domenica 24 Marzo 2024
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Brasile: “L’uso smodato di pesticidi sta decimando i lavoratori delle piantagioni”

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Dalla Corte
Demus Lab - Analisi, R&S, consulenza e formazione sul caffè

Sono molti coloro che ignorano che il caffè potrebbe anche essere coltivato in condizioni di schiavitù e mettendo a rischio la salute dei lavoratori nelle coltivazioni.

Una ricerca fatta dai giornalisti indipendenti di Danwatch ha messo in luce come l’uso smodato di pesticidi tossici stia decimando i lavoratori delle piantagioni di caffè brasiliane. Il principale responsabile di questa morìa è il Terbufos, un composto tossico che viene usato come insetticida ed è legale in Brasile ma non in Europa, dove è stato bandito.

Il Terbofus può uccidere anche solo con un minimo contatto con la pelle: se si rimane intossicati si possono manifestare disordini visivi, vertigini, vomito, difficoltà di respirazione e perdita di coscienza.

Sprezzanti del pericolo per i loro dipendenti, i padroni delle piantagioni non forniscono le adeguate protezioni. «Non mi hanno mai insegnato come fare, il padrone mi ha detto: “Qui c’è lo spray e qui c’è il prodotto, vai e spruzzalo”», racconta Ronaldo Vicente Antonio. Indossava vestiti normali, a volte anche gli stessi per due o tre giorni di fila, una mascherina di carta e dei guanti di gomma, come quelli per lavare i piatti; a volte se li toglieva per pulire la pompa e tutto il pesticida gli finiva sulle mani. Oggi Ronaldo ha difficoltà a camminare e a fare i più piccoli gesti.

Come se ciò non bastasse, sempre un’inchiesta di Danwatch denuncia le condizioni in cui sono costretti a lavorare i raccoglitori e coltivatori di caffè. Ne abbiamo parlato più volte ma cogliamo l’occasione per ribadire che un cibo per essere buono dovrebbe essere anche pulito (e quindi non deve danneggiare l’ambiente) e giusto, rispettoso di chi lo produce. Perché se il cibo è piacere, che gusto si può ricavare dal mangiare qualcosa che ha per essere prodotto ha creato sofferenza e malattia?

I lavoratori delle industrie del caffè in Brasile sono privi di contratto e come dicevamo prima lavorano senza le adeguate protezioni a contatto diretto con i pesticidi.

Considerato che il Brasile è il primo produttore mondiale di caffè, con quasi 45 milioni di sacchi all’anno (per un totale di più di 2 miliardi e mezzo di chili messi sul mercato), la probabilità che l’espresso che stiamo bevendo sia fatto con chicchi brasiliani è piuttosto elevata.

In più le grandi industrie di cui stiamo parlando, la Nestlé in primis, possiedono il 40% del mercato globale del caffè con marchi certamente noti come Nescafé, Nespresso e Dolce Gusto.

«Il problema più grande è che quasi la metà dei lavoratori nelle piantagioni di caffè non ha un contratto e perciò perde i benefici sociali a cui avrebbe diritto», spiega Jorge Ferreira dos Santos Filho, coordinatore del movimento sociale Adere (Articulação dos Empregados Rurais de Minas Gerais). Malattia e ferie retribuite, pensione e sussidio di disoccupazione sono un sogno per i lavoratori delle piantagioni brasiliane. Nonostante questo, spesso lavorare senza contratto è molto più appetibile dal punto di vista economico perché i padroni delle piantagioni offrono un salario più alto e i lavoratori, magari costretti da debiti, accettano senza rendersi conto di quanto si rendano vulnerabili.

Le condizioni lavorative sono simili a quelle che abbiamo descritto molte volte parlando di caporalato in Italia. Le ore di lavoro sono tante ed estenuanti: 10, anche 14 al giorno. I lavoratori stagionali, ingaggiati solo per la raccolta di caffè, non hanno una paga fissa ma ricevono un compenso in base a quanti sacchi riescono a riempire: un salario bassissimo sia chiaro, si parla di 3/5 dollari (cioè 2/4 euro) per riempire un sacco da 60 litri. Il prezzo del caffè poi sale parecchio passando nelle mani dei vari intermediari (esportatori, importatori e grandi industrie), fino ad arrivare a quello che troviamo sugli scaffali dei nostri supermercati: meno del 2% del prezzo al consumatore va a chi ha raccolto i chicchi.

Come le condizioni lavorative, anche quelle abitative sono altrettanto precarie, tanto che i lavoratori, senza l’accesso ad acqua corrente, tra le altre difficoltà devono bere dalla stessa fonte delle mucche.

Ecco perché tra i tanti progetti dei Presìdi, Slow Food ne ha dedicati tre al caffè: quello del caffè robusta di São Tomé e Príncipe, del caffè selvatico della foresta di Harenna, e del caffè robusta di Luwero. Come trovarli? I Presìdi del caffe vengono importati in Italia grazie al lavoro dell’impresa sociale Equoqui di Alba (Cn). Qui potete trovare la lista dei torrefattori che usano il caffè dei Presìdi.

Altre vie percorrono comunque la strada del commercio equo e solidale: cercate questo marchio in torrefazione, al supermercato, nella bottega sotto casa. Avrà un aroma più buono.

Francesca Monticone
f.monticone@slowfood.it

Fonti
International Coffee Organization
Danwatch

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