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Misceliamo Coffee Emotion: la startup di Pietro Chiarella guidata dalla passione

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MILANO – Il caffè è una bevanda che continua ad ispirare anche quando riguarda la nascita di nuove idee imprenditoriali. E’ il caso di Misceliamo Coffee Emotion, la startup romana già comparsa su questo portale, e ora raccontata dal suo stesso fondatore, Pietro Chiarella. Uno sguardo dall’interno di questo coffee lab dove la cultura del caffè è il motore principale che muove in avanti il progetto ideato nel 1996.

Pietro Chiarella. Com’è nata l’idea di far partire il vostro progetto? Un viaggio nella piantagione brasiliana di famiglia, passione?

“La mia passione per il caffè è dietro un inizio un po’ amatoriale: ho deciso di farla trasformarla in una professione attraverso dei corsi di professionali. Da lì, sono entrato in contatto prima con Aicaf e poi con Sca. Così ho potuto conoscere i personaggi chiave di questo mondo. Con Andrej Godina ad esempio e poi ho dato i tre esami Sca su Green, Roastery e Sensory.

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Pietro Chiarella: un amore per il caffè che ha origini lontane

“Ero già appassionato e avevo fatto dei corsi di degustazione. Poi nel 2014 ho compiuto un viaggio itinerante che ha compreso tra le sue tappe, anche Chapas. Ho proprio attraversato le piantagioni e ho coinvolto il gruppo di australiani con cui viaggiavo, in un’esperienza degustativa fatta durante un pomeriggio. Assaggiando il risultato di vari metodi che poi ho voluto replicare nella mia attività.”

Un anedetto personale di Pietro Chiarella

“Ho anche dei parenti che vivono in Brasile. I quali hanno anche lavorato in una piantagione di caffè. Quindi fa parte un po’ del mio dna. Inoltre, io arrivo dal mondo delle tecnologie, un settore un po’ impersonale e razionale. Il caffè, così come poteva esser il vino al quale comunque mi sono avvicinato, mi dà invece l’idea di gusto, di sensi.

Un aspetto di artigianalità che richiama un aspetto più emozionale. Proprio da qua il nome della mia startup: Misceliamo deriva dalla crasi miscela e amore. Poi segue la parola emotion: perché, quando comincio a parlare di caffè, riesco a trasferire la mia passione al mio interlocutore.”

Il nome è “misceliamo”: avete deciso di puntare più sulle miscele o sulle monorigini?

Risponde pronto Pietro Chiarella: “Quando ho iniziato con questa attività mi sono subito imposto un approccio professionale. E anche per la scelta del nome, mi sono rivolto a un’agenzia pubblicitaria. Attraverso mesi di analisi e interviste, è nato questo marchio. Che dà l’idea anche a chi non è addetto ai lavori, a un’associazione rapida con il caffè, soprattutto in Italia. Dagli anni ’60 siamo stati un Paese che si è distinto per la tostatura e la miscela.

Poi è nato il coffee shop, all’interno del quale vendiamo le monorigini che è anche il prodotto più venduto. Ai clienti piace sperimentare dei caffè diversi, che permettono di fare nuove esperienze. Gli specialty funzionano allo stesso modo. Abbiamo una linea di miscele che noi chiamiamo “elementi”: Aria, Terra e Fuoco. Che sono le caratteristiche dei caffè utilizzati in miscela: Aria ad esempio è un caffè molto aromatico, delicato, con 100% arabica. Terra ha un 25% di Robusta. Fuoco è una miscela un po’ più forte, che si lega al gusto più del Sud Italia.

Invece, per quanto riguarda i monorigine, l’etichetta è Origo: da una parte sono gli stessi che utilizzo all’interno delle miscele. Poi offriamo anche una linea specialty, i Superior: tra cui ci sono anche i caffè molto particolari e pregiati. ”

Vi definite startup artigianale, con laboratori e la ricerca di specialty coffee: eppure nella vostra offerta ci sono cialde e capsule, spesso considerate a torto o a ragione, come delle soluzioni non tanto ideali per chi ama la qualità e la sostenibilità.

Qual è la vostra posizione a riguardo?

“Effettivamente capsule e cialde sono un po’ la quintessenza del prodotto industriale. E, aggiungo che proprio questo prodotto era quello da cui voleva partire la mia startup. Infatti, ancor prima di seguire i primi corsi di tostatura, mi ero posto come missione il portare in capsula una materia artigianale. Ho fatto produrre a Bologna una confezionatrice italiana per micro lotti, Itala, che permette di creare dei micro lotti di 25-26 capsule, a seconda delle esigenze individuali. Personalizzando le miscele in tiratura limitata. E che rende possibile anche il cambio di formato, in modo che siano compatibili con i più grandi sistemi di single-service come Lavazza A Modo Mio e Nespresso.

Ecco il video dimostrativo di come funziona la confezionatrice

Continua Pietro Chiarella

“Ed ecco come siamo riusciti a sposare il discorso dell’artigianalità e di caffè di qualità, con quello delle capsule. Mettiamo al loro interno lo stesso tipo di caffè che poi proponiamo in grani e altre versioni. Legato a questo discorso, abbiamo deciso di realizzare una carta dei caffè. Che contengono 7 caffè: i 3 blend e i 4 monorigine, tre Arabica e una Robusta. Si può scegliere a seconda delle caratteristiche in cialde e in espresso. “

Quali sono le iniziative attraverso qui comunicate e diffondete la cultura del caffè? Il consumatore italiano è restio, oppure ricettivo?

“Noi siamo partiti nel 2016 con un coffee shop con laboratorio a vista a Roma. Al suo interno organizzavamo delle degustazioni gratuite di caffè. Proprio per avvicinare il mondo del caffè e i metodi di estrazione al consumatore medio. E andare oltre l’espresso. Esponevo le diverse attrezzature come il V60 e il Chemex e utilizzavo caffè specialty.
Ma è un’esperienza che ho dovuto terminare, con la chiusura del locale: in Italia, fare impresa è una missione.

Ancora di più nel settore caffè: io l’ho fatto per passione, ma non è una fonte di reddito. Si entra in dinamiche difficili da gestire. Quindi a dicembre ho chiuso il coffee shop perché non riuscivo a coprire le spese. Tuttavia, continuo a vendere online e attraverso dei corner ai clienti che si sono fidelizzati.

Ora, all’interno del ristorante Mamma Nanà, anch’esso nostro cliente, ci sarà un corner con i nostri caffè. In questo angolo in via Flaminia 508 a Roma, ogni fine settimana organizzeremo degli eventi di degustazione. Somministrando a tutti gli effetti le nostre proposte, diversificando anche l’offerta. Con l’abbinazione della bakery al caffè. Sarà a tutti gli effetti una caffetteria, con la possibilità di consumare prodotti tipici della pasticceria nell’ottica di un’alta qualità.”

Dentro i vostri corner, il caffè ha sempre il classico costo di un euro a tazzina, oppure avete voluto osare alzando il prezzo?

“E’ un altro problema tutto italiano. Abbiamo senza dubbio la miscela di base a un euro a tazzina. Ma la proposta di monorigine e specialty che andranno oltre questo limite, giungendo sino al più costoso, ovvero il Jamaica Blue Montain. E’ chiaro che andrà dai 2 euro e 50 ai 4 euro. A seconda dei metodi di estrazione, i prezzi cambiano. Per la materia prima, per la preparazione, per i tempi di erogazione e poi per la parte di comunicazione sulla quale io insisto per instaurare un dialogo con il cliente. E avvicinarlo a questo nuovo mondo.”

Ci sono caffetterie specialty a Roma, come Fax Factory o il Faro: vi definireste così anche voi, siete in contatto, fate rete?

Il Faro e il Pergamino sono i due che mi vengono in mente in assoluto. In questo mondo ci conosciamo tutti. Ho partecipato anche al Mercato Centrale di Roma e Firenze a degli eventi sul caffè e lì avevo conosciuto i proprietari de Il Pergamino. Ma siamo in contatto anche con il gruppo di Faro. Frequentiamo spesso gli stessi ambienti. Ovviamente formiamo una comunità accomunata dalla stessa passione.”

Proponete i vostri caffè anche ai ristoranti: in che modo scegliete a chi presentare il frutto del vostro lavoro? Sono tutti disponibili a inserire dei caffè particolari nei propri locali?

“Ovviamente il mondo del caffè è molto competitivo. Quindi è necessario diversificarsi. Io per questo ho deciso di non rivolgermi ai bar, perché è un mercato legato alle logiche dei torrefattori. Ho voluto invece allontanarmene e fare qualcosa di diverso: proporre i miei caffè a dei piccoli bistrot e ristoranti.

Ho partecipato a diversi eventi enogastronomici o a tema vino, oppure di caffè, dal 2016 in poi. Sono così entrato in contatto con gli addetti ai lavori del settore ristorativo. Ho fatto in questo modo una selezione di clienti che hanno dei locali ricercati, che vuole proporre qualcosa di particolare non solo sul cibo, gli ingredienti, ma anche sul caffè. Sono pochi ma attenti.”

Avete adottato anche la carta del caffè, come quella del vino: come reagiscono i vostri clienti? E perché avete deciso di utlizzarla?

“Quello che a me sembrava inizialmente un’idea innovativa, si è dimostrata complessa da comunicare ai ristoratori. Che sono concentrati su altri aspetti, come quello logistico: avere sette caffè significa rendere complicato anche il lavoro del barista. Che dovrebbe essere anche un po’ sommelier del caffè per poter guidare il cliente. Un consumatore che è però più consapevole sul vino, ma sul caffè ancora non ha quella sensibilità che lo porta a chiedere un’offerta particolare.

La carta dei caffè

Io con l’esperienza, ho notato che nel tempo, gli stessi ristoratori tendono a ridurre l’offerta dai 7 caffè della carta a soli 2. Scegliendo magari per le miscele che incontrano in qualche modo il gusto dei consumatori e semplifica il loro lavoro.
Se sono io a raccontare i caffè, è un metodo che funziona e viene comunicata bene al consumatore finale. All’interno dei locali ci sono più difficoltà. Non sono stato il primo a pensare di proporre la carta dei caffè e, a volte, ho incontrato dei clienti che hanno voluto sperimentare persino i 7 blend. “

Pensate che nei ristoranti sia necessario, per fare la differenza, avere a disposizione un vero sommelier del caffè che sappia guidare la scelta a chiusura del pasto?

“Il problema ovviamente è riuscire a unire tutti gli aspetti: il valore percepito del caffè per un italiano è di un euro, ma non si valuta assolutamente la pulizia, l’attenzione nella preparazione, la conoscenza della materia prima. All’estero, quando sono entrato alla Roastery di Seattle, ho pagato un Chemex 14 dollari. E’ una grande differenza che in Italia non riesce ancora a passare.

Il sommelier dell’espresso è stato il primo corso che ho seguito ad Aicaf. Che mi ha aperto gli occhi nel 2014 su questo universo.”

I progetti futuri di Pietro Chiarella

“Ho tante cose in mente. Ho sempre avuto l’idea di fare ancora qualcosa di itinerante: per ora però questo sogno si è scontrato con le troppe pratiche burocratiche. Ho impiegato 10 mesi per aprire il locale: è stato allora che ho assaggiato per la prima volta la reale difficoltà per aprire una propria attività, a livello di regolamenti da rispettare, soprattutto a Roma.

Una cosa decisamente diversa da ciò che avviene all’estero.

Invece qualcosa di realizzabile parte proprio dal corner: pensare a degli angoli dedicati al caffè all’interno di spazi destinati ad altro. All’estero mi viene in mente l’esempio de La Marzocco, che si è inserita in diversi locali che in realtà vendono dischi, libri e altro.

Vorrei raccogliere questo loro modello e replicarlo dentro realtà che non sono specializzate nella vendita del caffè. Unendo il mondo della bakery per completare l’esperienza.
Il mio sogno resta replicare in piccolo, il modello di Starbucks a Milano: un laboratorio del caffè che mette in mostra tutta la trasformazione del caffè, dal verde, al tostato, sino alla tazzina.

Ho pensato anche di comprendere in questa offerta anche la mixology. Avevo dato il mio primo Burundi e il Guatemala monorigine, a un ragazzo che competeva per la selezione regionale di mixology di Aicaf: Luciano Muia. Quindi sì: la diversificazione è importante, cercando però che l’identità iniziale della propria impresa non si perda. Anche da Faro, l’origine di caffetteria specialty si è trasformata in punto di ristoro in senso più ampio, comprendendo i pasti.”

Ad oggi, fatte le dovute considerazioni: Pietro Chiarella continuerebbe su questo percorso accidentato?

“Sì. Perché la sento quasi come una missione. Misceliamo Coffee Emotion è la mia creatura, frutto del mio tempo, delle mie risorse. Nasce e continua a vivere alimentata dalla mia passione. Quando io assaggio, tosto, racconto il caffè, gli occhi ancora mi si illuminano. Quindi non può che essere una strada da seguire. Sono convinto che, procedendo sulla via della qualità e formazione, si possano avvicinare le persone al mondo dello specialty. “

di Simonetta Spissu

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