chiaro e condiviso.

Entrando nel tema del fatturato emotivo, vediamo prima che cosa è che determina il valore di un’azienda? Chiaramente la sua capacità di generare reddito, la sua posizione finanziaria netta, gli asset patrimoniali etc.

Quando si analizza il grande processo di consolidamento che c’è stato nel nostro settore i vari moltiplicatori dell’EBITDA prima della pandemia, erano sulla bocca di tutti, commentando la cessione a fondi o conglomerati industriali di storiche aziende italiane. In realtà, oggi vediamo sempre più che il valore di un’azienda non è determinato solo dal suo EBITDA ed è per questo che i sistemi valoriali ed etici entrano in gioco nel valutare quanto un’azienda vale. Certificazioni come quella B Corp non si spiegherebbero altrimenti.

Oggi, un’azienda vale anche per il suo aspetto emotivo e questo è un aspetto che, secondo me, è ancora molto sottovalutato dalle piccole aziende dove, in realtà, non esiste un vero disegno emotivo, una intenzione emotiva. Ci si concentra invece su quello che io chiamo fatturato transattivo, focalizzato sulla sopravvivenza di breve medio termine dell’impresa.

Il fatturato transattivo è orientato alla ricerca di efficienze, anche da qui il forte processo di consolidamento che stiamo vivendo, monodimensionalmente collegato all’aspetto economico finanziario dell’azienda: quanto fatturato faccio, i costi fissi, i costi variabili, il reddito e via dicendo; si spende tantissimo tempo a disegnare operazioni tattiche o strategie che vadano a fortificare questi aspetti.

Come dicevo, la parte emotiva di un’azienda non riceve la stessa attenzione nel disegno generale; è questo uno dei principali motivi, secondo me, di fallimento del progetto ed economico, specie di aziende medio-piccole: essendo esse spesso de-strutturate e non avendo un disegno di partenza in ciò che fanno, quelle che chiudono sono principalmente quelle che hanno una scarsa conoscenza di sé, il che limita enormemente la loro capacità di attrarre un mercato intorno a ciò che fanno.

Durante la mia storia professionale ha visto tante di queste situazioni sul mercato ed è grazie a queste esperienze che oggi mi occupo di consulenza su queste tematiche. Nella mia vita ho avuto la fortuna di gestire una grande torrefazione specialty, ho lavorato per produttori di macchine, ho importato e distribuito caffè e macchine da caffè. Adesso mi occupo di strategia. Ho coperto vari ruoli all’interno della catena del caffè.

Nel disegnare l’approccio al progetto di business ho creato una matrice bi-dimensionale: quando ragioniamo in verticale parliamo di fatturato transattivo, cioè tutto ciò che è economico e va a influire economicamente sul risultato dell’azienda. Quando invece, siamo a livello orizzontale noi parliamo di quelle cose che partono dal sistema valoriale, l’identità dell’azienda, e le ho divise, per spiegarle in modo semplificato, in due aree: la parte software e la parte hardware.

Il software emotivo è la parte che si lega agli aspetti più impalpabili del business, dal linguaggio visivo ai materiali, fino al design, insomma il look and feel dell’azienda, sia essa una torrefazione, una fabbrica con uffici o un locale.

Il software emotivo si rivolge sia ai dipendenti, sia verso l’esterno e deve essere strumento per trasmettere la cultura aziendale, perché un’azienda che non vende la propria cultura, ma vende solo un prodotto, oggi ha meno possibilità di successo di un’azienda che riesce a fare cultura con quello che fa. I Bazzara ne sono un esempio importante, perché la cultura li ha portati probabilmente molto più in là di quello che sarebbe stato nelle loro possibilità se si fossero occupati solo di caffè. Se si fossero occupati solo di caffè, la visibilità che hanno oggi non l’avrebbero. Se vogliamo un esempio pratico ed evidente, siamo oggi a parlare nel mezzo dell’esempio.

I rituali sono un altro importante componente del software emotivo. Essi sono, l’essenza, gli atomi che compongono l’esperienza del cliente.

Il rituale è veicolo di esperienza che caratterizza e distingue chi lo concepisce e disegna collegandolo alla propria cultura aziendale, da chi magari lo fa inconsapevolmente o comunque copiandolo artificialmente senza metterci intenzione, solo perché lo hanno visto funzionare da altre parti. Il caffè ha aspetti cerimoniali importanti, ma in generale, tutto il mondo dell’ospitalità si basa su rituali e offre infinite possibilità di migliorare l’esperienza del cliente utilizzando gli stessi.

Spesso l’errore che si fa è quello di trattare l’ospitalità come commodity, puntando sull’efficienza del servizio senza lasciare spazio alla creazione di un legame emotivo con il cliente; ma il servizio consiste nel confermare al cliente che otterrà quello che vuole nei tempi desiderati, seguendo il giusto processo, l’ospitalità invece consiste nel come si fa sentire il cliente nel momento in cui gli forniamo servizio. Molti locali e aziende sono confusi al riguardo (e si vede).

Poi c’è la parte dell’hardware emotivo che è composta fondamentalmente da tre elementi: format, layout e workflow.

Il format si collega a cosa faccio e come lo faccio: che tipo di locale / azienda ho, che prodotti servo e come li servo, a che ora li servo.

Il layout è la disposizione fisica di quello che faccio, quindi come mi presento: come sono disposti gli uffici, lo showroom, le informazioni. Può riguardare tutto ciò con cui i miei clienti interagiscono: dal sito web, al packaging del mio prodotto, ai mobili, ai muri,

Poi c’è il workflow, cioè come si muovono le cose, le informazioni, le persone all’interno del mio format seguendo un percorso esperienziale influenzato dal layout e dal format.

L’hardware emotivo consiste sostanzialmente di tutto quello con cui il mio cliente può interagire usando i sensi: si applica quindi sia a prodotti, sia a servizi, all’ambiente fisico e a quello digitale, ad esempio come si naviga su un sito web. Per essere più specifici: anche l’e-commerce dovrebbe rappresentare chi sono, coerentemente con la parte fisica e quindi più tangibile di quello che faccio, quindi come qualcuno naviga sul mio sito, come dispongo le informazioni, come le propongo, come le disegno è importante. Dovrebbe essere tutto un sincrono con chi sono.

Molto spesso, è palese come questo disegno non esista. La manifestazione della piccola azienda risulta in un puzzle di iniziative che vengono attaccate assieme alla meglio.

Credo tutti noi siamo in grado di distinguere e sentire facilmente le aziende che disegnano l’esperienza da quelle che invece la creano in modo cumulativo e stratificato come castelli di carta con basi disassate ed estremamente fragili.

Ho imparato nel tempo che, quando bisogna elaborare un business plan, bisogna andare a vedere prima la parte emotiva, chi siamo, cosa crea la nostra identità dentro il mercato e poi da lì si valuta l’impatto sul fatturato,  i costi fissi, i costi variabili e si va quindi a valutare la redditività.

Suggerisco l’utilizzo di questo strumento e approccio a sempre più aziende di piccole dimensioni, proprio per una questione di sostenibilità economica, visto l’ambiente in cui operiamo.

Il rituale dell’espresso

I rituali li ho sentiti citati nella presentazione dell’Espresso italiano, almeno quattro volte. L’espresso italiano è il rituale per eccellenza per gli italiani come la cerimonia del tè lo è per i giapponesi. Però, negli ultimi anni, devo dire che questo rituale è stato commoditizzato, cioè il barista non è più un professionista; spesso è un lavoratore che percepisce poco de-professionalizzato.

Mi vengono in mente i baristi una volta, he quando entravo (succede in alcuni posti ancora), ti chiedevano “il solito?”. Questo è un rituale potentissimo che crea un link emotivo tra chi compra il prodotto e chi lo propone. Ecco… il disegno intenzionale del rituale, secondo me, è un’opportunità. Se vediamo le aziende che fanno bene, sono proprio quelle che hanno saputo farlo. È un elemento così piccolo, perché il rituale non deve essere una cosa visibile.

Ma guardiamo… io faccio esempi… McDonald’s ti insegna come ordinare, si ordina in un certo modo. Da Starbucks il menù, la prima volta che entrai… io volevo un caffè medio e mi hanno detto “Qui il caffè medio non c’è, devi prendere un venti” e dovevo usare tutta una terminologia, un menù complesso ma perché polarizzano nel quale il cliente o è dentro o è fuori. Ti programmano a consumare il loro prodotto seguendo un rituale.

Ecco, così fa anche la Apple nel modo di usare i telefoni, per fare un altro esempio: i bambini adesso scorrono con il dito in automatico, ma non è un gesto che fa parte della nostra cultura, siamo stati programmati a usare il prodotto in quel modo.

I prodotti che funzionano tendono a incorporare degli elementi rituali, ma questo può essere applicato anche al mondo del caffè. Nella slide vedete ho l’esempio di un coffee brand di Londra che è una catena, si chiama WatchHouse: hanno 13 locali, stanno crescendo moltissimo e hanno diversi investitori che li vogliono acquistare. Loro propongono ai clienti 3 packaging di 3 colori diversi che non sono legati a un tipo di caffè specifico, ma si legano a 3 tipi di percorsi esperienziali. Non vanno a parlare di sapori specifici, dicono al cliente “Se vuoi un prodotto rituale, in questo sacchetto c’è una cosa che vorrai bere tutti i giorni, quindi una sicurezza; se vuoi un’avventura nel sapore, nella proposta adventure ti porteremo lontano; se vuoi qualcosa che rappresenta l’orizzonte, la destinazione futura del caffè con tecniche e sapori innovativi c’è la proposta orizzonti”. Chiaramente le tre proposte hanno 3 livelli di prezzo molto diversi.

La scelta della proposta è un rituale in sé. Un modo, per rappresentare la cultura e filosofia dell’azienda.

I rituali funzionano nel momento in cui sono riproducibili, adottabili e comprensibili da parte del cliente in modo semplice. Mi chiedo quante aziende che considerano questo fattore, lo ragionino alla base di quello che fanno.

Di opportunità ce ne sono tantissime in questo senso e questo, secondo me, è un elemento di sostenibilità economica importante che si può fare dal caffè, alla torrefazione, al produttore di macchine. Si può fare in ogni ambiente. Lo vedo ancora troppo poco. Uno dei problemi del nostro settore, secondo me è quello che nell’industria dell’ospitalità… manca proprio l’arte dell’ospitalità.

Ospitalità è una parola che è apparsa nel 1400 nel vocabolario inglese: era l’arte di prendersi cura dell’ospite. Quando usiamo il termine industria dell’ospitalità, già mettiamo due cose che non dovrebbero stare insieme, industria, commoditizzazione, ripetibilità di qualcosa che invece dovrebbe essere un’arte.

Nel nostro settore c’era il barista professionale italiano, col papillon che ti serviva al bar, vestito in un certo modo, che sapeva fare, aveva un mestiere, era una professione essere un barista.

Barista Guild of Europe

Noi nella SCA parliamo spesso di questo, di come creare un serbatoio di professionisti per il settore. Il Barista Guild of Europe è un’iniziativa per creare dei baristi professionisti che poi vadano a lavorare nei coffee shop, nelle torrefazioni, nelle catene, proprio per professionalizzare un ruolo che perso valore nel corso del tempo.

In questo sforzo, noi abbiamo speso tantissimo tempo a insegnargli a far caffè, far caffè migliore, tutta la tecnica, l’assaggio; non importa quale regolamento tecnico sia stato usato, ma non abbiamo, secondo me, passato abbastanza tempo a spiegare l’ospitalità, cioè l’arte dell’ospitalità che è il grande buco nero ma anche la grande opportunità del nostro settore”.

Circana: “Prodotti private label rappresentano il 38% delle vendite totali di beni di Largo Consumo in Europa con 229 miliardi”

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circana spesa
Il logo di Circana

BRACKNELL (Regno Unito)  –  Circana – azienda leader nella gestione ed interpretazione della complessità del comportamento del consumatore, nata dalla fusione tra Iri e The Npd Group – ha pubblicato il nuovo aggiornamento dell’analisi semestrale “FMCG Demand Signals”. Lo studio coinvolge i sei principali mercati europei (Francia, Italia, Germania, Spagna, Regno Unito e Paesi Bassi) e rivela che i prodotti a marchio del distributore hanno registrato un picco di crescita in quasi tutte le categorie chiave del Largo Consumo Confezionato. Le Private Label rappresentano infatti oggi il 38% delle vendite totali di beni di Largo Consumo in Europa (229 miliardi di euro).

Il rapporto FMCG Demand Signals di Circana

Il rapporto analizza l’impatto della pandemia, dell’inflazione e della crisi economica su oltre 230 categorie del Largo Consumo, per oltre 2000 segmenti di prodotti e più di 10 milioni di codici EAN. Il rapporto evidenzia inoltre una crescita complessiva della Marca del Distributore in tutti i sei maggiori mercati europei, con la penetrazione più alta registrata in Spagna (47%) e Germania (41%) e la più bassa nel Regno Unito (37%), dove i consumatori restano più fedeli alle Marche Industriali che rappresentano per loro un modo veloce per fare scelte di acquisto comode e sicure.

Ananda Roy, Global SVP, strategic growth insights di Circana, ha commentato: “Le Private Label hanno fatto molta strada rispetto a quando circa 40 anni fa sono arrivate sugli scaffali. Gli investimenti dei distributori a sostegno dello sviluppo di questi prodotti stanno dando i loro frutti. Oggi queste referenze vengono percepite come buone o addirittura migliori rispetto a molti Prodotti di Marca con cui competono. I consumatori le considerano innovative. Di conseguenza, non sono più l’alternativa “economica” al brand che viene motivata dal fattore prezzo: gli shopper acquistano private label per la loro capacità di offrire qualcosa di nuovo e di buona qualità”.

Principali evidenze emerse dallo studio:

  • I consumatori “fedelissimi” al marchio del distributore equivalgo a quelli “fedelissimi” ai prodotti di marca: il 60% dei consumatori intervistati ritiene che le Private Label siano innovative, di qualità, sostenibili e altrettanto buone rispetto ai marchi industriali; il 25% le considera addirittura Il 21% dei consumatori – molti dei quali sono in una fascia di reddito media – è indeciso ed acquista entrambe le tipologie di prodotto ma ha affermato che oggi le Marche del Distributore sono migliori rispetto ai marchi industriali.
  • Gli shopper scelgono di comprare prodotti a marchio del distributore principalmente per i beni edibili – dal momento che l’inflazione ha colpito maggiormente i prodotti edibili, la Private Label mostra una penetrazione più elevata per i reparti del freddo, del fresco e dell’ambiet food. Per quanto riguarda i prodotti non edibili, invece, la penetrazione delle marche del distributore è maggiore per i prodotti per la cura della casa, in particolare per i detersivi e gli igienizzanti.
  • La categoria delle bevande alcoliche ed alcuni alimenti per l’infanzia hanno visto una crescita molto parziale delle marche del distributore. Per questi prodotti i consumatori sono rimasti più fedeli ai loro brand di fiducia. I distributori per contrastare questa tendenza, stanno introducendo sugli scaffali prodotti innovativi, come birre analcoliche o prodotti artigianali di alta qualità, realizzati con ingredienti di provenienza locale.
  • Emerge un forte cambiamento nella percezione dei consumatori nei confronti delle private label – il 66% dei consumatori le considera innovative e questo si traduce in un importante driver per la domanda. Gli shopper che acquistano prodotti a marchio del distributore cercano un equilibrio tra prezzo (il 78% cerca attivamente i prezzi più bassi) e qualità (il 72% presta attenzione alle etichette dei prodotti e il 63% controlla le dichiarazioni sui prodotti) in ogni shopping expedition.
  • Le marche non stanno perdendo necessariamente fedeltà, ma gli shopper hanno ridotto i volumi acquistati – Per continuare ad avere un elevato livello di fedeltà dei consumatori, le marche devono continuare a puntare sull’innovazione. Gli shopper oggi comprano facendo un bilancio tra i loro desideri e il loro reale potere d’acquisto. Per loro vale la pena cambiare o provare nuovi prodotti solo se offrono un buon prezzo e se sono percepiti come maggiormente salutari; pertanto i produttori dovrebbero tenere in considerazione questi elementi quando propongono i loro brand.

Roy ha concluso: “I distributori hanno sviluppando le private label seguendo una strategia incentrata sul consumatore e sulla base di dati concreti. Le marche industriali non possono più ignorare la concorrenza rappresentata da questo tipo di offerta. Come già sottolineato, il consumatore ha cambiato la sua percezione della marca del distributore e decide di acquistarla in quanto questa scelta rientra perfettamente nel proprio piano di attento e consapevole risparmio, senza dover rinunciare alla qualità. La crescente fedeltà e la quota che i distributori hanno raggiunto potrebbe, in futuro, portare a dei cambiamenti strutturali del mercato del largo consumo”.

Per scaricare la versione integrale dello studio basta cliccare qui

Il digitale orienta l’acquisto tradizionale: nel 40% dei casi ci si informa online prima di entrare in negozio

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La diffusone dell'esperienza di acquisto online in Italia (immagine concessa)

MILANO – Tra il 2020 e il 2022, per effetto della pandemia, il numero di acquirenti online in Italia è aumentato velocemente fino a raggiungere i 33,3 milioni lo scorso anno. In questa prima parte del 2023 la situazione è rimasta sostanzialmente stabile, seppur in linea con il trend di crescita delineatosi da tempo (+39% rispetto al 2019).

L’acquisto online in Italia

È aumentata, invece, la rilevanza dei canali online nell’orientare l’acquisto offline: nel 40% dei casi, il consumatore consulta almeno un servizio online prima di acquistare in negozio. E vale anche il contrario, anche se con meno incidenza: quasi un acquisto online su quattro viene influenzato da una visita presso un punto di vendita fisico.

Queste sono alcune delle principali evidenze dell’edizione 2023 di Netcomm NetRetail, la ricerca di Netcomm che quest’anno è stata realizzata in collaborazione con BRT, Confcommercio Milano Lodi Monza e Brianza, EDI Confcommercio, Oney, Banca Sella, Shopify e Storeis, ed è stata presentata oggi in occasione di Netcomm Forum.

digitale italia
La consegna dei prodotti (immagine concessa)

“Nel post-pandemia, i consumatori si stanno sempre più indirizzando verso un consumo omnicanale, utilizzando l’online non più solo come un canale di acquisto alternativo a quello tradizionale, ma anche come una ‘vetrina’, dove poter acquisire informazioni utili su brand e prodotti e così prendere una decisione più consapevole”, ha commentato Roberto Liscia, presidente di Netcomm. “Una conseguenza principale dell’incremento del numero di acquirenti online degli ultimi anni è la richiesta di servizi sempre più personalizzati e che integrino momenti online e offline, garantendo velocità, capillarità, assortimento e costi contenuti”.

Roberto Liscia continua: “Molti settori si trovano ancora in una fase iniziale di trasformazione digitale, per cui la sfida cruciale per loro sarà riuscire ad evolversi velocemente, sfruttando appieno il potenziale delle nuove tecnologie attraverso l’acquisizione di nuove competenze indispensabili a governare la complessità”

sistemi pagamento
I sistemi di pagamento utilizzati (immagine concessa)

C’è di più: “Una misura dello stato di questo processo viene fornita proprio dallo ‘score di ibridazione’, che è cresciuto del 36% negli ultimi tre anni fino all’attuale 3,08 – su un massimo di 10 punti che rappresentano l’integrazione di tutti i principali servizi multicanale, tra cui la possibilità di ritirare in store un acquisto online, di restituire in store un prodotto acquistato online, di consultare online la disponibilità di un articolo in store. È evidente che la strada da fare sia ancora lunga”.

L’omnicanalità come abitudine di consumo

Il digitale oggi non si limita a creare opportunità di acquisto a distanza, ma influisce anche sugli acquisti tradizionali: prima di un acquisto in negozio, in quattro casi su dieci i consumatori consultano almeno un servizio online per acquisire informazioni.

Questo aspetto riguarda principalmente prodotti e servizi che impegnano l’acquirente in un processo di selezione e di valutazione delle alternative, come l’elettronica e l’attrezzatura sportiva, categorie per le quali il fenomeno si rileva in più del 70% dei casi.

Allo stesso tempo, quasi un acquisto online su quattro (il 24%) viene influenzato da una visita presso un punto di vendita fisico. Nel caso dei prodotti per la casa e l’arredamento, la quota di acquirenti che prima di finalizzare l’acquisto online è passata da uno store fisico per vedere il prodotto e chiedere informazioni o consigli è pari al 44%; la rilevanza dello store è elevata anche nel caso di acquisto di Giocattoli, Prodotti Alimentari, Gioielli ed Elettronica.

La digitalizzazione delle insegne retail

Sebbene le abitudini dei consumatori siano sempre più improntate all’omnicanalità e diverse insegne retail italiane offrano la possibilità di acquistare online i propri prodotti già disponibili nei punti di vendita fisici, un’insegna su dieci non si è ancora attivata nell’eCommerce e serve il proprio cliente solo attraverso il canale tradizionale. Negli ultimi anni, comunque, la quota di retailer attivi nell’eCommerce è sensibilmente aumentata, passando dall’83% del 2019 all’attuale 90%.

La crescita costante degli indicatori di multicanalità – come la possibilità di ritiro in negozio di un prodotto acquistato online, il Book&Collect (ovvero la possibilità di ritirare nel punto vendita un prodotto prenotato online) e i punti vendita abilitati al ritiro dei resi – testimonia che le insegne del retail stanno investendo per offrire ai loro clienti una nuova esperienza di acquisto, sempre più integrata tra online e punto di vendita fisico.
Sebbene si tratti di un processo tutt’altro che concluso, per alcune categorie vi sono insegne che offrono già oggi modelli maturi di multicanalità: sono i gioielli, l’elettronica e l’editoria, con uno score di ibridazione di circa 5 punti su 10.

I principali touchpoint: l’importanza del sito e dell’app del brand

La scelta di acquisto online di prodotti, servizi o beni digitali si articola lungo una serie di momenti e touchpoint sia digitali che tradizionali.

online acquisti
L’online aiuta l’acquisto tradizionale (immagine concessa)

Il canale più consultato e rilevante ai fini della scelta di acquisto è la vetrina online del brand (sito o applicazione mobile), dove il consumatore può trovare informazioni e contenuti sul prodotto, a prescindere da dove poi decida di concludere l’acquisto. Le categorie più influenzate da questo touchpoint sono quelle legate ai servizi, il fashion e l’elettronica.

Tra i touchpoint più rilevanti troviamo anche le recensioni prodotte da altri clienti, i siti eCommerce (gestiti dal brand o indipendenti come eRetailer e Marketplace) e i comparatori di prezzi e caratteristiche dei prodotti; questi tre elementi sono particolarmente importanti per le categorie elettronica, home e salute&benessere.

Le modalità di pagamento: il ritorno al Digital Wallet

Gli acquisti online sono in gran parte pagati al momento dell’ordine e solo nell’8% dei casi vengono saldati alla consegna o nel momento di utilizzo del servizio.

Dato che il ricorso al Digital Wallet come sistema di pagamento è sempre stato più frequente sia negli acquisti di beni digitali e servizi che di prodotti fisici, la ripresa degli acquisti di servizi ha modificato i rapporti di forza nelle modalità di pagamento.

Dopo il trend di decrescita negli ultimi anni, il Digital Wallet è tornato a essere il metodo di pagamento più utilizzato con una quota del 35,5% sul numero totale delle transazioni; ha così superato l’utilizzo di carte di credito (26%) e prepagate (24%). Se però consideriamo che gran parte dei pagamenti tramite Digital Wallet si appoggiano su una carta di credito o prepagata, si può affermare la netta prevalenza dell’utilizzo di Carte (82%) per concludere l’acquisto, rispetto a contanti, bonifici, buoni e altro.
Il contante, in particolare, è ormai sceso sotto l’1% dei casi nell’acquisto di beni digitali e servizi e al 3% per l’acquisto di prodotti.

La consegna e il ritiro dei prodotti acquistati online

La consegna dei prodotti fisici acquistati online avviene nell’81% dei casi a domicilio (a casa o in ufficio), a fronte del 16% di casi relativi alle varie modalità di ritiro.

Sebbene continui a prevalere la consegna a domicilio – a causa anche della quota ridotta di insegne retail che offrono la possibilità del ritiro in negozio di prodotti acquistati online – molti acquirenti online non dispongono di un servizio di portineria; perciò, negli ultimi anni, si sono moltiplicate soluzioni alternative come la consegna in luoghi terzi (uffici postali, edicole, bar, ecc.) e presso contenitori automatizzati (locker). Negli ultimi dieci anni le consegne di un acquisto online a un indirizzo terzo sono cresciute di oltre dieci volte.

I driver e il giudizio dei consumatori sull’esperienza di acquisto

La motivazione principale che spinge i consumatori ad acquistare un prodotto o servizio continua ad essere il prezzo ridotto, ma ci sono sempre più ragioni legate anche alla “convenience”: il risparmio di tempo e un’esperienza semplice, veloce ed efficiente sono particolarmente rilevanti nell’acquisto di servizi e beni digitali. Nell’ambito dei prodotti – soprattutto Fashion e Home, ma anche Elettronica, Food e Salute&Benessere – troviamo ai primi posti anche motivazioni legate all’assortimento.

Si tratta di fattori che rendono l’acquisto online in genere molto soddisfacente, con un indice di gradimento in crescita, che nel 2023 raggiunge 8,9 punti su 10. La soddisfazione è particolarmente elevata quando l’acquisto è fatto presso un eRetailer, tipologia di merchant prevalente negli acquisti online (sei su dieci di tutti gli acquisti online e tre quarti degli acquisti di prodotti).

I dispositivi e i canali per l’acquisto

Più della metà (52%) degli acquisti online oggi è originato da un dispositivo mobile; oltre tre quinti di questi avviene su sito Web e l’altra parte via App.
Le applicazioni per smartphone e tablet costituiscono un canale d’acquisto rilevante: la quota di acquirenti via app (su smartphone o tablet) è costantemente cresciuta negli ultimi dieci anni,  fino a superare il 60% nel primo trimestre del 2023; in termini assoluti, si è passati dai 1,8 milioni del 2012 ai 20,7 milioni del 2023.

Gli acquisti tramite smartphone sono più diffusi tra le donne e tra le fasce più giovani di consumatori: per gli individui con meno di 25 anni, due acquisti su tre sono prodotti dal proprio cellulare. Inoltre, questo dispositivo è più frequentemente utilizzato nel caso di acquisti di prodotti e con importi meno consistenti della media. Nel caso dei servizi, il cui scontrino medio è solitamente più elevato, si preferisce il PC. La ripresa degli acquisti online di servizi ha quindi generato una contrazione nella quota degli ordini effettuati da dispositivi mobile.

Anche la scelta per una determinata tipologia di merchant dipende dalla categoria merceologica: i produttori (coloro che forniscono il bene acquistato) sono dominanti nelle assicurazioni e nei Biglietti di viaggio, il Retail tradizionale si distingue per la spesa alimentare, i comparatori per i soggiorni di vacanza e le assicurazioni.

Bologna: dentro il mercato contadino, Caffè Ritrovato dà seconda vita alle cialde

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La città di Bologna (immagine: Pixabay)

Il Caffè Ritrovato del mercato contadino è nato nel 2008 grazie a Slow Food Bologna: si tratta di un’occasione di incontro tra produttori, comunità e tutto ciò che si cela dietro al prodotto finito. A essere coinvolta è la torrefazione L’Albero del Caffè, impegnata da sempre in progetti di cooperazione internazionale. Il prezzo scelto per il Caffè Ritrovato è di un euro, concordato dal coordinatore del Mercato Ritrovato, Giorgio Pirazzoli: entrambi hanno rinunciato al proprio margine per un’idea etica di condivisione.

Un altro aspetto altrettanto importante è quello sostenibile: le cialde usate hanno una seconda vita. Conservate e consegnate ad alcuni vivaisti del mercato, vengono riutilizzate come fertilizzate. Leggiamo di seguito parte dell’articolo di Federica Nannetti per Il Corriere della Sera.

La tradizione

BOLOGNA – “Consola, seduce, vizia; secondo forse solo al vin”: un’ode al caffè in versi. È quasi pronta anche lei, firmata dal presidente uscente del Mercato Ritrovato, Marco Mazzanti, che oltre di questo componimento è una delle anime del progetto appena partito tra piazzetta Pasolini e Magnani della Cineteca di Bologna.

È il Caffè Ritrovato del mercato contadino nato nel 2008 grazie a Slow Food Bologna, un bicchierino fumante di miscela pregiata che è anche un’occasione in più di incontro tra produttori e comunità, di scoperta di un’altra delle realtà del territorio in prima persona e dei volti che stanno dietro al prodotto. A essere coinvolta in questa novità è la torrefazione L’Albero del Caffè, impegnata da sempre in progetti di cooperazione internazionale: a essere servito è il caffè della cooperativa Samac dei Maya Q’uetchìs della Valle Escondida nel Guatemala, una tazza dal corpo che cambia, all’inizio vellutato per poi scomparire e tornare setoso.

Un prezzo popolare

Sono una cinquantina coloro che il sabato portano i propri prodotti agricoli, alimentari o artigianali, a chilometro zero e a prezzi equi, negli spazi della Cineteca. Il prezzo scelto per il Caffè Ritrovato è di un euro, concordato da Baschieri e dal coordinatore del Mercato Ritrovato, Giorgio Pirazzoli: entrambi hanno rinunciato al proprio margine, così da portare avanti un’idea etica di condivisione e di accoglienza, un dono da parte loro per rendere sempre più solida la propria rete di relazioni.

Qualche bar che a Bologna fa il caffè a un euro, a differenza di chi applica rincari esorbitanti, ancora c’è, come La Linea sotto palazzo Re Enzo o Gianni Vini in via Venturini, ma la filosofia qui in Cineteca è ancora diversa: vi è una visione lontana dallo scopo di lucro, a favore dell’incontro con il torrefattore che, in questo caso, lo si può chiamare anche “cafferaio – aggiunge Baschieri –. L’ha coniata mio figlio questa definizione che, parlando con i suoi amichetti, mi ha descritto come l’operaio del caffè che mette le mani in pasta”.

La seconda vita delle cialde

Ma c’è anche un altro aspetto altrettanto importante ed è quello ambientale: le cialde usate (non capsule) hanno una seconda vita. Conservate e consegnate ad alcuni vivaisti del mercato, vengono riutilizzate come fertilizzate e come antizanzare: “Aprendole, una volta consumate, si sente ancora il profumo del caffè – è la prova in diretta con il torrefattore –: è segno di qualità”. Un esperimento che avviene di fronte a un vivaista in più da coinvolgere, la Val dei Fiori di Ponte Rizzoli, che va ad aggiungersi al Vivaietto di Zola Predosa e a La Bargazzina. È la rete che si estende, “è un modo per rendere ricco il territorio”, conclude Pirazzoli.

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Starbucks arriva a Bari nella strategica via Argiro

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Il logo di Starbucks

BARI – Dopo l’apertura a Roma a Montecitorio (ne abbiamo parlato qui), l’ombra della sirenetta si sta proiettando anche su Bari. Il nuovo store della nota catena di caffetterie sarà ubicata in via Argiro, civico 112: si tratta di una strada particolarmente nota e trafficata del capoluogo barese.

Il nuovo store Starbucks a Bari

Non si hanno ancora notizie sulla data di apertura, ma la catena ha già condiviso le offerte di lavoro per la ricerca di personale.

Starbucks aveva annunciato a marzo dell’anno scorso che lo store a Bari avrebbe richiesto tempo per aprire ma che, una volta selezionato il personale, l’inaugurazione del locale avrebbe visto un’accelerazione.

Autogrill firma la nuova Food Court nell’aeroporto di Roma Fiumicino

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Berlucchi Franciacorta Sparkling Bar all'aeroporto di Roma Fiumicino (immagine concessa)

MILANO – Autogrill inaugura una nuova Food Court al Terminal 1 dell’aeroporto di Roma Fiumicino, consolidando la sua presenza in uno tra i principali scali aeroportuali nazionali in termini di collegamenti e di numero di passeggeri trasportati.

“Si consolida ulteriormente, all’esito di una procedura competitiva cui hanno partecipato alcuni tra i principali operatori del settore, la nostra presenza a Roma Fiumicino, una delle più importanti porte d’ingresso in Italia, ampliatasi considerevolmente negli ultimi anni e sempre più hub di innovazioni tecnologiche”, ha commentato Massimiliano Santoro, ceo Italy di Autogrill.

Autogrill inaugura la nuova Food Court

“L’aggiudicazione della procedura di gara indetta da Aeroporti di Roma testimonia il percorso di crescita e sviluppo di Autogrill, che mette al centro l’innovazione e la ricerca, la valorizzazione delle eccellenze gastronomiche e l’attenzione ai gusti dei consumatori, continuando a investire nell’ideazione di concept in grado di soddisfare qualsiasi tipo di esigenza su tutti i canali di viaggio”, ha proseguito Luca D’Alba, general manager di Autogrill Italia.

La Food Court, che si aggiunge alle altre due con cui il Gruppo è presente sia al Terminal 1 che al Terminal 3, include quattro nuovi concept in grado di soddisfare i più svariati gusti dei viaggiatori: dal ristorante nippo-brasiliano Temakinho al casual dining restaurant Sophia Loren per una sosta dal sapore partenopeo, dalla caffetteria Alemagna per chi desidera assaporare un espresso all’italiana al Berlucchi Franciacorta Sparkling Bar, dove gustare calici di Franciacorta della storica azienda.

Temakinho

Temakinho, celebre ristorante specializzato in cucina nippo-brasiliana, a seguito dell’apertura di successo a Milano Linate, porta anche a Roma Fiumicino il gusto esotico e ricercato dei suoi piatti, in un ambiente dal design contemporaneo. Gli ambienti accoglienti e moderni, la musica e i colori creano un’esperienza appagante per tutti e cinque i sensi.

Sophia Loren Restaurant

Sophia Loren è un casual dining restaurant pensato per offrire ai viaggiatori i sapori dell’autentica cucina italiana, principalmente partenopea, anche attraverso l’immagine simbolo dell’italianità nel mondo, Sophia Loren. Con un’offerta ricercata e di qualità, il concept richiama l’Italia della Dolce Vita grazie a un ambiente glamour che offre anche la possibilità di gustare ostriche fresche nel corner ostricaro fisico.

sophia lauren autogrill
Sophia Loren Restaurant (immagine concessa)

Alemagna

Lo storico brand di Autogrill, Alemagna caffè pasticceria, combina tradizione ed eccellenza con creatività e innovazione, proponendosi ai consumatori come luogo ideale per godere del piacere di un ottimo espresso all’italiana accompagnato da dolci profumi di pasticceria o da panini dalla farcitura delicata. A seguito dell’apertura a Milano Linate, apre anche a Roma Fiumicino, progettato secondo le Green Store Guidelines e il protocollo LEED per ridurre i consumi idrici ed elettrici, proponendo un restyling completo dello storico brand grazie alla sua offerta innovativa.

alemagna autogrill
Alemagna (immagine concessa)

Berlucchi Franciacorta Sparkling Bar

Guido Berlucchi, la cantina che diede vita alla prima bottiglia di Franciacorta nel 1961, insieme ad Autogrill sviluppa un format di wine bar del tutto nuovo per i passeggeri di Fiumicino, che possono gustare un ottimo calice di Franciacorta accompagnato da piatti freddi o caldi preparati con ingredienti e materie prime selezionate.

Dagli ambienti ricercati e creati con materiali naturali, Berlucchi Franciacorta Sparkling Bar vanta anche un menu d’autore, firmato dallo chef stellato Gennaro Esposito.

Anversa-Bruges: nuova porta d’ingresso alle Fiandre del caffè

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Chicchi di caffè tostato (credits: Alexa from Pixabay)

ANVERSA-BRUGES (Belgio) – Il caffè apre nuove rotte di sviluppo che vede come protagoniste l’Italia e le Fiandre nel porto di Anversa-Bruges, il primo importatore europeo dei chicchi.

Il porto di Anversa-Bruges

“La recente fusione dei due porti delle nostre città – ha spiegato Marleentje Verstreken, capo missione economica Flanders Investment & Trade, come riportato sul portale d’informazione TTG Italia – ne fa oggi uno dei poli logistici più all’avanguardia in Europa insieme a Trieste, oltre che lo scalo crocieristico di maggiori dimensioni nell’intero Benelux”.

Koffiecafe, l’Associazione reale belga delle torrefazioni, compie quest’anno il suo 80° anniversario.

Viaggio alle origini del caffè guatemalteco: dal chicco alla tazzina

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La tracciabilità del chicco

Ogni chicco guatemalteco è un concentrato di natura e cultura che cresce su terreni vulcanici fino a duemila metri di altezza. L’eccellenza del caffè è fatta di singoli dettagli, piccoli gesti di perizia e passione. Dagli altipiani del Guatemala proviene una delle qualità migliori al mondo. Leggiamo di seguito la storia e la produzione del caffè guatemalteco grazie alla prima parte dell’articolo pubblicato sul Corriere della Sera.

Il caffè guatemalteco

MILANO – Vi siete mai chiesti cosa si nasconde fra gli aromi avvolgenti di un autentico espresso italiano? Avete mai pensato al viaggio che ogni chicco compie prima di arrivare alla tazzina? Siamo la “patria” del caffè, il paese dove si beve il migliore al mondo, la nazione che ha trasformato il suo consumo in un vero e proprio rito quotidiano irrinunciabile.

La tradizione delle storiche torrefazioni ci ha permesso di sviluppare un know how ineguagliabile, fatto di ricerca delle migliori materie prime e massima cura in ogni fase della filiera, dalla selezione delle miscele più pregiate all’uso delle antiche tecniche di lavorazione, come la tostatura lenta e delicata.

Ma quando parliamo di caffè non dobbiamo dimenticarci che tutto comincia molto lontano, tra le nazioni della cosiddetta Coffee belt, la fascia equatoriale che corre dal Tropico del Cancro al Tropico del Capricorno. È lì che si creano le condizioni climatiche ideali per lo sviluppo della Coffea, la pianta da cui nasce la bevanda nera che ogni giorno più della metà degli italiani sorseggia con gusto.

Altura vuol dire qualità

Per le aziende specializzate nella scelta e nella tostatura dei chicchi, visitare le farm si rivela un’esperienza fondamentale. Solo così possono controllare direttamente la crescita delle piante, ma anche conoscere da vicino le antiche tradizioni e le dinamiche economico-sociali che ruotano intorno alla produzione. Solo così possono comprendere fino in fondo il valore che ogni chicco porta con sé, rendendo unica ciascuna miscela.

L’eccellenza del caffè è fatta di singoli dettagli, piccoli gesti pieni di perizia e passione. Dagli altipiani del Guatemala proviene una delle qualità migliori al mondo. Quello guatemalteco è un caffè d’alta quota: il Paese è ricco di vulcani, foreste e rilievi montuosi, dove le piante crescono fra i mille e i duemila metri.

Un’altimetria che garantisce particolare ricchezza aromatica ai frutti, conferendo una nota di acidità molto ricercata fra i torrefattori più esigenti e rigorosi. Il profilo sensoriale dei chicchi è una combinazione fra i minerali dei suoli vulcanici e il microclima di montagna, che sancisce l’incontro fra venti freddi e sole potente.

Le piantagioni hanno piccole dimensioni e si “arrampicano” sui sentieri che conducono alle foreste. Quanto di più lontano dalle monocolture intensive. I campi del caffè guatemalteco, infatti, sono custodi di biodiversità, perché le piante hanno bisogno dell’ombra di alberi ad alto fusto a protezione dai raggi solari.

Una comunità fondata sulle piantagioni

Un simile paesaggio richiede lavorazioni manuali e forza lavoro notevole: è quella che potremmo definire un’agricoltura eroica. Si sale lungo ripidi sentieri con un cesto legato alla vita, raccogliendo una ad una le bacche rosse giunte a maturazione. Poi i frutti vengono spolpati, asciugati, setacciati ed essiccati al sole e nei dry mill, così da essere selezionati e spediti. Un’attività che mescola fatica e senso di comunità, canti popolari e dialetti maya, in un vortice di colori tipici dei popoli di questi altipiani. Nelle sette regioni guatemalteche del caffè i piccoli produttori sono riuniti in cooperative e rappresentano la quasi totalità della filiera. Uno scambio di favori fra uomo e natura che dà buoni frutti.

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