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Edy Bieker (Sandalj): Mai prescindere dalla qualità del prodotto finale in tazza

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MILANO – Due interviste parallele alla vigilia di Triestespresso Expo. Edy Bieker, qui (nelle foto), ed Enrico Meschini, a parte, due dei padri del caffè di qualità per l’espresso italiano, rispondono ad una serie di domande difficili su temi fondamentali.

Dalla tracciabilità al prezzo al futuro del caffè in Italia.

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Con risposte fondamentali ad argomenti che troppi cercano di evitare e che pure sono decisivi per lo sviluppo del settore. Ma ascoltiamo Edy Bieker.

Un caffè con una provenienza certa è sempre un caffè superiore?

Edy Bieker: No: l’unica certezza che possiamo avere sulla superiorità qualitativa è data dalla tazza. Spesso mi sono trovato ad assaggiare dei caffè che non avevano una provenienza certa, eppure avevano delle caratteristiche aromatiche superiori o viceversa. Tuttavia, sempre di più si sente parlare di qualità perché la materia prima arriva supportata da un qualche certificato. È importante capire che si può sapere tutto riguardo a quel caffè, ma se questo è stato lavorato male, non per forza sarà un caffè superiore.

Ma allora un certificato di origine che valore aggiunto può dare a una materia prima di qualità?

Quello di riuscire a capire esattamente ciò che è avvenuto nel corso della vita di quella materia prima, dal chicco seminato in terra, fino all’estrazione e alla trasformazione finale da corpo solido a liquido. Sono delle notizie in più che ci fanno capire che la filiera e le lavorazioni hanno mirato alla qualità, anche se temo che la loro rilevanza commerciale sia maggiore rispetto a quella informativa. Attenzione però che parlare di “origine” è molto limitativo: il concetto deve essere molto più ampio e profondo.

D: In che senso?

Spesso i produttori, i crudisti e quelli che immettono al consumo il prodotto finito sfruttano le informazioni sull’origine della materia prima per creare curiosità a livello commerciale, dando poca importanza al caffè dal punto di vista organolettico. Non dimentichiamo poi che l’indicazione generica di un paese d’origine significa ben poco, data la vastità e diversità di questi stati.

Come si pone il consumatore di fronte al nuovo ingresso delle singole origini fino al banco del supermercato e che valore ha questa scelta per il torrefattore?

Le informazioni sull’origine e sulla preparazione del caffè venduto al supermercato stuzzicano la curiosità del cliente, che però è portato erroneamente a credere che più informazioni vengono date sul prodotto, migliore sarà la sua qualità. Ci si illude che il consumatore finale sia veramente in grado di distinguere a livello qualitativo quello che gli viene proposto, ma su questo ho qualche dubbio, perché sappiamo bene che il bagaglio culturale sul caffè dell’utente ultimo è molto limitata.

Con questo non voglio dire che tutto il caffè certificato in circolazione sia di basso livello: esiste sempre chi lavora in maniera assolutamente valida. Ma non bisogna mai prescindere dalla qualità del prodotto finale in tazza. È indispensabile creare curiosità, dare al consumatore finale la possibilità di poter scegliere secondo il suo gusto personale. Solo così la richiesta si amplierà e lentamente, ma inesorabilmente, il consumatore diventerà consapevole.

Specificare cosa sta bevendo è di certo aiuto in tutto ciò, anche se penso gli basterebbe conoscere l’origine, la zona di produzione, il tipo di lavorazione e una sintetica ma realistica descrizione organolettica, non necessariamente quanti figli abbia il produttore per iniziare a riconoscere e scegliere il caffè di qualità. Solamente un consumatore cosciente permetterà a questo mondo di crescere.

Edy BiekerAbbiamo parlato del consumatore finale; invece secondo lei come si pongono il barista e il torrefattore di fronte a questa tendenza commerciale?

Sicuramente è una maniera nuova e diversa per promuovere i propri prodotti e stimolare curiosità e conoscenza. Quindi ben venga la possibilità di aumentare le proposte rivolte al consumatore finale. Oggi sappiamo che la maggior parte dei bar offrono un solo prodotto dato da un’unica miscela, e trovare bar con più di un macinatore, in grado quindi di offrire più di una proposta, non è molto semplice. È sicuramente positivo che il consumatore venga portato a scegliere, perché così avrà sempre più interesse a testare e iniziare a crearsi delle sue personali linee di preferenza. Certo questa scelta non può avvenire spontaneamente.

Quindi va guidata?

Va guidata nella maniera più assoluta, proprio perché il consumatore finale, di caffè, ne sa ben poco, anche se ultimamente c’è un certo proliferare di corsi e di attenzioni, ma che sono mirate più agli addetti ai lavori e al barista. Essenziale è scindere l’oggettività dalla soggettività.

Secondo lei, questa è un’opportunità per il torrefattore?

È un’opportunità per il torrefattore, e anche per il barista, a patto che ci sia consapevolezza e conoscenza della materia prima. Se rimane una mera operazione commerciale diventa una bolla che prima o poi scoppierà.

Edy Bieker
Edy Bieker con il premio internazionale SCAE alla carriera che gli è stato conferito al World of coffee di Dublino nel 2016

Il torrefattore italiano ha colto per ora questa opportunità oppure è soltanto l’inizio?

Diciamo che siamo all’inizio. Certificazioni quali il biologico e il fair trade, in cui noi crediamo da tempo, ci hanno messo molti anni per poter prendere piede. Il torrefattore però si sta accorgendo che, se vuole rimanere sul mercato in una competizione commerciale così pressante come quella attuale, deve cambiare qualcosa e quindi, pur con una certa riluttanza, sta andando in questa direzione. Potrebbero sembrare delle mode, ma in realtà dietro ad alcune certificazioni esistono dei concetti ben più ampi, come la sostenibilità ambientale, sociale, e della filiera completa.

Secondo lei ci sono delle certificazioni che è meglio evitare o che non hanno in realtà un gran valore in termini di filiera?

Purtroppo, come abbiamo visto anche da recenti servizi giornalistici, i pezzi di carta spesso “si lasciano scrivere”, se non vengono verificati in maniera attenta. Mi è capitato diverse volte di non trovare coerenza tra quello che viene comunicato con il certificato e la realtà. Entrando nel merito di alcuni tipi di certificazioni, come per esempio la tracciabilità, è chiaro che il controllo di persona sul posto, dove c’è la coltivazione, è indispensabile. Il rischio è che poi, quando si va via, si possa perdere il controllo di ciò che succede.

Come fa la Sandalj Trading a verificare? Qual è la vostra scelta?

Dov’è stato possibile siamo andati a verificare la coltivazione e a incontrare e conoscere di persona i produttori. Abbiamo poi dei solidi e decennali rapporti con i coltivatori. Vincenzo Sandalj passava gran parte del suo tempo nei Paesi d’origine e noi oggi cerchiamo di portare avanti questo stesso tipo di approccio. Stiamo poi molto attenti nel controllare quello che ci viene comunicato e presentato. È chiaro che, soprattutto quando c’è qualche nuova realtà, siamo ancora più zelanti nelle verifiche. La mancanza di difetti organolettici è obbligatoria ma altrettanto importante è lo scambio di informazioni ed esperienze tra le parti.

Immagino che in questi settant’anni di attività, uno dei valori aggiunti sia la corrispondenza tra l’origine e ciò che si trova in tazza.

L’idea di andare a tracciare il caffè al di fuori delle certificazioni classiche e ufficiali, è stata di Vincenzo Sandalj. Nel nostro listino abbiamo inserito il “progetto tracciabili” proprio per la sua intuizione che non voleva essere solo una questione commerciale per scrivere sul listino una nuova colonna di caffè, ma rappresentare un reale sforzo di proporre dei caffè di alta qualità con alle spalle un percorso certo. Nel tempo l’esperienza ci ha permesso di creare dei parametri qualitativi che andiamo a comunicare ai nostri fornitori per poter ricevere un prodotto costante e di qualità. Per ogni campione che riceviamo, a seconda di dove viene coltivato, del sistema di lavorazione ed eventualmente delle varietali, sappiamo già cosa ricercare ed aspettarci. Quando andiamo ad assaggiare, ogni caffè viene valutato secondo questi parametri. La corrispondenza qualitativa per qualsiasi tipologia di caffè trattato è per noi indispensabile e tassativa.

Perché un caffè tracciabile costa di più?

Teoricamente perché un caffè tracciabile dovrebbe essere supportato da un sistema di lavorazione ed elaborazione che permetta a quel lotto di avere una qualità superiore dando il giusto compenso a chi lo produce.

Ma il torrefattore, italiano o straniero, è disposto a pagarla di più?

I torrefattori italiani, soprattutto quelli piccoli, capiscono l’importanza di avere un elemento che li distingua dall’industria, per cui iniziano a essere disposti a pagare di più per avere una qualità superiore. È vero però che queste tipologie di caffè vengono trattate e gestite più all’estero che in Italia.

Di quali tipi di caffè parliamo?

Esistono dei caffè che possono raggiungere dei prezzi proibitivi, ad esempio quelli della Cup of Excellence che vengono venduti all’asta, e che in genere sono acquistati da giapponesi, nord europei, australiani o statunitensi, ma difficilmente dagli italiani. Il rapporto costo ricavo in Italia è ancora abbastanza sentito, anche perché da noi il caffè viene bevuto in maniera molto rapida al banco, a un prezzo basso, senza considerazione per la bevanda. Il punto è che il mercato italiano dominato dal sistema espresso è molto diverso da quello del resto del mondo, dominato dal sistema filtro.

Secondo lei il consumatore italiano capisce la mono-origine, il tracciabile, il caffè di qualità, al banco del bar?

La capisce se gli viene spiegata in maniera intelligente, ma non sempre è facile, considerata la modalità veloce di consumo del prodotto al banco del bar, dove l’attenzione non è centrata sul prodotto bensì su tutto il resto; gli amici, il giornale, il gossip, etc.

Quindi qui c’è un ruolo importante del barista e a monte del torrefattore che forma il barista?

Assolutamente sì. Mentre nel caso del vino il consumatore ha spesso una discreta conoscenza delle diverse qualità ed è mediamente in grado di affinare e seguire il suo gusto personale, nel settore del caffè questa competenza manca. Nel nostro universo si è sempre puntato, invece, al consumo senza dare grandi informazioni. Il caffè viene bevuto come tonico per svegliarsi oppure per fare una pausa durante la quale la dimensione sociale è prevalente su quella del gusto. Mancano quindi proprio i momenti appropriati per dare il giusto spazio all’elemento di degustazione.

Quali sono secondo Sandalj Trading le caratteristiche di un caffè di qualità e che dovrebbero corrispondere anche all’origine. Quando arrivano i campioni di caffè, cosa vuol dire per la Sandalj la qualità: qual è la cosa che andate a cercare?

L’elemento di base più importante da riconoscere sono i difetti. Ovviamente parliamo di espresso, perché l’espresso riesce a estrarre tutto ciò che c’è in un chicco di caffè nel bene o nel male. Anzi, nel male piuttosto che nel bene. Oltre a dover avere delle conoscenze molto specifiche e approfondite su questo però, dobbiamo superare anche un altro scoglio forse più insidioso: non esiste nessuna bibbia che dica quali tipi di aromi più o meno evidenti debba avere il caffè per essere definito “buono”. Bisogna quindi andare a cercare le caratteristiche macro del caffè e saperle interpretare, tenendo presente la zona di provenienza con le sue intrinseche caratteristiche.

Se lei dovesse dare un consiglio al torrefattore e al barista italiano rispetto al concetto di tracciabilità, delle certificazioni, della filiera controllata, cosa direbbe?

Sono assolutamente a favore delle certificazioni e della filiera controllata perché ci permettono di avere un’evidenza maggiore. Non possiamo però prescindere da un controllo qualitativo altrettanto rigido, perché altrimenti verrebbero meno coerenza e professionalità. Se mettessimo il motore di una 500 in una Ferrari, il cliente finale se ne accorgerebbe, ma nel mondo del caffè il consumatore non sa distinguere differenze altrettanto abissali.

Però un giorno il consumatore sarà in grado di avere consapevolezza di cosa significhi qualità. Chi precorre i tempi cercando di fare un lavoro qualitativo negli anni vedrà i benefici di un processo di questo tipo?

È la grande sfida del futuro. Io credo in questo e ci abbiamo sempre creduto anche come azienda. Il nostro mercato è rivolto fondamentalmente al piccolissimo, piccolo e medio torrefattore e abbiamo visto che chi ha lavorato in questa direzione ha avuto dei risultati. È molto faticoso, ma è una strada che sicuramente sta funzionando in Italia come all’estero. È una strada che può essere un’alternativa importante rispetto alla grande industria.

Quindi il segreto è la consapevolezza e la competenza?

Consapevolezza, competenza, ricerca e professionalità.

Un caffè biologico è sempre un caffè di qualità?

No. Magari alcuni caffè sono biologici semplicemente perché non hanno i soldi per comprarsi i fertilizzanti, ma non sono certificati perché nessuno ha seguito la specifica procedura. Il fatto che sia biologico è un elemento molto importante per quanto riguarda la sostenibilità del terreno, dell’ambiente e della biodiversità oltre che dal punto di vista alimentare.

Ma che sia buono, come per tutti i caffè “convenzionali”, non è assolutamente scontato.

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