giovedì 11 Aprile 2024
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Lo Starbucks di Milano? Serve soprattutto a fare conversazione

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MILANO – Tutti ne parlano e ciascuno vuole dire la sua. Starbucks sembra essere diventato uno degli argomenti di conversazione preferiti dei milanesi in questo ultimo scorcio dell’estate.

La gamma delle opinioni e delle reazioni è molto ampia. A volte prevalgono lo sdegno e l’orgoglio sovranista (“il caffè di Starbucks è una ciofeca!).

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In altri lo sfoggio di cosmopolitismo (“Quando sono a New York frequento sempre lo Starbucks di Park Avenue …”). Che spesso è semplice “copia-incolla” delle recensioni lette cinque minuti prima su Tripadvisor.

Alberto Bassi, critico del design, ha voluto spostare il dibattito in un ambito diverso. Quello della strutturazione degli spazi all’interno del locale milanese, rispetto alla sua funzione di terzo luogo.

Ecco l’analisi proposta nelle colonne del Fatto Quotidiano

Possono essere compiuti diversi tipi di valutazioni (socio-economico, culturale o politico) rispetto all’arrivo dell’americana Starbucks in Italia.

Allo stesso modo è possibile disquisire e dissentire sulla proposta di un’altra idea di caffè; certo eretica per gli esegeti dell’espresso nostrano. Ma che si è affermata come format internazionale, a partire – vuole la leggenda – proprio dalla frequentazione del gran capo Howard Schultz di un locale milanese nel 1983.

La logica delle scelte progettuali

Senza entrare in questi massimi sistemi, ho voluto guardare a come è stato concepito per quanto riguarda il rapporto con il pubblico, l’organizzazione degli spazi, i servizi offerti; insomma la logica delle scelte progettuali, evidentemente collegate a condizioni e contesto di mercato, committenza, economia e risorse.

Scelte che per necessità provano a interpretare (e quindi possono essere interessanti) i modi di vivere, le aspirazioni e l’immaginario di qualcuno o di molti, a veder le lunghe code di persone in questi giorni, mosse da pubblicità, buona comunicazione. Assieme alla logica onnipresente dell’Evento.

Starbucks in giro per il mondo è sinonimo di luoghi dove si servono diversi tipi di caffè. Ma dove soprattutto è possibile sostare a parlare, leggere, studiare, lavorare, circondati da arredi semplici e accoglienti, con un servizio amichevole.

Una nuova formula

Da qualche anno solo a Seattle e Shangai è stata introdotta la formula nuova del Roastery, che esibisce il processo produttivo e preparatorio del caffè con macchinari in bella vista e spazi divenuti più ampi e conviviali.

Questa è la ricetta proposta a Milano, che spiazza rispetto all’idea medium-profile della catena che tutti conosciamo. Ricetta integrata da un deliberato e dichiarato omaggio all’Italia, con il cibo di Princi.

Ma soprattutto la novelle vague del food italiano, con il gelato molecolare all’azoto del torinese Alberto Marchetti. Fino al recupero dell’icona degli strumenti di segnalazione a palette di Solari, storica presenza in aeroporti e stazioni, precocemente pensionati in nome di una fraintesa idea di rinnovamento tecnologico permanente, anche senza necessità.

Il teatro

Un interno quindi a metà strada fra torrefazione, luogo della produzione e del servizio, dove materiali e arredi, realizzati con artigiani e imprese nostrane, definiscono in sostanza una scenografia, una sorta di messa in scena dello spettacolo della preparazione e della fruizione del caffè, o meglio di un certo tipo di caffè.

In verità, omaggio ai tempi, avevamo già assistito alla parziale messa in discussione del rito dell’espresso domestico o da bar soppiantato dall’inodore, incolore, spesso insapore, cialda in plastica e macchinetta relativa.

Indipendentemente dalle possibili letture, dall’affinità e rispondenza ai gusti individuali, lo Starbucks milanese sembra registrare e proporre un nuovo standard per i locali pubblici.

In particolare per lo storico caffè, non diversamente da come era accaduto anni fa, ad esempio, con Eataly per la grande distribuzione food.

Messaggio per gli architetti

La progettista Liz Muller – nata olandese, poi passata per Sud Africa e Stati Uniti – afferma con orgoglio di essere partita nella concezione dello Starbucks milanese “dalla fine”. Immaginando cioè cosa avrebbero voluto le persone, cosa sarebbe stato giusto far trovare perché fossero a loro agio, avessero una esperienza gradevole e gratificante.

Messaggio per architetti-star e arredatori (e i loro committenti e agiografi): il tempo dell’auto-rappresentazione del proprio super-ego, senza o poca cura per persone, ambiente e fruizione, è ormai finita.

Ma alla fine certamente, parafrasando quanto diceva il divo Philippe Starck a proposito di un suo oggetto e gli inglesi a proposito del weather: Starbucks non serve (solo) per bere il caffè, servirà (anche) per fare conversazione.

Alberto Bassi

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