lunedì 15 Aprile 2024
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Ma gli esercenti dicono no al locale smart: spesso non è fattibile né conveniente

«Noi di solito ci basiamo sul riciclo continuo di persone. Prendono la focaccia, un caffè o un gelato e tornano a lavoro», racconta Mirco Di Iacovo, proprietario di Matò, trenta metri quadrati in via XX Settembre. «L’unica cosa che ci sta aiutando è la cassa integrazione. Finita quella, se gli impiegati pubblici non torneranno in ufficio per noi sarà veramente dura»

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MILANO – Se da una parte i rappresentanti di categoria spingono verso una tecnologizzazione del servizio all’interno dei locali, per intercettare la tendenza dello smartworking e sfruttarla a favore degli incassi trasformando i locali in nuovi uffici, dall’altra ci sono gli esercenti. Che hanno una opinione ben diversa da quella espressa dai piani alti, e che mostra tutti i limiti di questa visione quasi utopistica. Riportiamo le loro voci dall’articolo di Claudio Rinaldi su roma.corriere.it.

Esercenti poco convinti del locale smart

Per bar e ristoranti vicini agli uffici arriva una cattiva notizia: un impiegato pubblico su tre a settembre continuerà a lavorare dal pc di casa. Lo smart working non piace infatti agli esercenti che face-vano affidamento soprattutto sulla pausa pranzo dei dipendenti. «È un disastro». «Qui prima del lockdown c’era la fila fuori». «Abbiamo perso il 70% dei guadagni».

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«Se continuiamo così è la fine». Dal centro alla periferia la frustrazione dei proprietari è comune. Tanto che la Confcommercio ha un’idea per trasformare la crisi in un’opportunità: aprire bar e caffetterie al lavoro da remoto.

È il modello Starbucks, ovvero digitalizzare gli esercizi con connessioni veloci e postazioni adeguate. «Il bar deve diventare un punto di riferimento della vita quotidiana – ha detto ieri al Corriere Luciano Sbraga, presidente di Fipe Confcommercio -, “la casa fuori casa”».

Cosa ne pensano però i diretti interessati?

Alessio Mattei è uno dei soci del bar Fagiano, piazzale di Porta Pia. Il suo locale è aperto da settant’anni ed è circondato da ministeri. Davanti c’è quello dei Trasporti, a pochi metri c’è quello dell’Economia e il palazzo delle Ferrovie dello Stato, dove in tempi normali lavorano quasi quattromila persone. «Adesso – commenta, allargando le braccia – ce ne saranno sì e no un centinaio». Il bar di Mattei ha una sala interna con la tavola calda che al momento resta chiusa. «L’idea della Confcommercio non ha senso perché – afferma – molti dei dipendenti abitano lontano da qui. Non potrebbero mai venire da noi, attraversando la città con tutti i disagi del traffico, quando hanno la possibilità di starsene tranquillamente a casa».

Andrea Vietri è il proprietario di Vero, tre punti vendita in tutta Roma (uno all’Eur, uno a Prati e uno in via XX Settembre). «Due anni fa ho introdotto “il menu Coffees”, caffè e wi-fi illimitato a 8 euro. L’obiettivo era trasformare il locale in un coworking, dove si potesse lavorare stando al bar e non in ufficio. Non ha funzionato perché – spiega – non appartiene alla nostra cultura, ma a quella anglo-sassone. Aggiunga pure che, a causa del coronavirus, dei cinquemila dipendenti delle Poste, all’Eur, per ora ne lavorano in ufficio sì e no quattrocento». Così ha puntato tutto sul take away: piatti pronti, tempi di attesa minimi e buoni pasto. «Se sei in smart working non hai il ticket. Allora – si chiede – perché mai dovresti venire a consumare a tue spese in un bar, quando puoi risparmiare e magari badare anche ai tuoi figli?».

Il problema poi per molti esercenti è rappresentato dagli spazi

«L’idea è ottima se hai però un locale grande», è il commento di Giovanni Rinelli, bar Gianni in via di San Basilio, a due passi da piazza Barberini. Di solito all’una e mezza le persone sono in fila sul marciapiede, adesso invece c’è solo una ragazza che ha appena preso un tramezzino da due euro e cinquanta. «La mia saletta è piccola. Con le restrizioni Covid ci entrano al massimo dieci persone. Non potrei mai consentire ai clienti di occupare i tavoli per tante ore consecutive».

Torniamo a due passi dai ministeri. «Noi di solito ci basiamo sul riciclo continuo di persone. Prendono la focaccia, un caffè o un gelato e tornano a lavoro», racconta Mirco Di Iacovo, proprietario di Matò, trenta metri quadrati in via XX Settembre. «L’unica cosa che ci sta aiutando è la cassa integrazione. Finita quella, se gli impiegati pubblici non torneranno in ufficio per noi sarà veramente dura».

Il progetto della Confcommercio coinvolge non solo bar, ma anche ristoranti. «Il nostro locale non è adatto», dice Umberto Cordova dell’Osteria da Paolina, via Domenico Cimarosa. Nei paraggi ci sono la Zecca di Stato, la Consob e alcune banche. «La nostra clientela è fatta di impiegati e dirigenti. Ci interessa solo che tornino presto in ufficio. Ci basta questo».

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