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Chado: entriamo nella storia della cerimonia del tè giapponese che ha 500 anni

“Oggigiorno i giapponesi partecipano alla cerimonia del tè per motivi sociali e spirituali”, ha affermato Jennifer L. Anderson, professoressa emerita di antropologia presso la San Jose State University. “Per molti è un’occasione di condivisione con gli amici e per apprezzare l’estetica della cerimonia: la disposizione dei fiori, dei rotoli con scritte e disegni e degli utensili, tutti elementi che cambiano in base alla stagione. Questi sono tutti aspetti che sono rimasti immutati nei secoli”

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MILANO – La cerimonia del tè è un rito che in Giappone esiste da 500 anni, quando è iniziata la pratica di questa forma d’arte legata all’isola, il chado (via del tè). Questo rituale prevede determinate modalità di preparazione, di servizio e di degustazione del tè, il tutto svolto in una stanza dedicata a questo momento. Ma chiaramente in questa tradizione è racchiuso molto di più di una tazza calda: parliamo di una corrente di pensiero che si esprime attraverso altri campi, dalla ceramica alla pittura, dalla calligrafia all’architettura, all’abbinamento con il cibo. Proprio per questo, i maestri di questo rito affermano che siano necessari 10 anni di studio per comprenderne la totalità. Leggiamone la storia dall’articolo di Irene Seco su nationalgeographic.it.

Chado: una cerimonia che dura da 500 anni

Nel 1933 lo studioso del Giappone A.L. Sadler scriveva che la cerimonia prevede 37 passaggi, rimasti immutati nel corso dei secoli.

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Ancora ampiamente praticata in Giappone (e sempre di più anche a livello internazionale), la cerimonia del tè è un elegante e codificato rituale che affonda le radici nel pensiero e nel simbolismo zen, concepito per raggiungere una totale immersione nel momento presente e contemporaneamente una condivisa intimità con gli altri partecipanti.

“Oggigiorno i giapponesi partecipano alla cerimonia del tè per motivi sociali e spirituali”, ha affermato Jennifer L. Anderson, professoressa emerita di antropologia presso la San Jose State University. “Per molti è un’occasione di condivisione con gli amici e per apprezzare l’estetica della cerimonia: la disposizione dei fiori, dei rotoli con scritte e disegni e degli utensili, tutti elementi che cambiano in base alla stagione. Questi sono tutti aspetti che sono rimasti immutati nei secoli”.

Medicina e meditazione

Il chado trova le proprie origini nei monasteri buddisti cinesi, dove il tè veniva usato per scopi medicali e come sostanza stimolante durante la meditazione. Nell’epoca della dinastia cinese Tang (618-907 d.C.), il tè era ampiamente apprezzato come bevanda sociale.

Nel periodo dei primi contatti culturali con la Cina dei Tang, Kukai, un monaco giapponese che aveva studiato buddismo in Cina, nell’806 introdusse in Giappone la setta buddista Shingon, portando anche un “mattone” di tè verde alla corte giapponese. Bere tè cominciò ad essere un’usanza popolare tra l’aristocrazia della corte del Giappone e nelle sue cerimonie buddiste.

Un altro passo fondamentale verso l’integrazione del tè in Giappone avvenne nel XII secolo

Quando il monaco giapponese Eisai tornò da un periodo di studi in Cina portando con sé i semi del tè e un metodo per fare il matcha, un tè verde polverizzato usato per realizzare una bevanda piuttosto densa. Eisai portò in Giappone anche il buddismo zen. È considerato il fondatore dello zen Rinzai, che si basa sulla credenza che l’illuminazione si può raggiungere svolgendo le attività quotidiane. I monaci giapponesi applicarono questa filosofia alla consumazione del tè, che alla fine da una serie di pratiche apprese in Cina si trasformò in un rituale distintamente giapponese ancora oggi conosciuto come chado, ovvero cerimonia del tè.

“La cerimonia del tè è oggi un fenomeno tipicamente giapponese”, afferma Anderson, “l’enfasi conferita agli aspetti estetici stagionali e alla coreografia formale sono aspetti molto giapponesi”.

Il chado e i samurai

Durante il periodo Muromachi (1333-1573 circa), mentre i raccolti del tè giapponese aumentavano, la bevanda acquisiva popolarità tra le classi di guerrieri e mercanti, che organizzavano sontuosi banchetti con tazze di matcha. A quei tempi veniva servito anche il sake, il che trasformava la consumazione dei tè nei monasteri in grandi feste, con giochi e letture di poesie, gare e scommesse. Gli ospiti partecipavano alle competizioni mostrando preziose ceramiche e utensili da tè cinesi, insieme a pergamene e disegni. I grandi guerrieri arrivavano a inviare appositamente emissari in Cina per procurarsi oggetti per tali occasioni.

Nel 1467 iniziarono quasi due secoli di guerre, che videro i combattenti samurai lottare per il controllo del Giappone durante il Sengoku, o “periodo degli Stati combattenti”. In questo periodo la cerimonia del tè divenne un rito più formale. Lo studioso del Giappone Herbert Plutschow scrisse che il tè, sulla base dei concetti zen di armonia e rispetto, aiutò a creare consenso tra le fazioni rivali. “Per arrivare a superare le conflittualità, la cerimonia del tè divenne un’arte rituale estremamente raffinata”, disse, “senza il tè, il periodo degli Stati combattenti avrebbe probabilmente portato molta più distruzione”.

L’affinamento del rituale del tè fu il prodotto di tre maestri del tè, che ebbero il ruolo di consiglieri degli shogun durante questo periodo

Il primo fu Murata Shuko (1423-1502), un monaco zen che divenne un mercante di tè a Kyoto. Rifiutando gli appariscenti e abbondanti banchetti, Shuko riteneva che la pratica della consumazione del tè andasse oltre l’intrattenimento, l’uso medicinale e le cerimonie nei templi: per lui la preparazione e la consumazione del tè rappresentavano un percorso spirituale, che richiedeva un’estetica più semplice.

L’unico documento attribuito a Shuko, il Kokoro no fumi, o “Lettera dal cuore” fu scritto a un discepolo; riporta che la bellezza si può trovare non solo nella perfezione degli utensili cinesi, ma anche nella semplicità ed essenzialità degli utensili giapponesi. Shuko vedeva un valore estetico nei cucchiai da tè e vasi da fiori in legno e bambù, tanto quanto nei prodotti cinesi in avorio e bronzo.

Shuko prediligeva la semplicità anche per lo spazio in cui consumare il tè, sostenendo la necessità di rimuovere il disordine che distraeva dal “momento”. Invece di vari bouquet di fiori, usava una singola disposizione di fiori stagionali; invece di varie pergamene di scritti e disegni, ne usava solo una. I suoi utensili per il tè erano essenziali, e presentavano i colori naturali della terra invece che colori accesi. La stanza stessa era composta da solo quattro tatami e mezzo (quasi 7,5 metri quadrati), per creare uno spazio simbolico noto come soan cha, o “tè della capanna di paglia”. Molti si convertirono a questa atmosfera di tranquillità, disciplina e solennità, specialmente tra i samurai.

La via del tè o chado

Il monaco buddista Takeno Joo (1502-1555) portò avanti la semplicità zen del “tè della capanna di paglia” di Shuko. Studente di poesia e arte del tè, Joo fu il primo a usare in relazione alla consumazione del tè il termine wabi, un concetto complesso che si può riassumere in “bellezza pura e rustica”. In termini poetici, Joo riteneva che la semplice immagine della neve caduta su una montagna solitaria fosse più poetica dei fiori e dei profumi primaverili. Guidata dalla filosofia wabi, la cerimonia del tè iniziò a basarsi su semplicità e umiltà.

Il discepolo di Joo, Sen no Rikyu (1522-1591), avrà l’influenza più profonda sul chado. Le sue linee guida per le procedure e gli utensili, nonché per l’architettura della casa da tè e il giardino sono la base delle moderne scuole per imparare “la via del tè”. Rikyu abbinò la tranquilla semplicità del wabi con l’apprezzamento di ciò che è vecchio e sbiadito, chiamato sabi. Insieme, wabi-sabi è un concetto che si è esteso ad altre forme d’arte giapponese, ma in nessuna si esprime come nella cerimonia del tè.

Rikyu introdusse anche cambiamenti più radicali

Abbassò l’altezza dell’entrata della “capanna del tè” per portare tutti gli ospiti a doversi abbassare per entrare – un modo per eliminare le distinzioni sociali (i samurai dovevano lasciare la loro spada all’ingresso). Rikyu credeva nell’uguaglianza di tutti i partecipanti alla cerimonia del tè, e questa era un’idea rivoluzionaria per il rigido sistema gerarchico vigente al tempo in Giappone.

La cerimonia del tè di Rikyu prevedeva tazze semplici (prodotti locali giapponesi, ma anche coreani e cinesi), e gli ospiti venivano fatti passare attraverso un giardino adiacente alla stanza del tè, come percorso per rasserenare lo spirito prima di entrare. Una stanza da tè da lui progettata nel 1582 è ancora più piccola di quella di Shuko, con solo due tatami (3,3 metri quadrati). È chiamata Taian ed esiste ancora, presso il tempio Myokian vicino a Kyoto.

La cerimonia del tè di Rikyu è rimasta sostanzialmente identica per secoli, ma nel XIX secolo il rinnovamento Meiji ha ampliato il mondo delle cerimonie del tè, includendo le donne. Prima del rinnovamento Meiji del 1868, la cerimonia del tè era un rito quasi esclusivamente maschile, ma alla fine del XIX secolo fu introdotto nelle scuole nell’ambito dell’istruzione delle giovani donne giapponesi al galateo e all’etichetta.

Nel 1894 le donne ricevettero la certificazione per l’insegnamento professionale, e presto divennero una presenza vitale nel mantenimento dell’arte della cerimonia del tè. Dopo gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale, la notorietà della cerimonia del tè crebbe nell’ambito della preservazione delle tradizioni giapponesi. Oggi la maggior parte degli insegnanti e studenti del tè sono donne, anche se il numero degli uomini che frequentano le sale da tè per sfuggire allo stress della vita quotidiana è in aumento.

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